domenica 28 novembre 2010

LA FESTA DEI MORTI

di Ivo Ginevra

Noi in Sicilia abbiamo “i morti”.
Mi spiego meglio. È una vecchissima tradizione dove la notte dell’uno novembre i morti, cioè le anime dei parenti defunti, fanno trovare al risveglio dei bambini, dolci (la frutta di martorana – marzapane), la pupaccena (una statuetta di zucchero solidificato con l’interno cavo a forma di pupo siciliano) dei biscotti secchi (detti ossa di morto) ed un regalo di poco conto (a me regalarono un fucile con i tappi). Poi si va al cimitero e quel cordone ombelicare che lega la famiglia, sebbene reciso dalla morte fisica, vive e si tramanda nelle generazioni.

Quella dei morti è una festa pagana tipica della nostra tradizione. L’origine che si perde nella notte dei tempi è sicuramente tribale e anticamente consisteva nell’offerta simbolica di alimenti di forma umana da parte dei defunti con l’intento di tramandare nei vivi la loro forza e il loro ricordo (riti ancora in vigore in qualche tribù dell’Indonesia e dell’Africa).

La tradizione si è anche rafforzata nel tempo con l’usanza del pranzo offerto dai vicini di casa del defunto ai familiari che avevano subito la perdita del parente, dato che non avevano potuto provvedere ai loro bisogni alimentari.

Questa tradizione grazie ad Halloween rischia ora di scomparire, infatti, i mercati rionali che in questo periodo erano invasi di luci, colori sgargianti, sapori, odori e luccichii di giocattoli stanno per essere soppiantati da una marea di colori neri, lugubri e porcherie di plastica fatti da teschi, pipistrelli e costumi da streghe d’indubbio gusto.

Grazie anche al bombardamento mediatico i nostri bambini al posto della frutta di martorana, adesso vogliono un zucca di plastica. Vogliono un tetro abito nero ed un trucco sanguinolento come se fossimo a carnevale, e in definitiva non vanno più al cimitero a rendere un omaggio ai morti facendo scomparire una buona tradizione.

Anche la scuola e soprattutto quella materna ed elementare, grazie ad un personale poco attento contribuisce molto a soppiantare questa educativa tradizione tipicamente nostra.

La festa dell’attesa del regalo col giorno del ricordo si sta velocemente trasformando in una pacchianata americaneggiante, non sentita, inutile, diseducativa, stupida e soprattutto estranea alla nostra cultura, oramai tesa alla globalizzazione, all’appiattimento del tutto, ed a scimmiottare malamente lo sterile modello americano.

Mi fanno pena i nostri figli che crescendo non avranno come me il ricordo del sorriso mio nonno che nella mattina della festa, regalandomi la frutta di martorana, il pupo di zucchero, ed il fucile di latta mi diceva: “questi te li ha portati la nonna che non c’è più e ti pensa sempre”. Poi andavamo a portarle un fiore al cimitero.

Tenetevi pure Halloween.

Ivo Tiberio Ginevra

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA

CARLO EMILIO GADDA


Garzanti Editori.


Recensione di Ivo Ginevra




È impossibile fare una recensione a questo Romanzo con la “R” maiuscola e, di fatto, non la farò perché non so fare quei discorsi da professoroni sull’importanza di questo lavoro nell’ambito della letteratura italiana del novecento. Se me n’arrogassi il compito dovrei scrivere dell’arte del Belli nella parlata in romanesco, e dovrei fare riferimenti anche a Manzoni e “La ricerca dello stile necessario”. Dovrei trattare necessariamente dell’importanza che il dialetto, e la lingua parlata aveva, ha ed avrà nella storia dell’opera narrativa, e spingermi fino al nostro secolo con riflessioni su Camilleri, Niffoi, ecc., ma ripeto non sono quel professore che potrebbe dire, quanto altri emeriti critici hanno già detto.

Dico solo che mi è piaciuto e anche molto.


Dico che da siciliano ho letto, sì con un po’ di difficoltà quest’opera intrisa di spirito romano, ma che alla fine ho capito tante cose sulla romanità che forse non avrei afferrato leggendo altri romanzi su Roma.

Dico che questo classico non deve cadere nel dimenicatoio e che dovrebbe essere insegnato nelle scuole e soprattutto in quelle del Lazio obbligatoriamente.

Dico che il grande regista cinematografico Pietro Germi ha fatto uno splendido film, con il grande Saro Urzì, e che anche questo non dove essere dimenticato.

Dico che me pure venuta la voglia di parlarci in romanesco e quasi quasi in faglja me ce diverto pure a parlaglje, se così se’ scrive.

Solo per farvi capire quanto è bello il romanzo, quanto grande è la genialità del suo autore, e soprattutto, per farvi leggere sto capolavoro di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, vi trascrivo alcune frasi del romanzo che sono più eloquenti di migliaia di discorsi cattedratici, cominciando dalla descrizione del suo protagonista e credetemi, c’era da trascriverlo tutto.

Ingravallo

Tutti oramai lo chiamavano Don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente negli affari tenebrosi………Vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi inpercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana.

…..In simili materie Don Ciccio era piuttosto versato : intuizione viva, e fino dagli anni della pubertà: aperta, poi, a tutti gli incontri demici della stirpe “fertile in opre e acerrima in armi”.

Un dubbio naturalmente. Un dubbio perfido però…che gli faceva dolorar le tempie, un dubbio dei più Ingravalleschi, dei più Doncicciani.
 
“Mah” pensò Don Ciccio per confortarsi “qualunque figlio ‘e bona femmina è illibato, fino al suo primo amore … con la questura.

 
Il collega di Ingravallo
 
Per quello che era donne, poi, e sfruttatori de donne, amore, amanti, matrimoni veri, matrimoni finti, corni e controcorni, nun c’era che lui, se po’ dì. …be’ lui in quela fanga, ce schizzava dentr’è fora come un autista de piazza. Lui sapeva a memoria tutte le coppie, co tutte le parentele e tutte le ramificazioni che je sbottaveno fora a primavera, o in testa o giù de testa:… co tutti l’incastri possibili: nascita, vita, morte e miracoli. Sapeva li buchi ch’affittaveno, e quanno se moveveno da qua pe annà là, le cammere matrimoniali, li cammerini, le cammere a ore, li sommiè e insino l’ottomane, co tutte le purce che ce stanno de casa, una per una.

 
Il maresciallo Santarella

Con la pelle generosa degli italici, nelle lor messi cotti a luglio, a sole trebbiato: una salute da sensale di campagna.


La notizia criminis
 
Quando i due agenti gli dissero: “Se so’ sparati a via Merulana: ar duecentodicinnove: ner palazzo de li pescicani…”, un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra.

 
Descrizione dei luoghi

Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso di uggia, e di canarinizzata costrizione. Davanti al casermone color pidocchio una folla.

 
La folla e le metafore di Ingravallo

Nell’andito e in portineria un’altra piccola folla, inquilini dello stabile: il cicaleccio delle donne. Ingravallo salì al terzo piano della scala A. Giù seguitò la gran ciarla: le voci spiegate o addirittura canore delle femmine, emulate da qualche trombone maschio, a quando a quando ne venivano addirittura sopraffatte: come le cervici chine delle vacche dalle gran corna del toro.
 
….Era una confusione di voci e di aspetti: serve, padrone, broccoli….Vocine agri o infantili aggiungevano dinieghi o conferme. Torno torno un barboncino bianco scodinzolava eccitato e de tanto in tanto abbaiava puro lui: il più autorevolmente possibile.
 
Le donne volevano sapè. Tre o quattro, deggià, se sentì che parlaveno de nummeri: ereno d’accordo p’er dicissette, ma discuteveno sur tredici.

 
La vittima

La signora Liliana di quando in quando, si sarebbe creduto sospirasse. Ingravallo notò che due o tre volte, a mezza voce, aveva detto mah! Chi dice ma, cuore contento non ha.

 
L’azione criminale

Lui rivoltosi, le aveva puntato una pistola sulla faccia: “Azzittete befana, sinnò te brucio”.

 
Gli avvocati
 
Oh! Gli avvocati! Com’erano simpatici! E che buoni clienti! Bisognò un attimo, ma mai ad esser lei la cliente loro, cogitò.


Descrizione di un’inquilina

La Menegazzi nun s’era potuta pettinà: pareva una perucca de peli de granturco co li nastri, quello che ci aveva in testa. Diceva che il palazzo aveva la maledizione dentro i muri.


La stampa (piuttosto attuale già da allora e invasiva…solo quando vuole)

Era venerdì. Li cronisti e il telefono avevano rotto l’anima tutta la sera: tanto a via Merulana che giù, a Sante Stefene.

 
Le indagini

Le indagini si sarebbero dovute estendere a mezza penisola, con un lento monsone di fonogrammi.

“bè: allora dite: subito, bisogna rispondere, cara la mia madama: no pensarci un secolo. A pensarci tanto l’è di sicuro una bugia.

Il volto gli si illuminò dell’aurora del ci siamo


Descrizione del fabbro (superba)

Da ultimo fu chiamato un fabbro. Un vereo Don Giovanni delle serrature: ciaveva un mazzo de rampini co un beccuccio in fonno, e je bastava de faje appena er solletico o coll’uno o coll’antro, che quelle già se sentiveno de nun potè più resiste. Pareveno come una donna virtuosa che perde i sensi.


Una bella ragazza con la dote

Era una splendida figliola, ed era un cofano di gioie… Era una figliola, con una scatoluccia: di cui loro, i Valdarena, avevano affidato al marito la chiavicina: e il diritto di servirsene, tric tric: il santo usufrutto.

 
Una confessione

…lei arrossì, abbassò gli occhi sul ventre, come l’Annunziata quanno che l’angelo se mette a spiegaje tutta la faccenda: poi prese coraggio a risponne…
 

Lo spirito romano di Ingravallo
 
Era una giornata meravigliosa: di quelle così splendidamente romane che perfino uno statale di ottavo grado, ma vicino a zompà ner settimo, be’, pero quello se sente aricicciasse ar core un nun socchè, un quarche cosa che rissomija a la felicità.

“Amico, che amico! amico ‘e chi?” Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-investigativa tanto in uso agli Apuli.

Ereno passati li tempi belli …che pe un pizzico ar mandolino d’una serva a piazza Vittorio, c’era un brodo longo de mezza paggina.

 
Ingravallo e il vino
 
A Marino, artro che quel’ambrosia ce sta! A la grotta de sor Pippo ce steva un bianco malvagio: un vigliacchetto de quattr’anni in certe bottije che cinque anni prima averebbe elettrizzato il ministero….


Il risveglio di Ingravallo

A occhi ancora chiusi o quasi, infilò le ciabattazze: che parevano attenderlo come due bestiole accucciate sul parquet: attendere i piedi ognuno il proprio…Un Apollo non più ventenne, un tantino pelosetto. Si grattò il testone, si appressò alla vaschetta, e dato libero corso alle linfe s’insaponò il naso e la faccia, il collo e le orecchie. Sgrullò il parruccone sotto il rubinetto alto del lavabo, con quei soffi e quelle strombate de naso, come di foca venuta a galla dopo le sue giravolte sott’acqua…

 
Ingravallo e l’invidia

Non s’azzardi d’accusà Giuliano, verga splendida della ceppaia, solo perché ne deve subire il confronto.

“ah” fece Don Ciccio, “congratulazioni sentitissime”. Una smorfia atroce, una faccia di catrame…


Le battute di spirito di Ingravallo

“Ci vuol poco” grugnì don Ciccio fra sé e sé: “dove l’hanno comprata la nafta, da ‘o broccolaro?”.

 
Ingravallo e la donna

La personalità femminile – brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando a se stesso – che vvulive di? …’a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii.


Riflessioni di Ingravallo sul ruolo del marito nel matrimonio senza figli

...mancandole i figli il marito cinquantottenne decade senza alcun demerito a buon amico, ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei soprammobili, a mera immagine ovvero, cioè, a manichino di marito: e l’uomo in genere è degradato a pupazzo. Un arnese che non serve.

 
Antifascismo
 
Chi è certo d’avere ragione a forza, nemmeno dubita di poter avere torto in diritto. Chi si riconosce genio e faro delle genti, non sospetta d’essere moccolo male moribondo o quadrupede ciuco.

…che da quanno nun c’era ancora sto Pupazzo a Palazzo Chiggi, a strilà dar barcone come uno stracciarolo.

Ladro de pentole e di casseruole a tutte genti: co la scusa de facce la guerra all’Inghilterra.

…il testa di morto in pennacchi eruttò che la polizia….

…o da chilo ferente d’ ‘o palazzo Chigge.

Ivo Tiberio Ginevra



EVERYMAN

PHILIP ROTH

EINAUDI EDITORE

Recensione di Ivo Ginevra

Premetto subito che Everyman è un buon libro, che mi è piaciuto e che l’ho subito riletto;

che Roth è indubbiamente uno dei più grandi scrittori contemporanei;

che il dono di scrivere di Roth è fuori dal comune;

che Roth è insuperabile nel dosare il racconto e bilanciare tutti i rapporti fra il protagonista e gli altri personaggi;

che tutte le sue riflessioni sulla morte, la vecchiaia, la malattia resteranno indelebili nella mia memoria perché uscite fuori dall’intimo riflessivo di ogni uomo e narrate con una incisiva e disarmante semplicità;

che la narrazione è piuttosto originale e procede fluida nel difficile campo dei salti temporali;

che ho apprezzato molto l’autoironia, il nichilismo e la tragicomicità di Roth in questo racconto privo di qualsiasi metafora;

che la chiusa del racconto con il dialogo fra il becchino ed il protagonista è una pietra miliare della letteratura contemporanea, in grado di richiamare alla memoria l’autorevole figura di un grande metafisico come “Amleto”.

Tutto quanto premesso e considerato

mi autorizzo a criticare un papabile premio Nobel partendo dal titolo, perché non è azzeccato e non gli si addice per niente.

Io lo avrei chiamato “Morte, vecchia, malattia, pentimento di un pubblicitario di successo”, senz’altro il risultato sarebbe stato migliore. L’opera letteraria, infatti, parla proprio di un pubblicitario di successo in pensione, intento a fare i conti con la vita che gli è scivolata innanzi con tutti i suoi amori, e indugia sempre sulla continua demolizione del corpo da parte della vecchiaia e della malattia che lo porteranno inevitabilmente alla morte.

Il romanzo è un continuo fare i conti con la morte. Inizia con il funerale del protagonista, continua con la scoperta della morte degli estranei e delle persone care, finisce con la propria morte, dopo avere visto lo scadimento del corpo attaccato dai morsi di una vecchiaia tiranna che tutto sbriciola, che tutto demolisce.

Il nostro protagonista giunto alle soglie della senilità traccia il bilancio della sua vita, con la costante presenza delle malattie, ma non è un conto obiettivo che lo rende credibile, perché privo d’autocritica.

Mai il protagonista di questo romanzo ha pensato di essere stato un uomo “fortunato”, di avere vissuto fino a 75 anni con una gran reputazione, con successo, con soldi, con donne stupende, viaggiando da Parigi ai Caraibi e circondato da tante belle cose che un Everyman qualunque non può permettersi di sognare.

Sì, ha anche sofferto, ma le pessime relazioni matrimoniali sono il frutto del suo esacerbato egoismo.

Ha sofferto per la morte dei genitori e delle persone care, ma chi non soffre o soffrirebbe per questo.

Ha sofferto perché malato, infatti, ha subito diverse operazioni al cuore con la paura che la malattia vinca sulla vita, ma permettetemi di dire che non c’è niente d’incredibile in tutto questo. Milioni di persone nel mondo tirano avanti in questa maniera, basti pensare che pure il sottoscritto è un cardiopatico ed ha subito 3 interventi al cuore (a proposito, la descrizione delle angioplastiche rende bene l’idea dell’estraneità del corpo nel processo operativo di una sala chirurgica ed è ottimamente descritta, ma non vi è alcun accenno in tutta l’opera, alla schiavitù della pillola, vero incubo di chi deve fare i conti con la malattia che giornalmente ti ricorda di esserci). Proprio per tutto questo il protagonista mi sembra privo d’attendibilità ed il libro a tratti riesce a scadere nella mera contabilità degli acciacchi, come in una qualsiasi operazione di ragioneria, dove il risultato finale è purtroppo sempre lo stesso.

Anche un altro titolo si sarebbe addetto a questo lungo racconto, come ad esempio: “La solitudine di un uomo di successo”.

Questo perché il nostro acritico personaggio è solo nelle malattie, solo nella vecchiaia, solo nella morte stessa, ma non è quello che può definirsi un povero Cristo, un disgraziato segnato dalla vita, dal destino. È uno che ha dato, che ha preso anche molto, e che solo prima di morire, ha capito di avere bisogno degli altri.

È un uomo che alla fine della vita paga il suo sviscerato egoismo, frutto della civiltà del benessere e capisce gli sbagli.

Manca una critica seppure velata da parte dello scrittore, al personaggio che dalla vita ha saputo prendere solo l’effimero, fatto di fama, soldi, donne a scapito dei valori fondamentali dell’esistenza umana.

Per finire permettetemi una terza e ultima disapprovazine sul titolo.

Se Everyman prende il nome da un classico dell’antica drammaturgia inglese che metaforicamente ha in sostanza l’appello di tutti gli uomini innanzi alla morte, la sua traduzione letterale in “ogni uomo” ha la pretesa universale di accumulare, svilire, forfettizare e soprattutto spersonalizzare ogni essere umano solo perché nasce, vive e muore.

“Ogni uomo” non è uguale all’altro, perché vive in maniera diversa, perché affronta la vita, l’amore, la vecchiaia e la morte in maniera diversa dall’altro. L’assunto di Roth con la sua pretesa d’essere tutti uguali solo perché viviamo, amiamo e moriamo è troppo collettivo, comune, assolutista e cinico e non sposa il titolo del racconto, finendo per depistare il lettore che ovviamente non s’identifica.

Se è vero che tutti gli esseri umani hanno in comune una vita ed una morte, è anche vero che il percorso è sempre diverso per tutti, anche se porta allo stesso posto.

Proprio per questo ogni uomo non ha niente di comune con gli altri. Perché ogni uomo è diverso. Perché ogni uomo è arbitro del proprio destino.

Ivo Tiberio Ginevra

IN DUE SI UCCIDE MEGLIO

GIUSEPPE PASTORE 
STEFANO VALBONESI

“Quando i serial killer agiscono in coppia”

EDIZIONI XII
 
Recensione di Ivo Ginevra

"Capire perché una persona possa dedicare la propria esistenza all’omicidio e scandirla al ritmo delle violenze più efferate non è facile……. Tenendo presente ciò, capiamo allora come ancor più difficile sia capacitarsi del fatto che, a volte due perfetti sconosciuti possano unire le loro forze per perpetrare dei crimini orrendi e incamminarsi assieme lungo un percorso disseminato di morte. Partendo da tali considerazioni, questo libro non cercherà dunque di spiegare perché esistano assassini seriali di coppia. Questo libro vi mostrerà piuttosto cosa la malvagità combinata di due persone abbia potuto generare e come essa si sia manifestata”.

Ho volutamente trascritto parte dell’introduzione del libro perché l’essenza di questo lavoro sta tutta qui, proprio nell’introduzione, pertanto, leggendo questo volume non troverete le dissertazioni medico scientifiche, filosofiche, sociali ecc. ecc. di autori che hanno la pretesa di scrivere una pagina miliare nello studio della fenomenologia delinquenziale, ma troverete solo una lucida ed equilibrata narrazione di storie criminali, dove lo stile asciutto e incalzante guarda al fenomeno in se stesso applicando le varie teorie psicologiche elaborate dai migliori studiosi, direttamente ai singoli casi concreti.

È proprio la cura usata dagli scrittori nella descrizione dei singoli casi, utilizzando anche le confessioni dei serial killer, a far comprendere con disarmante semplicità le varie teorie degli studiosi del settore, come ad esempio quella dell’interazione “incube succube”, della coppia Lake e Ng, o quella della “mutua concordanza”, applicata alla “coppia venuta dall’inferno” Lucas e Toole, oppure quella dell’”uomo nel giusto” di Gallego e Williams, ma in questo libro nulla è più disarmante e realistico dei dialoghi criminali per far capire l’orrenda portata del fenomeno: “uccidere qualcuno è come fare una passeggiata, se volevo una vittima non dovevo far altro che procurarmela” (Henry Lee Lucas) o peggio : “….Ng le taglia i vestiti. – “Perché mi fate questo” chiede. “Perché non ci piaci. Dobbiamo metterlo per inscritto?” “Ridatemi mio figlio e farò tutto ciò che volete”. “Farai tutto ciò che vogliamo in ogni caso”….la ragazza non sa che sono già tutti morti (Lake e Ng)”.

La scelta degli autori di concentrarsi solo sul fenomeno degli omicidi seriali di coppia è senz’altro una scelta vincente, perché va a colmare una lacuna nel panorama della letteratura specialistica, inoltre, la fenomenologia è molto ben studiata, infatti, dapprima tratta nei particolari le caratterizzazioni dei singoli “predatori”, e poi analizza le dinamiche comportamentali della coppia.

La perfezione dello studio è data anche dall’analisi d’alcuni dati statistici recenti e soprattutto dalle tipologie che formano la coppia: uomo/uomo, uomo/donna, donna/uomo, donna/donna, dove il primo indicato del duo è il dominante della coppia.

L’esame degli scrittori oltre a scavare nel binomio di formazione dell’accoppiata seriale (amici, amanti, parenti), ne specifica statisticamente l’appartenenza allo status sociale (benestante, gay, lesbo) ed anche l’aspetto statistico geografico, che purtroppo attribuisce all’Italia un tragico primato.

Il libro è arricchito pure da un’ottima bibliografia, dagli interventi dell’esimio criminologo Ruben De Luca e soprattutto dalla rigorosa descrizione dei crimini tratti dalle cronache giudiziarie.

Va rilevata anche l’ottima vena narrativa di Giuseppe Pastore e Stefano Valbonesi. Gli Scrittori, infatti, riescono con semplicità, chiarezza e precisione a trattare un argomento inquietante e assolutamente difficile, come quello degli omicidi seriali, con un apprezzabile tocco letterario, fra il noir incalzante ed il sociologico puro.

In conclusione posso dire che quest’indagine di Giuseppe Pastore e Stefano Valbonesi sulla psiche umana deviata è raccolta in un libro che si legge tutto di un fiato e che sarà sicuramente d’aiuto a tutti gli operatori e non del settore.

Ed anche se scontato, lasciatemelo dire: “In due si scrive meglio”.

Ivo Tiberio Ginevra





sabato 9 ottobre 2010

GLI ASSASSINI DI CRISTO

Ecco la copertina del mio primo romanzo che sarà disponibile in tutte le librerie da gennaio 2011.
E' un giallo noir ambientato in Sicilia
Guarda il Booktrailer Nero
Guarda il Booktrailer Bianco
Per informazioni e acquisto delle copie autografate contattare ginevraivo@libero.it oppure entra nel sito http://digilander.libero.it/ginevraivo/index.html

sabato 18 settembre 2010

TRAINSPOTTER

GIANFRANCO MANFREDI


FELTRINELLI

Recensione di Ivo Ginevra



Chiedo subito scusa a Gianfranco Manfredi se non lo conoscevo come scrittore, ma la dritta me l’ha data Serge Quadruppani nell’introduzione al racconto “La matematica non è un’opinione” inserito nella raccolta AA VV edita Mondadori con il titolo “14 Colpi al cuore”.

Quadruppani, e non è certo l’ultimo arrivato, scrive di Manfredi: ”….passando per il giallo ….considero Trainspotters un lavoro esemplare per rigore d’intreccio e forza dei suoi personaggi”.

Ovviamente con una presentazione di questo tipo non potevo fare a meno di leggere Trainspotter, ma trovarlo non è stato facile perché il libro edito dalla Feltrinelli non è più in catalogo. Comunque, con un po’ di fatica e grazie alla famiglia di Internet l’ho trovato e posso tediarvi con una mia recensione.

Dico subito che n’è valsa la pena perché il romanzo è davvero bello ed anche se pubblicato nel 1989 resta spaventosamente attuale.

La storia cattura subito e focalizza in modo eccellente la figura del protagonista, già da quando era bambino e viveva “…in quel piccolo asfittico buco di provincia”, infatti, allo zio che se lo portava via in macchina “decantando le meraviglie della città con le opportunità che avrebbe trovato”, alla domanda “Ti sei mai chiesto cosa vuoi fare da grande?” Sacha rispondeva semplicemente: “Voglio guardare i treni”.

E Sacha da semplice appassionato di treni diventa un Trainspotter. Uno di quelli, convinti, ossessivi. Uno di quelli che trascorre ogni momento libero della sua vita a studiare locomotive, linee ferroviarie, orari, treni. Uno che vive fino in fondo l’aria che si respira nelle stazioni, fra i binari ed i risucchi rapidi del vento smosso dai vagoni. Sacha è uno che erra sulle traversine fotografando, catalogando. Studiando. E proprio in uno di questi vagabondaggi inizia il suo ineluttabile destino mirabilmente narrato da Gianfranco Manfredi. “……la processione dei vagoni sembrava interminabile. Sacha avrebbe quasi potuto toccarli. Faticava a tenersi dritto eppure non faceva nulla per scostarsi, come perso in una fantasticheria. Ebbe la sensazione di un rallentamento infinito mentre il vagone numero 6 gli scivolava davanti…. Una ragazza dai capelli azzurri… tutto era azzurro…un braccio scuro levato, un martello calato con forza… uno schizzo nerastro sul finestrino. La fuga dei vagoni si perdette stridendo, risucchiata da una galleria”.

Mai ho letto nella mia vita una descrizione d’omicidio più bella di questa. C’è tutto. Sorpresa, originalità, suspence, introspezione e soprattutto interrogativi. Molti.

Il bello di questo romanzo è che solo dopo poche pagine hai in tasca oltre al protagonista anche tutti i personaggi della storia, nonché i luoghi e contorni dell’azione straordinariamente descritti: “Alle prime luci dell’alba, lo scalo di Lenz era abitato da poche persone silenziose, creature intermedie tra la notte e il giorno, isolati passeggeri in attesa di un locale, con la faccia del primo caffè. Nessuno badava a nessuno”.

Per non togliere al lettore il piacere di leggere Trainspotter smetterò di raccontare l’allucinate intreccio della storia, ma non posso tacere sulla magistrale descrizione psicologica dei personaggi co-protagonisti, e lo farò riportando le parole dello scrittore a proposito di Stepanie e Alex, per farvi capire quanto magistrale è stato il tocco di Manfredi… “Ma Stephanie era un’altra cosa. Non mancava di stupirlo la sua arrendevolezza, quell’incredibile dote di obbedirgli in tutto con l’aria di farsi i fatti propri. Alex si sentiva sempre in debito con lei e reagiva insultandola, picchiandola, ma Stephanie era un muro di gomma, più dipendeva da lui e più lo faceva sentire dipendente. Perché non si accorgeva di avere delle tette da gran premio, un culo da favola, una pelle profumata, morbida, da gran puttana? perchè non forzava mai un gesto, uno sguardo, perché non sfruttava tutta la carica sessuale che si ritrovava?”

Vale la pena di fare apertamente gli elogi a Gianfranco Manfredi per com’è riuscito a riassumere tutte le caratteristiche peculiari della tipologia d’assassini seriali nella coppia formata da uomo/donna (Alex e Stephanie) oggetto degli studi della moderna psicologia criminale. La psicologa Jennifer Furio nel suo Team Killer. A comparative study of collaborative criminals, sintetizza 7 punti caratteriali nei binomi criminali ed il nostro autore li ha compresi tutti e sette all’interno dell’accoppiata mortale Alex Stephanie, infatti:

1. la donna è generalmente più giovane dell’uomo;

2. nella maggioranza dei casi l’uomo e la donna sono partner sessuali;

3. la donna conosce il suo partner in età giovanile 20/25 anni e sempre in un momento di estrema vulnerabilità emotiva;

4. la coppia agisce pianificando gli obiettivi, infatti la donna generalmente fa da esca per attirare la vittima;

5. il partner femminile è parte attiva nei delitti e asseconda i disegni criminale del compagno per la paura di perderlo e di restare sola;

6. L’uomo è il demiurgo della coppia e controlla ogni azione della donna, manovrandola in ogni circostanza;

7. La donna nel perdurare delle azioni delittuose diviene insicura e nutre del rancore nei confronti del compagno, pertanto è pronta a tradirlo, oppure a confessare i crimini sostenendo la difesa di essere stata manipolata.

Queste caratteristiche sono tutte insite nella storia della coppia criminale dov’è applicata con lucidità scientifica la teoria della “dominanza” con un Alex perverso e malvagio e una Stephanie fortemente debole sul piano psicologico. I due una volta uniti in coppia formano una perfetta interazione “incube-succube”, dove s’intenderà per incube la personalità dominante dell’uomo e succube quella suggestionabile della donna.

La storia di Alex e Stephanie è quella tipica di una coppia di serial killer formata nella stragrande maggioranza dei casi, così come avviene nella realtà, con il rapporto di dominanza dell’uomo soggetto incube e della donna soggetto succube. Dove l’uomo è sempre il dominante.

In conclusione Trainspotter è un romanzo strano, ben congegnato. Sembra statico, eppure si muove. È una continua metamorfosi psichica col suo inevitabile divenire freddo e spietato, dove tutti i termini usabili come ossessivo, folle, morboso convergono nel binario di Sacha e sfrecciano sulle rotaie fino a travolgere, eventi, vite, in “uno schizzo nerastro” di devastante ossessività generale, dove vittime e carnefici sono ingoiati dal nero tunnel di una galleria.

Tutto lo svolgimento del romanzo è imprevedibile, incalzante e strano. Il finale assolutamente piacevole e geniale, dove la sudditanza psicologica lascia il passo alla folle logica efferata del delitto.

Trainspotter è davvero un bel romanzo e sarebbe più che giusto, dovuto, che la Feltrinelli ripubblicasse questo mirabile esempio di scrittura noir.

“ Il 321 ha già dodici minuti di ritardo.”
“ E’ importante?”
Sacha non rispose. Guardava la massicciata. Erano seduti in macchina ad una decina di metri dai binari, su un prato bruciacchiato, senza luna e senza luce, solo le luminescenze verdastre del quadro dei comandi e la sigaretta accesa di Rita.
Leggetelo….se lo trovate!!

Ivo Tiberio Ginevra





 

domenica 29 agosto 2010

14 colpi al cuore

AUTORI VARI


MONDADORI EDITORE


Recensione di Ivo Ginevra


Il mio amico avvocato Nino Bonanno mi ha prestato da leggere un libro di Autori Vari edito Mondatori nel 2001, dal titolo “14 colpi al cuore”.
Quest'antologia è curata da Serge Quadruppani e gli scrittori che è riuscito a raccogliere sotto l’etichetta Mondatori sono di tutto rispetto, basti dire che il primo racconto è di Andrea Camilleri, per l’appunto la “Ballata per Fofò La Matina”, divenuto in seguito quel meraviglioso e singolare romanzo di “La stagione della caccia” edito Sellerio.
Gli altri “Autori Vari” sono tutti famosi al pubblico di appassionati del noir e li elenco in stretto ordine di pubblicazione del racconto: Gianfranco Manfredi, Laura Grimaldi, Nino Filastò, Massimo Carlotto, Santo Piazzese, Danilo Arona, Marcello Fois, Enzo Fileno Carabba, Eraldo Baldini, Michele Serio, Giacomo Cacciatore, Casare Battisti e Sandrone Dazieri.
Ognuno di loro ha dato un racconto che è una piccola perla di 30 pagine circa.
A Quadruppani va indubbiamente dato il merito di avere saputo scegliere con cura questi autori e ognuno con il suo colpo sparato arriva dritto al cuore. Un cuore noir nella migliore tradizione italiana contemporanea.
Ad 8 anni dalla sua pubblicazione quest’Oscar Mondadori regge bene il confronto con altre raccolte di racconti del genere.
Le storie sono tutte veramente belle e diverse fra loro e (ad eccezione di quella di Cesare Battisti che non mi è piaciuta per niente e che ritengo un infortunio) non ho nulla da dire se non un grazie a questi autori che mi hanno dato un autentico momento di piacere.
La bellezza dell'antologia sta nel biglietto da visita consistente in un piccolo racconto consegnato dallo scrittore ad ogni lettore che non lo conosce o che lo ha solo sentito nominare, e l’effetto prodotto è quello di mettersi subito alla ricerca dei vari libri di questi autori; infatti non potrò esimermi di acquistare subito qualcosa di Gianfranco Manfredi che sconoscevo ed ho ammirato nella sua storia dal titolo “La matematica non è un opinione”. Stesso discorso vale per Laura Grimaldi con il suo racconto: “Tonio dai coltelli”, ed Eraldo Baldini con la sua “Spiaggia privata”. Pregevole anche la tensione creata da Michele Serio in “La casa infestata” e veramente bella la storia di Giacomo Cacciatore dal titolo “L’abbaglio”, dove in solo 31 pagine lo scrittore descrive brillantemente una storia di polizia intricata, con un linguaggio fresco e duttile, consegnandoci in modo caratterialmente completo il protagonista brigadiere di “piesse” in attesa si pensionamento, Vittorio Cacciamali. Un solo aggettivo per "Cane mangia cane" di Marcello Fois: bellissimo. Ha un incredibile personaggio e un finale strepitoso, così come il racconto di Massimo CarlottoStoria di Gabriella vedova della mala” che riprende ed anticipa i suoi romanzi con l’ormai famoso Alligatore. Bello e irreale “L’eclissi del granchio” di Nino Filastò, e impeccabile come sempre Sandrone Dazieri, nel suo inconfondibile stile asciutto dei “I ragazzi del jukebox”. Il racconto di Santo Piazzese, “L’estate di San Martino”, è bello, originale e anticipa di poco il linguaggio perfetto del suo terzo romanzo “Il soffio della Valanga”.
Se fossi stato componente di una giuria e per l’assegnazione del premio e mi fossero arrivati in finale questi 13 scrittori, avrei avuto serissime difficoltà per nominare un vincitore, ma poi senza voler togliere nulla dei propri meriti a nessuno, avrei scelto Fois perché completo nello stile ed in piena obbedienza al noir denso di colpi di scena. Una menzione l’avrei sicuramente data a Manfredi per la sua originalità, e poi anche a Cacciatore, Carlotto e Serio. Il maestro Camilleri l’avrei ovviamente messo fuori concorso e sono indegno anche di nominarlo.
Questo libro non lo restituirò mai più a Nino, anche se la Mondadori nel 2002 ha pubblicato un'altra edizione reperibile in commercio cambiando la veste grafica di copertina ed aggiungendo un racconto intitolato "Reinhardt Klotz" dell’ottimo Carlo Lucarelli, non presente in quello fregato al mio amico.

Ivo Ginevra

sabato 21 agosto 2010

Koechlin

Paradise for all

ALESSIO ROMANO

FAZI EDITORE

Recensione di Ivo Ginevra

La frase: “Uno scrittore dilettante inizia a scrivere quando è in crisi. Uno vero smette” pag. 36

Alessio Romano è indubbiamente un autore dai tratti geniali.
Mi ha costretto a rileggere il suo Paradise for all subito dopo averlo finito, e proprio per questo ne voglio parlare.
Innanzitutto gli si deve dar atto che il mix fra realtà e finzione è perfettamente riuscito.
La scuola di scrittura Holden con i suoi insegnanti da un lato (Veronesi, Baricco ecc.), la bella Elena, Filippo, il protagonista Matteo, con gli altri personaggi di pura finzione dall’altro, convivono talmente bene da far sembrare tutti esistenti o del tutto inventati.
Non a caso i migliori personaggi descritti sono uno reale (Veronesi), uno immaginario (Elena), ed uno a mezzo fra realtà e finzione, cioè lo stesso Romano scrittore del romanzo e protagonista della storia col nome di Matteo, ma c’è anche “Alessio il pescarese e anche lui scrive abbastanza bene”.
Questa era una sfida di gran lunga limitativa e Alessio Romano l’ha vinta senza replica alcuna.
Altra bella cosa di questo romanzo è il linguaggio diretto, ironico, incalzante, originale, divertente e soprattutto attuale, senza goticità, retorica o esercizi stilistici, inoltre qualche colpo di scena disseminato ad arte mantiene costantemente sveglia l’attenzione del lettore.
I tratti psicologici descrittivi dei protagonisti sono brevi, intensi, disponibili all’elaborazione mentale e chi legge li vede muovere conoscendo appieno le loro debolezze o qualità intellettive.
Queste 172 pagine sono un concentrato di una storia, maledetta, con droga, sesso, occulto, amicizia, potere, pazzia, bugie, violenza, amore e morte pervase da un intensa passione per la scrittura dei protagonisti di fantasia, di realtà e dello stesso Alessio Romano.

Un grande esordio questo Paradise for all.

Ivo Ginevra

lunedì 16 agosto 2010

Un colpo di vento

Ferdinand Von Schirach

Edizioni Longanesi


Recensione di Ivo Ginevra


La frase : La posizione del giudice per le indagini preliminari è forse la più interessante della giustizia penale. Ha una breve panoramica su ogni cosa, non deve sopportare lunghi dibattimenti e non deve ascoltare nessuno. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra è la solitudine. Il giudice per le indagini preliminari decide da solo. Tutto dipende da lui, chiude le persone in prigione, o le lascia libere. Esistono mestieri più semplici (pag. 154).
Il libro è composto da 11 racconti, tratti dalla diretta esperienza che l’autore, avvocato penalista tedesco, ha raccolto durante la sua carriera.
Quello che colpisce il lettore in questo romanzo è l’incedere lento, disilluso e assolutamente senza emozioni del narratore, che tratta tutti i casi giudiziari dei racconti, con il distacco professionale dell’avvocato penalista, al quale non interessa se il suo cliente è colpevole o innocente, perché il suo compito è solo difenderlo.
Il fascino del libro sta tutto qua, proprio nel tono distaccato di questa narrazione che in maniera del tutto asettica entra nella psiche del delinquente difeso anche con la consapevolezza che può aver commesso il crimine, pertanto la conseguente analisi del reo e di quanto lo ha portato a commettere il delitto, è diretta, semplice, senza aforismi, supposizioni, suggestioni o altre imperlature scientifiche, critiche, letterarie.
L’autore procede per tutto il libro nella descrizione inesorabile dei casi giudiziari secondo una geometria che attinge i suoi spunti cardini dalla certezza del processo e consequenziale pena, contrapposta alla motivazione socioculturale che ha generato il crimine.
In tutte le 237 pagine del libro non c’è alcun appagamento professionale nella trattazione del singolo caso giudiziario. Non c’è soltanto una cruda descrizione del fatto di cronaca. Non c’è la ricerca spasmodica della verità. C’è solo la descrizione dell’uomo con la sua ineluttabile miseria spirituale.
Ogni racconto ha qualcosa d’inoppugnabile.

Ivo Ginevra

P.S.
“Il caso letterario dell’anno” mi sembra eccessivo e poco credibile

sabato 14 agosto 2010

La paura della verità

Andrea Pazzaglia

Robin Edizioni


Recensione di Ivo Ginevra


“C’è un odore per ogni età della nostra vita”.
Andrea Pazzaglia in questo romanzo ci regala il personaggio di Leonardo Del Sapio. “Un po’ malinconico e amante della natura, che passa le sue giornate coltivando la terra, immerso nella tranquillità del podere dove abita. A quarant’anni ha finalmente trovato la vita che desiderava, circondato da amici con cui condividere una buona cena e più di qualche bicchiere di vino rosso. Amante delle donne, ma profondamente innamorato di sua moglie Mara, Leonardo scoprirà pian piano di avere un fiuto particolare nello svelare misteri apparentemente irrisolvibili”.
Diciamo subito non è un giallo ricco di colpi di scena, con inseguimenti, sparatorie, caterve di morti ammazzati e poliziotti. È un giallo, semplice, tenero, equilibrato, intimista, con perle di saggezza, e riflessioni naturali che sebbene possano apparire ovvie e scontate di questi tempi non sono quasi mai scritte, lette, raccontate. Il fascino della scrittura di Pazzaglia è tutto qua, nel rapporto con il quotidiano, con la terra, gli affetti, la semplicità delle piccole cose. Dei piccoli gesti.
È un libro piacevole che affascina col suo incedere pigro degli eventi. La forza di Pazzaglia sta proprio nell’aver saputo cogliere e ben rappresentare la gestazione del processo mentale che travolge, suo malgrado, il pacifico protagonista del romanzo trasformandolo da felice campagnolo in vero detective.
Il personaggio di Leonardo Del Sapio è fresco, umano, molto originale ed estremamente credibile. I suoi valori sono quelli classici della famiglia, dell’amore, dell’amicizia e sono mostrati senza retorica e falso perbenismo. Il linguaggio per esprimere questi concetti è essenziale, calibrato e al contempo nostalgico. Un ottimo mix. Trascrivo da pag. 13 una riflessione dell’autore sull’amico morto che esprime perfettamente il dramma dell’indifferente incedere del giorno a dispetto del dramma personale. “… Il senso dell’assurdo che accompagna la morte delle persone ancora sane l’aveva seguito per tutto il giorno, spesso nella vigna in maglietta e pantaloni da lavoro, sotto un sole vivo che pareva, dopo gli scrosci dei giorni scorsi, non volersi più riposare”. E poi ancora da pag. 14 la riflessione di Del Sapio sull’amico scomparso che oramai non vedeva da tempo: “….Era quasi un estraneo oramai, crediamo che l’amico resti lì ad aspettarci e di poterlo ritrovare in ogni momento, ma ogni giorno nuove cose lasciano i loro resti di colori e polvere ad otturare i vecchi canali di comunicazione per cui bastava un gesto o uno sguardo per capirsi. Si rimane un po’ a combattere per cercare di trovare la chiave, la parola, il lessico per riattivarli, poi con tristezza si capisce che restano solo i ricordi e quel fondo di rispetto e malinconia per ciò che ci siamo dati, per ciò che siamo stati….”.
In definitiva un ottimo esordio per Andrea Pazzaglia ed un nuovo protagonista quello di Leonardo Del Sapio, indubbiamente bucolico, ma tanto umano, e che spero di poter rincontrare ancora.
Leonardo potrebbe essere ognuno di noi se solo avessimo il coraggio di buttare la nostra valigia 24 ore in un fiume e andare a vivere in campagna coltivando la terra per un ottimo vino.
“Lasciare la noia talvolta è più difficile di affogarci”.

Ivo Ginevra

venerdì 13 agosto 2010

Memoria di una geisha

Hollywood geisha! E' questa la frase che racchiude in se tutto lo sforzo ed il prodotto dell'accoppiata Spielberg Marshall, dai quali era logico aspettarsi di più. Molto di più. La storia è mielosa e strappalacrime fin dall'inizio (vendita della piccola bambina alla casa di geishe). Continua nell'addestramento alla professione, si ridicolizza nell'amore segreto della giovane geisha per il "direttore generale", lascia perplessi sulla riffa organizzata per cedere la verginità della gheisha, diventa priva di pretese nella oscura fase della guerra mondiale e pateticamente si conclude nel coronamento della storia d'amore fra i due protagonisti. In questo film c'è tutta la Hollywood bella e vuota dei grandi registi americani. Bello e vuoto è, infatti, il prodotto, che non tratta alcun tema in modo approfondito (e sì che ce n'era di carne sul fuoco). Bello e vuoto è lo schermo. Bella e vuota è l'interpretazione dei personaggi, usciti tutti ridimensionati da questa storiella (fatta eccezione per l'ottima Gong Li). E' tutto, tutto bello e vuoto e non lascia alcun spazio a riflessioni sui temi trattati, ma quel che peggio, tratta anche molto marginalmente la storia, cultura e filosofia della Ghescia e del mondo nipponico.

Ivo Ginevra

La giostra dei criceti

Manzini riesce a farti respirare l'aria della periferia degradata, con le sue miserie, ambizioni, atmosfere e odori. Ti attacca sulla pelle la speranza di chi vuol cambiare vita ad ogni costo, a prescindere dal prezzo da pagare, fosse anche la vita stessa l'ultimo prezzo. Guarda all'amore fraterno come un valore certo e lo tradisce come spesso avviene nella quotidianità giornaliera. Nel romanzo colpisce la descrizione effettuata dal Manzini, della voglia di un delinquente anti eroe, di anelare ad un’esistenza fatta dalle tradizionali certezze dei valori comuni (amore, famiglia), fino a trasformare un essere dalla condotta deprecabile, in simbolo di un immaginario riscatto con rinascita. Libro veramente gradevole! Ricco di una vena creativa piena di colpi di scena nella migliore tradizione del thriller.
Da leggere.

Ivo Tiberio Ginevra

L' uccisore di ombre

Ho letto con piacere questo libro e devo dar merito al suo scrittore, di essere riuscito a creare il prototipo del killer per antonomasia, coniugando alla perfezione l’esigenza letteraria con l’introspezione psicologica, e questo fin dall’inizio, partendo proprio dal suo aspetto fisico “…. lo sguardo anonimo, il volto insignificante. Un uomo normale. Statura media. Corporatura asciutta. Capelli castani tagliati in modo poco vistoso, abbastanza corti ma non rasati. Vestiario sobrio. Niente segni particolari. Niente accento. Invisibile”.

Perfetta e stimolante appare l’analisi che il personaggio fa di se stesso nella ricerca delle radici assassine: “…non bastano l’avvilimento e la nausea a dar ragione o a rendere accettabile e comprensibile una condotta come la mia. Eppure è da lì che tutto comincia ….. mi resi conto che l’alternativa all’annichilimento graduale di una esistenza monotona e assurda era ed è l’altrettanto assurda, ma consapevole, scelta di fare quello che nessuno vuol fare”.

Indubbiamente apprezzabile è la sua forza: Nella mia normalità. Nell’insignificanza del mio aspetto risiede tutto il mio potere. Mi sento invincibile”. “ Mi sento bene. Solo come sono. Senza prospettive, senza domani, senza legacci, senza vincoli, senza regole. Quei dannati burocrati dovrebbero provare come ci si sente ad essere me”.

La sua professionalità: “Tutta la mia attività si basa sul calcolo. Sulla programmazione e la previsione. Sulla consapevolezza dei potenziali pericoli. Sull’assunzione dei rischi calcolati”. ….”Sono una scheggia di perfezione e di integrità. Sono l’esempio di rettitudine in mezzo all’approssimazione, alla distrazione alla disattenzione”.

La sua visione filosofica della vita: “Ho smesso di temere per la mia vita quando ho smesso di credere che avrebbe avuto un senso”.

La sua consapevole analisi: “Non c’è odio, in me. Non c’è rabbia. Non c’è desiderio. Non c’è sentimento né passione”.

Il suo humour: “Per i sicari dovrebbero esserci dei tabelloni come per i pugili. Vinte, perse, ko. Solo che per noi appena una è persa finisce il gioco. E tutte le vittorie sono per ko”.

Antoine è un Killer perfetto!

Bella è la storia. Asciutto e calzante il modo di raccontarla.

A Giorgetti va il merito di aver creato un personaggio con un’introspezione completa, anche se criminale. Di perfetto criminale!

L’unico neo, ma piccolo, sta nell’essersi prolungato in una ricerca di: “come è cominciato tutto”. A mio avviso questa interruzione ha dato una leggera discontinuità all’azione del killer, che alla fine riprende vigore con gli ultimi capitoli nel perfetto stile del romanzo noir.

Ivo Ginevra

lunedì 2 agosto 2010

IL DIAMANTE CODALUNGA DA ESPOSIZIONE "STANDARD" (Poephila acuticauda)

Testo di Ivo Ginevra
Foto Alcedo
Pubblicato su Alcedo n. 10 anno 2003

La fauna australiana ha nel Diamante coda lunga uno dei suoi esemplari più tipici e addirittura più belli che un allevatore di Estrildidi possa desiderare. Questo splendido Poephila non crea assolutamente alcun problema per quanto riguarda il suo mantenimento in cattività o la sua riproduzione, pertanto in questa nota non starò a scrivere niente di tutto ciò; oggi voglio semplicemente richiamare l'attenzione sullo standard, partendo dalla considerazione che più sono i disegni ed i colori che deve possedere un soggetto, più sono le difficoltà espositive che si presentano. Infatti, un attento osservatore od un giudice andrà subito a guardare nei punti critici e gioco forza potrà tranquillamente emettere la sentenza; quindi, affinché si abbiano dei buoni verdetti non occorre soltanto conoscere i giusti criteri di valutazione degli uccelli ma, anche e soprattutto, saperli esaminare con attenzione ed umiltà, perché solo quest'ultima è la componente essenziale e necessaria per far crescere l'allevatore .... ed anche l'uomo che è in lui. Rimandando, quindi, l'allevatore per l'apprendimento dell'umiltà allo studio dei precetti di vita sciorinati dagli appositi educatori, staremo qui semplicemente a descrivere lo standard del Diamante coda lunga applicato della Federazione Ornicoltori Italiani, analizzando singolarmente le voci che lo compongono e cioè la forma, la proporzione, la taglia, il disegno, il colore, il piumaggio, il portamento e le condizioni generali.
LA FORMA, LA PROPORZIONE E LA TAGLIA
Una considerazione particolare deve porre l’allevatore nella selezione del Diamante codalunga, proprio alla coda. E' già esplicito capire dal nome di questo diamante, che la coda è una delle principali voci di giudizio. Le due timoniere centrali devono addirittura misurare 9 cm., mentre le restanti penne hanno una lunghezza totale di 5 cm.. Il resto del corpo deve avere una misura d'altrettanti 9 cm. Quindi, riassumendo, la lunghezza complessiva ideale di questo soggetto è di 18 cm. equamente divisa a metà fra corpo e coda. Chiaramente è un difetto da penalizzare una coda troppo lunga o troppo corta. La forma deve esprimere nell’insieme, armonia e robustezza specialmente nelle parti superiori, mentre nelle zone inferiori in modo particolare nel ventre, è sempre da preferire un aspetto molto affusolato.
Guardando il Codalunga frontalmente, questo deve esprimere nella parte testa-collo-petto, una buona possanza; infatti, per la testa è obbligatoria una forma trapezoidale ben piantata sul collo, con una base abbastanza larga rispetto al vertice e deve essere sporgente in avanti esprimendo fierezza. Il petto si presenta piuttosto arrotondato e pieno, conferendo al poephila un'impressione d'ottima salute. Se poco sviluppato o sporgente o addirittura eccessivamente largo subisce una penalizzazione da parte del giudice; stessa penalità è riservata ad un soggetto con il collo piccolo o corto. Gravissimo ed irrimediabile difetto è quello di possedere un collo stretto. Anche la testa piatta contribuirà a svalutare il codalunga. Per il resto, terminando il discorso sulla forma - proporzione - taglia, non scordiamoci che le ali non devono essere troppo lunghe rispetto al corpo, e che il ventre non si deve assolutamente presentare di forma tondeggiante e ciò grazie alla tendenza naturale del codalunga di appesantirsi di grasso.
IL DISEGNO
I disegni distintivi di questo splendido diamante australiano sono quelli marcati e tipici dei Poephila. Infatti, anche i suoi cugini Diamante bavetta e Diamante mascherato hanno gli stessi tratti distintivi, e cioè la bavetta, le redini, il calzone. Nel diamante codalunga, la bavetta è più estesa possibile con forma trapezoidale ed assolutamente ben disegnata; i suoi cugini, invece, la possiedono più piccola, come nel caso del Diamante bavetta. Che la bavetta sia nettamente disegnata e più estesa possibile, è un requisito essenziale. Altro segno distintivo sono le redini, precisamente quella fascia che congiunge l'occhio con la parte superiore del becco. Queste devono essere qnch'esse ben nette, delineate e marcate. Viceversa, sottili o peggio interrotte, andranno a penalizzare notevolmente l'estrindide che, oltre a perdere una delle parti caratteristiche del proprio disegno distintivo, perderà completamente il fascino di mistero che questa striscia sa esprimere. Terzo elemento distintivo è il calzone, così chiamato parafrasando il capo tessile adoperato dall'uomo: infatti coprirà la gamba e contribuirà a fare una forma slanciata al ventre, o ad appesantirlo se quest'ultimo è grasso. Così come le redini e la bavetta,dev'essere ben delineato e più largo possibile. Vale anche per questo la penalità se la forma è sottile, sfumata, non simmetrica o peggio irregolare. Un pregio particolarmente ricercato e che spesso dai più viene scambiato per difetto, è quel sottile filo bianco che compare simmetricamente nelle remiganti esterne del diamante codalunga. Altro pregio da considerare particolarmente, ma anch'esso scambiato per difetto, è una macchia bianca e simmetrica che riguarda le due timoniere esterne. Anche la separazione tra il dorso e la nuca deve essere, come tutti i disegni di questo diamante, ben netta e delineata.
IL COLORE
I colori del diamante codalunga vanno dal nero al bianco, dall’azzurro al ruggine, variano quindi interessando sia i lipocromi che le melanine, le eumelanine e le feomelanine. Rigorosamente nero smagliante e uniforme sarà il colore della bavetta, del calzone, delle redini, della coda e dell’occhio.La testa esprimerà un colore azzurrastro splendente dove risalterà un becco giallo nel diamante ancestrale, o rosso corallo nella sottospecie HEKI. Il petto ed il ventre avranno una colorazione uniforme e violacea, consentendo di far risaltare ancora di più il nero brillante della bavetta e dei calzoni. Il dorso partendo da un color ruggine particolarmente scuro andrà a fondersi con il grigio-marrone scuro delle ali. Il sottocoda ed il basso ventre saranno di colore biancastro.Le zampe saranno di un bel colore rosso corallo in pandane con il becco, anch’esso di questo colore nella varietà HEKI, mentre di un colore rosato nella specie ancestrale a becco giallo.Le femmine, generalmente hanno dei colori meno luminosi rispetto ai maschi con un colore leggermente più carico nella zona delle guance e del vertice.Il codione è di un bellissimo bianco candido.
IL PIUMAGGIO
Particolarità dei diamanti australiani in genere è quella di avere un piumaggio abbastanza serico, aderente al corpo e molto consistente, specialmente nelle zone dove si estrinseca il disegno. Anche il codalunga possiede queste particolarità del piumaggio. Infatti, è uno di quei pochi uccelli da gabbia che non ha le classiche sbuffature ai fianchi e nel sottocoda, anche se ultimamente si cominciano a vedere, purtroppo, dei soggetti con queste sbuffi fuoriuscenti dalle ali. Una particolare attenzione merita, come già detto prima, la coda del nostro estrildide con le sue due caratteristiche timoniere centrali larghe e robuste nella parte iniziale e centrale e di ” buona consistenza” fino agli apici. E’ ammessa anche una leggera rialzatura in alto di quest’ultime nella parte finale. Assolutamente da scartare i soggetti con una coda sfilacciata o striminzita e particolarmente sottile nella parte finale. Una coda con timoniere troppo sottili o diseguali è chiaramente da penalizzare e la penalità sarà grave se mancherà una o peggio ancora ambedue le timoniere centrali.
IL PORTAMENTO
La natura di questo Estrildide è piuttosto vivace, e deve al giudizio presentarsi piuttosto sveglio, attento, saltellando da un posatoio all’altro. Un codalunga che si mostra particolarmente nervoso aggrappandosi alle sbarre della gabbia per l’eccessivo nervosismo è un soggetto da penalizzare, così come se mostri un atteggiamento sonnolento con il ventre poggiato sul posatoio. L’ideale è quello di manifestare una figura protesa in avanti, con uno sguardo attento a tutto ciò che lo circonda alternando una posizione di 45 gradi sulla bacchetta, a momenti che esprimono fierezza levandosi con la testa e con il petto verso l’alto e tenendosi ben saldo al posatoio con le zampe parallele.
CONDIZIONI GENERALI
La pulizia e la salute sono richieste per tutti gli uccelli da gabbia, d’altronde è inconcepibile vedere in una gabbia da esposizione un soggetto gonfio, “ appallato “ o particolarmente sporco. Il nostro diamante codalunga di per sé è un animale che, dotato dalla natura di un piumaggio serico e brillante, difficilmente si vede in condizioni dimesse, tuttalpiù potremo vederlo con qualche penna rotta, sciupata, ma in ogni caso, le timoniere centrali devono presentarsi usurate o spezzate. Stesso discorso vale anche per le penne dell’ala, che non devono esprimere un senso di trascuratezza con delle sfilacciature laterali dovute allo sciupìo. Sia le zampe che il becco non devono assolutamente presentare scagliosità . Il becco non deve avere la parte superiore più lunga di quella inferiore, e le due parti devono unirsi perfettamente.
L’attento allevatore al fine di evitare stupide penalità nelle condizioni generali, deve per tempo preparare il soggetto alla mostra, tirandogli le penne rotte o usurate e facendo sì che queste ricrescano ben pulite, somministrando l’acqua per il bagnetto quotidianamente. Inoltre, taglierà per tempo le unghie troppo lunghe ed il becco che nella sua parte terminale superiore è un po’ più cresciuto rispetto a quella inferiore.
Il diamante codalunga, essendo tra l’altro un animale abbastanza prolifico, se allevato bene e ben selezionato è in grado di dare all’allevatore innumerevoli soddisfazioni alle mostre ornitologiche perché riesce sempre, con i suoi colori sobri, i disegni marcati ed il suo portamento fiero ed attento, ad impressionare favorevolmente sia il giudice che il distratto visitatore della esposizione.
Ivo Ginevra