martedì 20 dicembre 2011

Ucciderò Mefisto


Autore: Valter Binaghi
Anno: 2010
Editore: PerdisaPop


Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
publicata su www.thrillercafe.it

Il caso è semplice per il commissario di polizia Leonetti. Fausto Blangè è reo confesso. Ha ucciso il suo analista, il dottor Giacomo Collinaro con un colpo di pistola in faccia. “L’uomo ha una bella voce, il tono affabile, privo d’inflessioni, l’espressione impostata senza risultare contraffatta, come di uno per cui parlare è un talento naturale più che una professione”, ma oltre ad ammettere l’omicidio, Blangè non dice altro di sensato. “Chiamava il suo custode: l’airone. L’airone, capisce? Un uccello e poi parlava di Faust, e Margherita, e Mefistotele”.

Il caso per il commissario Leonetti è già chiuso in partenza, e chiuso rimane, però nella natura del tutore dell’ordine c’è un tarlo. Vuole capire il perché di questo delitto efferato. Blangè ha tutto, nessun problema economico, una carriera universitaria avviata. È uno scrittore di best seller, ricercato dalle televisioni e dalla stampa come opinionista. Vince premi letterari. Ha un promoter che gli ha dato credibilità nell’ambiente culturale, una produttrice televisiva che cura la sua immagine ed anche una bella studentessa come amante. Licia.

L’intuizione di Leonetti sta tutta nell’aver capito cos’è che manca all’assassino, e non cos’è che possiede. Fausto Blengè, infatti, non ha più una famiglia, non ha più l’amore della sua l’adorata moglie Margherita, perché è morta e con lei il suo universo di valori positivi, ma non si tratta solo di una semplice morte per malattia o altra causa naturale, si tratta di suicidio e di suicidio estremo. Margherita si è fatta dilaniare sulle rotaie da un treno della metro, a Milano, fra l’indifferenza e le maledizioni dei pendolari.

Il movente dell’omicidio è trovato da Leonetti nell’identificazione della vittima in Mefisto, perché è indubbio che il successo, la carriera e anche le amanti sono arrivati a Blangè tardi, e solo dopo l’inizio della terapia da Collinaro. Prima di allora, mai un editore, una televisione, o uno studente si era interessato a quel professore di lettere nei licei, oppure ad uno solo dei suoi romanzi. Leonetti capisce che il prezzo dell’agognato successo è frutto di una terapia condizionante e plasmatrice che ha come effetto collaterale quello di subordinare la vita di Margherita al successo di Blangè, però tutto regge fino al giorno del suicidio della donna. Dopo quel gesto insano, la mente dell’omicida prenderà coscienza dell’immane perdita. Sarà scarnificata dal dolore, dal pentimento, dalla voglia di vendetta fino ad essere governata da un solo pensiero: “Ucciderò Mefisto”, allora và da Collinaro, gli spara in faccia e confessa l’omicidio.

Il caso è chiuso. È sempre stato chiuso. Questa la storia.

Valter Binaghi è un pazzo e mi sentirei di dire, anche da catena, perché con questo breve romanzo si è andato ad infilare nei terreni sacri della letteratura mondiale, dove il vecchio dilemma di avere ed essere è stato degnamente trattato attraverso i secoli, da tanti scrittori famosi, vedi per tutti Ghoethe con il Faust. Ucciderò Mefisto è un ripercorrere allusivo del dramma. Anche i nomi dei personaggi sono gli stessi. Faust sta a Fausto, e da anonimo professore di liceo e mediocre scrittore diventa professore universitario e scrittore di successo. Margherita sta a Margherita come una donna innamorata sta ad una donna innamorata che perde il suo amore. E Collinaro, lo psicanalista, sta a Mefisto come solo un diavolo sa fare con la sua vittima. Lui dona l’effimero per togliere l’essenziale. E proprio la vita, l’amore, è il prezzo da pagare a Mefisto. Solo che la vittima lo capisce. Rompe il teorema e anche se tardi, non ci sta più. Ha rimorso, si vendica e uccide il diavolo.

Tutto a prima lettura sembra una cosa scontata e per niente originale, ma alla prima lettura! Alla seconda ti accorgi del vero talento di Binaghi, anzi arrivi a paragonarlo a un genio scatenato. A mente fredda ti rendi conto che “Ucciderò Mefisto” è un bel concentrato d’illuminate pagine e di un grande esercizio stilistico.

Il contrasto fra i fogli scritti in corsivo (che a prima lettura disturbano perché distraggono dalla storia) con quelli che narrano dell’indagine del commissario Leonetti, lo afferri solo dopo perché non c’è alcuna trama gialla da seguire. Solo dopo capisci che il corsivo è il legittimo ed indispensabile scandagliare dell’animo umano e afferri (e apprezzi) il suo contrasto con il quotidiano concreto e semplice.

Cento pagine dove c’è un grande amore finito male. La tragedia della gelosia, del tradimento, della solitudine. Dove c’è l’ossessiva ricerca dell’ambizione, del successo, della notorietà e soprattutto un’analisi impietosa e critica dell’ambiente editoriale e televisivo nei confronti di scrittori giovani e meno giovani disposti a tutto pur di essere pubblicati da un editore che non ha alcun interesse nell’opera letteraria.

Cento pagine così ricche di spunti e contenuti, che probabilmente in mano ad un altro scrittore sarebbero diventate, quattrocento, seicento e forse anche di più, e che invece Binaghi riesce a concentrare in poco spazio, con la forza di un cazzotto in bocca che per giorni farà sentire il suo malessere.

Ucciderò Mefisto è un romanzo intriso da sensi di colpa, incomprensioni, solitudine. Apologia del consumismo, narrato con semplicità apparente, grande stile letterario e senza alcun moralismo, vera prova di forza dello scrittore.

Ucciderò Mefisto è un gran libro. Da leggere e soprattutto da rileggere.
recensione di Ivo Tiberio Ginevra

mercoledì 14 dicembre 2011

Quattro e quattro otto

Claudio Arbib e Rodolfo Rossi
Todaro Editore
Anno 2011


Trama in sintesi

Roma. Il “solito” commissario svolge la “solita” indagine sul “solito” omicidio senza un nome e senza un perché. Man mano che la vicenda si dipana però il commissario Corvino scopre inaspettate e insospettabili relazioni tra la carriera ecclesiastica di un alto prelato, la morte prematura di un giovanissimo orfano e gli impicci di delinquenza piccola e grande.
Le cose poi si complicano.
Il tutto in una partita dove perfino la pittura manierista e i Cavalieri di Malta giocano un ruolo cruciale. E il più ovvio dei commissari precipita nel gorgo della meno ovvia delle storie…

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra pubblicata su www.thrillercafe.it

Questo è un romanzo poliziesco scritto a quattro mani da un musicista (Rodolfo Rossi) e un ingegnere (Claudio Arbib). Entrambi prima di iniziare la storia si sono posti una domanda essenziale: quale tratteggio psicologico dare al protagonista della storia, il commissario di Polizia Corvino?

La risposta è tutta nella postprefazione scritta alla fine del libro.

Se uno vi dicesse che ci sono molti commissari di Polizia che amano cucinare o che sono appassionati di pesce, perché non dovreste crederci? In fin dei conti il nostro è un Paese bagnato da tre mari e con tradizioni culinarie nobili e varie. Ora nella storia che vi abbiamo raccontato si parla di un commissario di polizia non di primo pelo, patito della cucina di mare che pratica tra le mura di casa con una certa abilità. Però i commissariati italiani sono migliaia (cinquantuno solo quelli che dipendono dalla questura di Roma, e di questure in Italia ce ne sono 103) e fra tutti questi servitori dello stato non era in fondo altrettanto plausibile, almeno per cambiare, che il nostro fosse uno di quelli che detestano le spine e sono incapaci di cuocersi un uovo?

In effetti si può ben supporre che la maggior parte dei commissari abbia vizi e virtù degli italiani ritenuti normali: fuma qualche sigaretta, o beve con moderazione, ama la famiglia, guarda la TV, frequenta centri commerciali, evada qualche piccolo balzello e, considerando i politici indistintamente dei ladri, non si fa problemi a votare all’occorrenza il più ladro di tutti. I tempi che corrono autorizzano a immaginare alcuni, pochi, che condividano perfino qualcuna delle abitudini degli italiani a ragione o a torto ritenuti meno normali, per esempio il gioco d’azzardo, le puttane o qualche droga cosiddetta leggera. Ma allora perché parlare di commissari amanti del pesce o della cucina?

Il fatto è che presentare un commissario con i difetti che abbiamo elencato incontrerebbe ostacoli di vario tipo: i governi europei stanno facendo grandi sforzi per prevenire le malattie derivate dall’alcol, dal fumo e da altri eccessi, e ci mancherebbe solo un messaggio positivo sul versante della droga. Per quanto riguarda le abitudini alimentari, l’alta incidenza di malattie cardiovascolari che ci ritroviamo qui da noi, sconsiglia di fare troppa pubblicità a cibi come la carne, per tacere delle sterili polemiche che potrebbero sorgere con vegetariani e animalisti. Il pesce è una buona via di mezzo: anche se si tratta pur sempre di animali, le sue virtù nutritive – fosforo, pochi grassi, omega-3 – e ne fanno un soggetto senza dubbio adatto alla mensa di un tutore dell’ordine, o almeno di un avversario del disordine alimentare. A tutto questo si aggiunga che un uomo in cucina attira sempre la simpatia delle massaie, le quali, statistiche alla mano, risultano tra le più appassionate lettrici di storie poliziesche.

Tirando le somme, prima di scrivere questa storia abbiamo verificato se il commissario che ce l’ha raccontata ricadesse o no in una categoria spendibile in un giallo per famiglie e politicamente corretto. Siamo stati pure troppo fortunati.

In caso contrario, avremmo dovuto scrivere un noir o uno splatter e consigliarvi di tenerlo lontano dai bambini e adolescenti.

Il risultato alla fine è quello di avere creato un personaggio ordinario, con le intrinseche contraddizioni dell’uomo moderno, che si muove all’interno di una trama gialla colta e garbata, dove è proprio la trama in se stessa, la parte godibile del romanzo. I personaggi del commissariato, dottor Corvino in primis, fanno solo da contorno, o meglio, servono diligentemente l’opera narrativa.

L’indagine in sé è molto originale, intercalata da ottimi déjà-vu che hanno il sapore di storia, con rimandi ad antiche memorie all’interno di un mondo, da sempre in mano al potere e ai potenti.

Quattro e quattro otto è una lettura diversa, lontana dai soliti stereotipi americani tutto sangue e tormento, tecnologia e volgarità. È una lettura moderna e raffinata al tempo stesso. Forse un po’ più di mordente, o qualche battuta di spirito avrebbe dato al libro un maggiore godibilità, ma come ho detto all’inizio, i personaggi sono del tutto comuni e proprio per questo, credibili.

Credo proprio che possiamo dare la nostra fiducia al commissario Corvino.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

Salto d'ottava


Autore: Antonio Paolacci
Editore: Perdisa Pop
Anno: 2010

Trama:

È la parodia di un ragazzo. Fantoccio deforme, sporco di se stesso, adagiato nella polvere bagnata, ma soprattutto immobile, e questo sì che è strano: Chiunque sia, non muoverà più un dito, mai più, ha finito di svegliarsi la mattina, ha finito di allacciarsi le scarpe. E siccome gli somiglia – stessa taglia, stesso modo di vestire – allora ecco cosa fa la paura più del sangue e delle altre schifezze: l’identità del morto.

Un uomo e un ragazzo. Ventiquattro ore per entrambi. Un cadavere di adolescente in una fabbrica abbandonata.

L’uomo è un produttore cinematografico preda di una strana forma di smarrimento. È un uomo che ha atteso, che attenderà fino all’ultimo istante.

Il ragazzo è un sedicenne affascinato dalla cultura dello skateboard. Quando s’imbatterà nel cadavere di un suo coetaneo, sarà l’inizio delle domande. Omicidio? Incidente? E scoprirlo, importa davvero? Sullo sfondo, una sessualità vissuta di nascosto: incontri anonimi, trasgressione e prostituzione s’incrociano a un’eloquente poetica delle persone qualunque.

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra pubblicata su www.thrillercafe.it

Un Matteo. Adolescente, benestante, apatico, e solo.
Un Matteo. Adulto, benestante, apatico e solo.
Un unico Met che per 24 ore rivive dentro i due Matteo, con la forza di un ricordo incancellabile, che ha per sempre segnato il destino del Matteo ragazzo e del Matteo uomo.

Tutto nasce al “Rottame”, un vecchio capannone industriale in rovina che avvolge nelle sue spire l’omologato anticonformista Met (Matteo), sedicenne, Skateboader, figlio di papà e della sua ricca civiltà del benessere. Che sa esagerare bene nella sua protesta esteriore contro una società che gli consente di vivere senza problemi e avendo tutto.

Matteo. Met. Spinello e Skate ieri, oggi peercing e tatuaggio. Jeans a zampa di leone, occhiali da vista rotondi e barba incolta ieri, oggi jeans col culo di fuori, occhiali da killer e capello rigorosamente rasato, o colorato o gellato. Omologato! Met. Matteo. Come uno di oggi.

Al rottame, in mezzo al lerciume, all’odore di acre dell’abbandono, immerso “nel vento che s’infila in quelle zanne di finestre rotte”, Met scopre un: “fantoccio deforme, sporco di se stesso, adagiato nella polvere bagnata, ma soprattutto immobile”. Met al rottame, scopre come si è senza vita. Il fantoccio gli somiglia, ha la sua stessa età e perfino i vestiti simili ai suoi, allora scopre quello che potrebbe diventare. Ha paura. Fugge. Si rintana nella sua anticonformista cameretta di una casa agiata e piange, forse no, non piange. Non sa cosa fare, o meglio, il suo IO lo sa benissimo, ma preferisce fare l’unica cosa che gli hanno insegnato: NIENTE, e NIENTE è l’unica cosa che ha imparato bene da mamma e papà, dalla sua società e dal suo tempo, perché di sicuro NIENTE è l’unica cosa sicura, e lui si omologa volentieri obbedendo ai dettami invisibili della sua sterile coscienza con un’alzata di spalle. Solo il travaglio di una notte, una notte soltanto dove muore Met, e poi l’indomani, tutto va al suo posto fino al giorno in cui Met ricompare a Matteo il giorno del suo compleanno con una torta con “non so quante candeline” ci sono. Fatto sta che Matteo adesso è un uomo, non ha più lo skate, ma una bella macchina che prima di montare accarezza il cofano. Non ha più ai piedi le mitiche All Star, oppure i jeans sgualciti di una nota casa americana, ma semplicemente “una camicia da duecentonovantanove euro, calzoni e giacca che superano i mille” e con le scarpe “si porta addosso il budget mensile di una famiglia”. Certo, ha anche un matrimonio naufragato con una figlia che vede poco e niente, un lavoro prestigioso di produttore cinematografico che lo arricchisce e che non gli piace. Certo Matteo ha anche altre cose che mezzo mondo gli invidia, ma a lui interessano quel tanto, perché da dopo quel dannato giorno al rottame è divenuto un nichilista sarcastico e solo, che cerca l’amore mercenario che paga per un sesso inutile, che paga per parlare e sentire parlare.

La colpa del risveglio di Met è tutta del regista Campestri, che ha proposto a “Matteo Qualcosa”di girare un video alternativo, un omologato video documentary/convenzional al rottame. A Matteo quel video importa. Non sappiamo perché gli importa così tanto, ma gli importa veramente. C’è però un ostacolo, il “fagotto”. Deve rimuoverlo per non ostacolare le riprese. E lo fa. Deve fare i conti con la sua memoria. I conti con se stesso e con quella “cosuccia irreversibile” che gli riecheggia nella memoria. E li fa.

Salto d’ottava è un piccolo libro di un centinaio di pagine. Una gemma. Un capolavoro stilistico. Un gran saggio sulla crisi d’identità dell’uomo moderno che vive solo nel consumismo, nell’indifferenza, nella solitudine, nell’apatia, nell’individualismo, senza ambizioni, valori o prospettive di crescita. È un romanzo denuncia, feroce e critico verso le debolezze dell’uomo contemporaneo, raccontato come una metafora dove, e spesso, siamo costretti ad identificarci.

La narrazione a prima lettura è complessa, ma rileggendola si capisce appieno che non poteva essere scritta in altro modo se non questo. Un linguaggio unico, pregnante, veloce e asciutto, con salti di tempo di vent’anni e passa, nell’arco delle ventiquatt’ore; con salti di stile dalla prima persona narrante alla terza. Con riflessioni di gran pregio: “La memoria è immagine…. La memoria è montaggio….La memoria è collegamento….La memoria è conforto…. La memoria è collisione…. La memoria è salto….

Salto d’ottava di Antonio Paolacci, è un gran bel libro.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

venerdì 11 novembre 2011

Intervista a Gianluca Ferraris


Intervista di Ivo Tiberio Ginevra a Gianluca Ferraris, autore di Gioco sporco 
pubblicata su www.thrillercafe.it.

[D]: Com’è nato Gioco sporco?
[R]: Il libro nasce dall’osservazione di un fenomeno molto diffuso ma poco raccontato: la presenza e la pervasività della criminalità organizzata nel mondo del gioco, non solo in quello illegale. Una tendenza che, dopo alcuni anni di disorientamento da parte dei clan colpiti dalla repressione e dalla regolamentazione del mercato, adesso è esplosa di pari passo con l’aumento degli scommettitori e delle possibilità di gioco.
[D]: Da dove hai preso l’ispirazione?
[R]: Dalla vita di tutti i giorni, come dovrebbe sempre accadere per un romanzo di questo tipo. Da decine di sentenze e ordinanze di custodia cautelare che mi sono passate sotto gli occhi negli ultimi anni, che sembravano sceneggiature fatte e finite di un B-movie di mafia. Dal bar sotto casa mia dove prima di riuscire a pagare il caffè, la brioche, le sigarette, ti tocca fare a sportellate con la massaia che gioca al Superenalotto, con l’operaio che cerca un Gratta&Vinci qualsiasi, con lo studentello che prova ad azzeccare i risultati delle partite. Stanno lì, tutti in fila per comprarsi un pezzo di sogno a buon mercato. E sui loro sogni speculano in tanti.
[D]: In quanto tempo hai scritto il libro?
[R]: Molti si stupiscono quando rispondo che ci ho messo poco più di tre mesi. In realtà la raccolta dei materiali ha richiesto più tempo, ma una volta ideata la struttura sono andato avanti velocemente. Poi facendo il giornalista sono per natura abituato a lavorare in fretta, con la differenza fondamentale che scrivere un libro ti permette a volte di andare a braccio: ci si sfoga e ci si diverte molto di più.
[D]: Notti insonni?
[R]: Sì, qualcuna, ma non è un grosso problema se stai creando. Le notti insonni diventano un guaio quando ti prendono a tradimento e non hai niente da fare se non pensare alla tristezza della vita reale. Per questo scrivere di notte lo trovo bellissimo: nel momento in cui tutti rincorrono le ombre, tu puoi divertirti a crearne altre che non siano le tue. Non è male.
[D]: Dicono del tuo libro che sembra proprio un’inchiesta truccata da romanzo. Hai una risposta da dare? E come definiresti questo romanzo?
[R]: Per certi versi è vero. Anzi, visto che si tratta di situazioni che hanno già avuto molti riscontri dalla cronaca giudiziaria, la primissima idea era stata proprio quella di scrivere un saggio. Poi dopo una lunga chiacchierata con Francesco Colombo, che è l’editor di Giorgio Faletti e sarebbe diventato anche il mio, abbiamo deciso insieme di misurarci con qualcosa di diverso, di più ampio respiro, e che contemporaneamente mi desse la possibilità di raggiungere il pubblico nel miglior modo possibile. La stessa cosa che da anni, e molto meglio di me, scrittori come Massimo Carlotto, Wu Ming o Sandrone Dazieri. Gioco sporco è nato così, e credo che abbia tutti gli ingredienti per essere definito un romanzo dal punto di vista narrativo.
[D]: Ho visto che alla fine del libro hai una lista di persone che ringrazi sentitamente. Qual è stato il miglior consiglio che hai avuto mentre scrivevi il romanzo?
[R]: Quello di mia moglie, alla quale come a ogni compagna tocca sempre sorbirsi le prime bozze. Dopo dieci pagine scarse mi ha detto: «Guarda che questo più che Goodfellas sembra un articolo di giornale che cita Goodfellas. Dimenticati del lavoro che fai e scriverai meglio». Da quel momento tutte le volte che ho potuto mi sono allontanato dalla scrivania e dalle ore diurne. Aveva ragione lei.
[D]: E’ indubbio che Gioco sporco denuncia per l’ennesima volta le infiltrazioni della criminalità organizzata nel nostro tessuto sociale, in forte espansione in alcuni settori e soprattutto nelle regioni ricche del nord Italia. Hai una concreta soluzione da proporre ai nostri governanti per arginare il fenomeno?
[R]: L’unica soluzione possibile, come diceva Giovanni Falcone, è quella di prosciugare il bacino dove nuotano i criminali. Togliere loro le certezze ambientali in cui si muovono e prosperano, e soprattutto aggredire i loro patrimoni. Maroni oltre a catturare i latitanti sta facendo un lavoro importante anche da questo punto di vista: sequestri e confische sono in deciso aumento. Eppure qui a Nord politica e sistema economico continuano a dare l’impressione di nascondere la testa sotto la sabbia.


[D]: Vuoi dire qualcosa al nostro «Stato biscazziere?»
[R]: La liberalizzazione dei giochi, che in teoria doveva servire a far emergere il «nero» mettendo all’angolo il business mafioso, non ha fatto invece che accelerarne la crescita. E ormai gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: per cautelarsi non basta appiccicare un bollino sulle slot machine. Ma è chiaro che nessuno Stato rinuncerebbe a tenere la presa su un settore che gli consente di incamerare 7 o 8 miliardi di tasse l’anno.
[D]: Voglio farti la stessa domanda che qualche tempo ho fatto a Massimo Maugeri in occasione di un passo di Le città invisibili di Italo Calvino che riporto: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui; l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Ci spieghi qual è il tuo inferno?
[D]: Dici che Calvino si rivolterà nella tomba se rispondo che la penso esattamente come lui? Scherzi a parte, mai come di questi tempi è vero che l’inferno siamo costretti ad affrontarlo ogni giorno. Il mio personalissimo inferno è quello fatto di giorni tutti uguali, dove non riesci a trovare il tempo per coltivare passioni e affetti. Il mio personalissimo inferno è un orologio che corre più veloce di me. Gli antidoti a cui ricorro per non restare intrappolato sono banali, ma funzionano: scrittura, amore, amici, calcio e cibo. Rigorosamente in quest’ordine e provando a mischiarli il più possibile.
[D]: Nel libro ci regali un magnifico incipit degno di uno scrittore di bestseller di libri noir. Anche qualche altro capitolo veleggia su questi ritmi narrativi, e inoltre la caratterizzazione psicologica dei personaggi, è intensa e veramente ben tratteggiata. Ti chiedo: hai mai pensato di scrivere un bel noir, o un thriller?
[R]: Naturalmente sì, ma non è facile. Oltre a tutto quello che hai descritto occorre una trama solida, credibile, e che senza concedersi voli pindarici riesca comunque a sorprendere e mantenere la tensione costante pagina dopo pagina. Con Gioco sporco ci sono riuscito perché maneggiavo molto bene la materia e perché, in fondo, non c’era troppo da inventare. Perché l’alchimia si ripeta devo trovare un’altra storia che colpisca me, prima di un eventuale lettore. Fortunatamente gli spunti non mancano.
[D]: Nel romanzo contrapponi con rassegnata ferocia il tema dell’innocenza di una povera ragazzona con problemi psichici a quello della crudeltà mafiosa di due scagnozzi della mala. Da dove hai preso lo spunto per scrivere una pagina di così intensa e amara scrittura?
[R]: Anche in questo caso non ho dovuto inventarmi nulla, purtroppo. Episodi così si verificano di continuo, ce n’è stato uno molto simile in provincia di Avellino un paio di anni fa. Altri li ha raccontati Sergio Nazzaro, un bravissimo scrittore napoletano, nel suo sottovalutato Io per fortuna c’ho la camorra. Il tratto comune è che non esiste più, ammesso che ci sia mia stata, una criminalità etica o rispettosa dei più deboli. Quella è vera fiction. In particolare le nuove leve ormai sono fuori controllo.
[D]: Cosa ami di più del tuo romanzo?
[R]: Il fatto che esista. Che sia stato concepito. Che sia nato. E che sia molto simile a come immaginavo sarebbe stato il mio primo romanzo. Balsamo per il mio ego.
[D]: Cosa ti è piaciuto di più quando hai riletto il romanzo?
[R]: Alcuni passaggi che avevo scritto davvero di fretta, come il meeting d’affari tra il Ragioniere e lo Slavo: è come se quella fretta fosse rimasta in pagina, creando la giusta tensione. Sicuramente è solo un caso, però mi piace vederla così.
[D]: Cosa c’è nel futuro di Gianluca Ferraris?
[R]: La sfera di cristallo non ce l’ho e per giunta l’oroscopo di Branko su Chi dice che mi trovo nel pieno del mio quadrimestre nero. Di sicuro vorrei continuare a scrivere libri, perché come ti ho detto sono una valvola di sfogo eccezionale per chi fa il giornalista. Ho tre o quattro idee in fase di valutazione da diversi editori: saggi, un romanzo, un racconto breve. Ci sono anche stati degli approcci dall’estero e dal mondo del cinema per i diritti di Gioco sporco, ma è davvero troppo presto per dire se si concretizzerà qualcosa.
[D]: Domanda alla Marzullo: “Fatti una domanda e datti una risposta”
[R]: Sei felice? A tratti. Ma non sono appagato. Chi smette di battersi vive solo a metà.

intervista di Ivo Tiberio Ginevra

lunedì 10 ottobre 2011

Intervista ad Alessandro Perissinotto

Ecco la mia intervista pubblicata su www.thrillercafe.it ad Alessandro Perissinotto, autore di “Semina il vento”, edito da Piemme.

Semina il vento è un romanzo bellissimo che riesce ad emozionare suscitando anche profonde riflessioni. Una su tutte è quella sul razzismo. Cos’è il razzismo per Alessandro Perissinotto?
Razzismo è semplicemente negare l’appartenenza a un comune gruppo umano, far prevalere altri criteri di aggregazione (geografici, culturali, ecc.) sui criteri che ci rendono uguali.

Crede che questa cultura del diverso da noi, specialmente riguardo alle convinzioni religiose, possa influire sullo sviluppo delle convivenze nel nostro mondo occidentalizzato? E se sì, quanto?
Siamo di fronte a un paradosso: l’Occidente ha creato mezzi di comunicazione potentissimi e, talvolta, si rifiuta di comunicare davvero; ha i mezzi, ma non la voglia per comunicare. L’incapacità di comunicare viene manipolata soprattutto a fini politici e i simboli religiosi, da sempre, costituiscono delle ottime bandiere dietro le quali far combattere le persone in nome di una ricompensa che i potenti non possono dare e che delegano a fantomatiche entità ultraterrene.

Semina il vento tratta anche i temi del fanatismo religioso con le sue intolleranze. Ha qualcosa da dire a questi imbecilli che si fanno saltare in aria in nome di dio seminando terrore e morte?
Non esiste solo il fanatismo religioso islamico, esiste il fanatismo protestante, ad esempio quello del reverendo Terry Jones che brucia copie del Corano, sostenendo che l’Islam è il diavolo, esiste il fanatismo cattolico di Radio Maria, con padre Livio Fanzaga che vede il diavolo in chiunque la pensi diversamente da lui e con punte, specie in Polonia, di chiaro antisemitismo. Ci sono vari modi per farsi saltare in aria, vari modi per portare morte e distruzione: non ho parole per rivolgermi ai kamikaze d’ogni tipo, io posso solo rivolgermi agli altri, ai moderati, e chiedere di condannare ogni fanatismo.

Come è nata l’idea di scrivere Semina il vento?
L’idea nasce da due spunti diversi.
Mio padre mi raccontava che talvolta, a Torino, quando i fascisti venivano a prendersi gli ebrei, le persone scendevano in piazza e applaudivano dicendo “era ora che ci liberavate da questa gentaglia”. I semi dell’odio e della propaganda razzista avevano dato i loro frutti nel giro di qualche anno. Ecco dunque il primo spunto.
Il secondo nasce da un’ordinanza del sindaco di Varallo Sesia, che vieta l’uso del costume da bagno islamico, il cosiddetto burkini, in tutto il territorio del comune. L’assurdo è che in questo piccolo paese del nord Italia (come in tutta Italia) non c’era proprio alcun bisogno di emettere un provvedimento del genere, ma il sindaco si è giustificato dicendo che questo è il momento giusto di far capire che non siamo disposti ad accettare gli usi degli altri.
Molto di quello che c’è nel libro è vero, così come reale è la parte che riguarda le aberrazioni della lega nord sull’argomento razzismo o antisemitismo.
Parallelo storico fra i due spunti: L’odio rimane tale indipendentemente dall’obiettivo.

Cosa direbbe a chiunque usa e alimenta l’odio per fini politici?
Molti s’illudono di poter utilizzare l’odio e di poterlo controllare, ma una volta seminato l’odio cresce da sé, non è più possibile gestirlo, e l’odio porta alla morte. L’odio contro gli ebrei ha portato all’olocausto. Quando sono state promulgate le leggi contro gli ebrei in Italia, non si prevedeva quello che è poi accaduto. Naturalmente, anche da parte islamica vi è chi semina il vento. Non esce vincitore nessuno da questa guerra.

Semina il vento è anche la storia di una gran passione amorosa finita in tragedia. Perché ha tinto tutto di nero?
La scelta della dimensione tragica è legata alla tragicità dei tempi e delle strategie politiche. Io credo che lo scrittore abbia un compito di sentinella. Deve segnalare quali possono essere i pericoli, perché lui è abituato più di altri ad osservare la realtà. La tragedia potrebbe essere alle porte: il finale avverte dei pericoli cui si va incontro sottovalutando la portata dell’odio seminato in questi anni.


Fra i temi conduttori del romanzo c’è il sopravvento dell’incomunicabilità nei rapporti umani, portando tutte le relazioni, sia amorose che sociali al fallimento. Le chiedo: perché oggi non si comunica più? E cosa suggerisce per tornare a comunicare?
Io non credo che sia l’incomunicabilità il tema. Credo che oggi si comunichi tanto, ma c’è la difficoltà a capirsi. Non credo proprio che ci sia questa incomunicabilità, c’è forse una difficoltà a rendere queste comunicazioni profonde, significative. Il gioco delle amicizie su Facebook è indicativo: migliaia di amici virtuali, ma pochissime amicizie concrete.

Perissinotto si trova meglio nei panni di scrittore minimalista o in quelli di scrittore Thriller?
Anche minimalista è una definizione nella quale non mi trovo esattamente perché gli americani hanno una poetica molto precisa che non è la mia. Quindi io spero di trovarmi bene semplicemente nei panni di scrittore, indipendentemente dalle etichette. La scrittura dei thriller mi ha appassionato e continua ad appassionarmi, ma vedo nella scrittura anche un ruolo sociale, e io mi sento chiamato a temi che si prestano poco ad essere integrati nella struttura del thriller. Già quando scrivevo i thriller in realtà speravo fossero di denuncia. Purtroppo per voi, amici di thrillercafè il mio nuovo romanzo non sarà un thriller.

Prendo in prestito da Marzullo, una domanda classica per terminare l’intervista: “Fatti una domanda e datti una risposta”.
Coincidenza vuole che sia stato ospite di Marzullo proprio due settimane fa, ma non ho avuto occasione di sfruttare questa domanda, pertanto ne approfitto.
La domanda che posso farmi è: perché in un’epoca in cui è così facile comunicare, una parte della politica sceglie la strada dell’incomprensione?
La risposta che posso dare è che probabilmente nelle democrazie attuali buona parte degli uomini politici è la parte peggiore della società e dell’umanità. Il numero di compromessi a cui deve scendere un politico per ottenere un’elezione lo porta a trasformarsi nella parte peggiore della società. Quali favori devi promettere? Quanti soldi devi richiedere? E poi, più alta è la carica, maggiori sono i compromessi. Va da sé.

Bene e con questo, nella speranza di non beccarci un po’ di querele da destra o sinistra, da centro… o di sopra e di sotto, terminiamo quest’intervista con Alessandro Perissinotto, che è riuscito a rispondere lucido su temi così complessi, mentre era alle prese con la riparazione di un vetro di casa, montando e smontando, siliconando e avvitando. Nel congedarmi le sue ultime parole sono state: “Il bricolage è la mia passione” e questo lo rende ancora più umano, più vicino a noi.
Ivo Tiberio Ginevra per www.thrillercafe.it 

venerdì 23 settembre 2011

Nel cuore della notte






Autore: AA.VV
Editore: Del Vecchio
Anno: 2011



Rensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

L’opera nasce dalla volontà di Katharina Schmidt (traduttrice in tedesco d’alcuni autori italiani, fra i quali Nicolò Ammaniti) che ha riunito 9 scrittori con un unico tema: “La notte”, o meglio in un viaggio nel cuore della notte, che inizia alle 21.00 per terminare alle 06.00.

Un viaggio dal tramonto all’alba, dove ognuno dei narratori ha un’ora a disposizione per una storia rigorosamente collegata alla notte.

Nello specifico la raccolta comincia con Nicola Verde dalle 21.00 alle 22.00, per continuare in rigorosa sequenza con Gianmaria Testa, Bruno Morchio, Grazia Verasani, Andrea Ballerini, Lidia Ravera, Gianluca Morozzi, Sandra Petrignani e per finire dalle 05.00 alle 06.00 con Caterina Bonvicini.

Tutti scrittori diversi fra loro, con un solo unico progetto, narrare il tempo della notte scandito dalle ore. Ne viene fuori una piacevole raccolta dove ognuno di loro fornisce anche una sua libera interpretazione dello scorrere del tempo, perchè “…il tempo non appartiene a nessuno. Che il tempo è il tempo…e per governarlo ci vuole il padreterno.” (Nicola Verde) e ancora: “Alla fine, quel rubare il tempo, non poteva che risolversi in un niente, perché il tempo non si lascia ingannare dal tempo! Per quanto lo si stiracchi di minuto in minuto per non dare nell’occhio”. (Nicola Verde), oppure: “Soltanto le ore non muoiono mai. I giorni, i mesi, gli anni, i secoli, persino i millenni passano, si consumano, se ne vanno per sempre, inghiottiti dal tempo. Le ore no, le ore sono sempre le stesse. Navigano libere nel nulla…. Si dispongono diligenti in fila, prima una 1, poi una 2, una 3 e così via fino a una 24 e incominciano il loro lavoro. I giorni, i mesi, gli anni danno le direttive e se ne vanno, una volta scaduti. Le ore, invece, restano sempre.” (Gianmaria Testa) o per citare Bruno Morchio: “Il giorno sta scivolando via e porta con sé dieci anni trascorsi insieme. < Che dovrei fare? >, vorrebbe domandare. < Chiederti di aspettare, di prendere tempo? >. Lui che fin da bambino ha imparato che con il tempo non si gioca. Non possiamo né darlo né prenderlo, semplicemente non ci appartiene.”

I racconti si snodano nelle ore insieme alla vita degli uomini con le loro passioni, paure, riflessioni. Con il loro intreccio d’amore e morte, in un reticolo d’esistenze e dialoghi nel buio della notte, dove non ci sono più da indossare costumi o maschere dalla doppia personalità a protezione di se stessi.
Ore della notte vere, in quanto schiette, dove l’uomo non ha bisogno di prendersi in giro. Ore dove è costretto ad essere sincero almeno con se stesso. Dove il pensiero è reale.

Fra i nove racconti segnalo in particolar modo “Dalle 22.00 alle 23,00” di Gianmaria Testa per il felice e originale esperimento letterario, Gianluca Morozzi, “Se fossi Batman” per l’incredibile epilogo del racconto e “Quel che resta” di Bruno Morchio per l’introspezione psicologica dei personaggi in riflessione sulla crisi del proprio matrimonio. Da sottolineare anche “La chanson de Geneviève” di Grazia Verasani, col suo singolare poemetto in versi, e “Il pittore” di Caterina Bonvicini che narra di un amore complicato e impossibile fra una giovane studentessa e un anziano pittore.

Nel complesso si tratta di una raccolta monotematica, piacevole e snella, con all’interno qualche perla che la farà ricordare a lungo nella mente dei lettori.
Ivo Tiberio Ginevra

giovedì 8 settembre 2011

Cento per cento


Sasha Naspini
Perdisa Pop
Anno: 2011

Trama in sintesi:

Sono nato pugile, con la testa da pugile, il modo di camminare da pugile e tutto il resto. Al cento per cento. Non al settanta o al novantanove. Al cento per cento, signori miei. E uno così, in questo mondo di pugili al sessanta e all’ottanta per cento, fa baldoria, credetemi”. Così si presenta Dino Carrisi, immigrato italiano che ha iniziato con gli incontri clandestini per poi diventare due volte campione del mondo. Un grande boxeur che avrebbe continuato a vincere, se non fosse finito in carcere per l’omicidio della moglie. Da anni vive barricato in casa, malandato, scontroso, dedito al fumo e all’alcol. Oggi però ha deciso di concedere un’intervista in esclusiva. Ed ecco il documento integrale di quell’intervista, ecco che dalla sua voce affiora lo spettacolo di una vita non comune, dai primi incontri illegali alle luci sfavillanti della fama, dall’amore al rapporto con il suo allenatore, e poi gli incontri, i pugni, le sfide. Ad affiorare, però, sarà anche un’altra verità, una verità che arriva alla fine come un cazzotto ben preparato e assestato: il degno finale per un campione incapace di finire al tappeto.

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra per thrillercafe.it

È la rabbia l’anima del romanzo. La sua essenza stessa.

Sei capitoli, come sei round. Dove all’inizio i due pugili si studiano e al sesto uno dei due è ko.

Sei capitoli. Sei round. Tra Dino Carrisi e Dean La Palma. Il primo all’angolo lo conosciamo tutti con i soprannomi di Piede di Porco, Cerino, Corsaro, Nebbia Rossa e altri non è che l’italoamericano due volte campione del mondo; il secondo è un giovane giornalista rampante che conduce un programma di successo per la televisione americana Gli occhi dell’anima.

Il combattimento si svolge nel Vermont, New Ingland; l’appartamento da dove dieci anni si è barricato Dino Carrisi dopo essersi ritirato dalla box. Dieci anni fuori dal mondo chiuso in quattro mura, senza donne, senza soldi, in compagnia solo del fumo, dell’alcool e della televisione sportiva che ancora lo tiene collegato al mondo.

Il match fin dalle prime battute è molto cruento, perché il giovane giornalista è determinato e soprattutto tenace nell’inseguire il suo scoop televisivo. Agisce con l’esperienza di un vecchio cronista e l’imprenditorialità di un rampante direttore di giornale, e facendo leva sui deboli meccanismi che hanno spinto il pugile ad uscire dal suo esilio volontario (all’apparenza semplici motivi economici), inizia a condurre la ripresa con decisione, ma sbaglia tutto, perché davanti a sè trova un pugile vero. Uno, come ama definirsi lui stesso, al cento per cento. E Carrisi è “nato pugile, con la testa da pugile, il modo di camminare da pugile e tutto il resto. Al cento per cento, non al settanta o al novantanove, al cento per cento, signori miei.”

Carrisi è uno che al cento per cento non ha solo combattuto sul ring, ma ha anche vissuto la sua stessa vita, dove tutto, le donne, l’alcool, il fumo, il linguaggio, è stato spinto fino all’eccesso, fino all’omicidio, e dove ogni sentimento, ogni azione, ogni tutto è estremo, così come l’amore, la rabbia, la vendetta, il silenzio.

Carrisi sa anche lasciarsi perdere al cento per cento, e al contempo sa anche uscire di scena come un vecchio pugile che ha combattuto nel quadrato senza risparmiare un colpo, e gli ultimi, li tira al giornalista, al pubblico, a noi. Vincendo da sconfitto l’ultimo round contro i veri avversari di sempre: “Se stesso e la vita.”

Sarebbe troppo facile recensire questo libro fornendo anticipazioni sulla trama, e soprattutto su quei meccanismi sociali e psicologici che hanno portato il protagonista a vivere all’estremo (solitudine, emigrazione, aspetti economici, media, eccetera). Se scrivessi questo toglierei il piacere della lettura e scadrei nello stereotipo recensivo, pertanto non lo farò. Voglio solo dire che Naspini, in questo suo breve romanzo di appena centodieci pagine, senza fronzoli, e con un linguaggio diretto ed essenziale, sotto la difficile forma narrativa dell’intervista (e lo sottolineo), è riuscito a descrivere magistralmente un personaggio del tutto inventato come il pugile Dino Carrisi, e a renderlo umano e credibile, fino all’inverosimile, e Dino è un soggetto letterario che ricorderemo per lungo tempo perché è un uomo arrabbiato. Perché la sua rabbia è descritta fin troppo bene, come un solco da percorrere ogni giorno per tutta la vita, e lo ricorderemo anche per il suo senso d’impotenza e abbandono che lo pervadono fuori dal ring, insieme alla sua mancanza assoluta della comprensione della vita, perché Carrisi non ha capito proprio niente della vita, l’ha solo vissuta al cento per cento, con arroganza, ignoranza, creduloneria, sbagliando e risbagliando.

Carrisi è un personaggio nato per la box, che ha vissuto per questo e che adesso, dopo le sciagure e con la vecchiaia, non riesce e non vuole andare al tappeto. Vive al cento per cento e vuole vincere anche la sua ultima sfida con il suo amato/odiato mondo dello spettacolo e proprio come un uomo di spettacolo rientrerà per congedarsi dalle scene mettendo a knockout il suo avversario di turno: il giornalista che lo sta intervistando. Una degna uscita di scena, forse l’ultima, ma non credo. Bravo Sacha.
Ivo Tiberio Ginevra


lunedì 5 settembre 2011

Intervista a Francesca Bertuzzi


di Ivo Tiberio Ginevra per http://www.thrillercafe.it/


Francesca Bertuzzi, all’improvviso fai irruzione nel panorama letterario con una forza deflagrante e inaspettata. Il tuo “Il carnefice” sta andando benissimo, ma tu chi sei? Fatti conoscere. Presentati ai lettori di Thriller Cafè.

Sì, può darsi che sia spuntata fuori un pochino dal nulla, non avevo mai provato a pubblicare racconti, o articoli, o altro che anticipasse il libro… Però sono anni che punto tutto sulla scrittura. Certo questo gli altri non lo sanno e mi diverto molto a immaginare i grandi nomi in classifica girarsi e vedermi nella colonnina con loro chiedendosi con aria basita “E questa chi è?”. Per il resto sono una grandissima amate del noir, thriller, horror… e tutto ciò che fa mozzare il fiato in gola.

Com’è nato Il carnefice?
È nato in una torrida estate passata in Svizzera a leggere noir in un rifugio in mezzo ai boschi, e una mattina mi sono svegliata con l’idea di base del libro… poi, mano a mano che andavo avanti a scrivere la storia, i personaggi hanno preso sempre più corpo, in particolare quello di Danny, la protagonista. Insieme a lei è venuta fuori l’idea di caratterizzarla con lo spirito di una ragazza pronta a tutto pur di non essere una vittima. Intorno a questa colonna vertebrale si è sviluppato il resto della storia.

In quanto tempo hai scritto il libro?

Al libro ho pensato a lungo prima di scriverlo, soprattutto perché mi ci volevo dedicare totalmente e quindi era sorto il problema di avere a disposizione un periodo da dedicare unicamente alla scrittura. Ho risparmiato per un paio d’anni, poi, una volta avuti i soldi da parte, potevo permettermi due mesi. E in quei due mesi l’ho scritto.

Da dove hai preso l’ispirazione e perché hai ambientato la storia in un piccolo paese della provincia italiana?

L’ispirazione mi è venuta da un certo genere di letteratura e di cinema che mi appassiona e diverte… e negli anni, più sviluppavo questa passione, più le descrizioni di un certo tipo d’America, il Texas in particolare, mi ricordavano i luoghi dai quale proviene la mia famiglia. San Buono è il paese natale dei miei nonni, dove ho passato le estati della mia infanzia, e le polveri secche, i fucili da caccia, la schiettezza delle persone mi sono sembrati elementi perfetti per accostare l’Italia al Texas. Poi mi è piaciuto molto dare a Danny i connotati di quello che ho conosciuto dello spirito abruzzese: fierezza, schiettezza e testardaggine.

Il tuo personaggio principale è una donna africana, giovane, bella e concreta. Come mai hai scelto una protagonista di colore?

Da sempre, uno dei temi che mi crea più conflitto è quello dell’infanzia negata, e mi è sembrato che l’Africa centrale rappresentasse bene questo genere di sopruso… Luoghi in cui l’aspettativa di vita è sui 33 anni e l’iniziazione dei bambini ai gruppi dei guerriglieri è all’ordine del giorno. Danny doveva essere una specie di rivincita contro un certo tipo di ingiustizia.

A quale dei personaggi del libro sei più affezionata? E c’è qualcuno in particolare che ti somiglia?

Danny è la protagonista e non può che essere lei la mia preferita. È anche quella a cui ho dato di più di mio, condivido con lei anche il cane, Huan infatti è il mio amatissimo molosso. Poi in ogni personaggio c’è qualcosa che mi appartiene o che appartiene ai miei amici più cari…

Cosa ti è piaciuto di più quando hai riletto il romanzo?

Il capitolo in cui scappano dall’Africa è quello che preferisco.

Ho visto che alla fine del libro hai una lista di persone che ringrazi sentitamente. Qual è stato il miglior consiglio che hai avuto mentre scrivevi il romanzo?

Bè, durante la stesura della prima bozza del romanzo ho avuto accanto Marcello Bernardi, che leggeva capitolo dopo capitolo, e con cui parlavo spesso degli sviluppi della trama. Mi ha dato talmente tanti consigli che non saprei dire quale sia il migliore.

Continuo l’intervista facendoti le stesse domande che ci sono nella quarta di copertina del Il Carnefice… allora: Quanto pagheresti per avere una risposta alle tue domande più inconfessabili?

Le domande che ci sono sul retro del libro me le ponevo anch’io mentre scrivevo il romanzo… Mi piace pensare che sarei in grado di pagare il prezzo che richiede la verità.

Hai qualche fantasma che ti tormenta?

C’è qualcuno che non ne ha?

Cosa saresti disposta a fare per salvare chi ami?

E anche qui mi piace pensare che se ce ne dovesse essere bisogno sarei disposta a tutto.

Nel libro ci regali una breve storia, mi riferisco a quella di Buon Natale e un episodio di vita nostalgica e familiare (le due sorelle che giocano nella tinozza) che indubbiamente mostrano la tua vena di narratore intimista, con uno scavo psicologico considerevole a tutto beneficio della conoscenza dei personaggi e nella trama stessa. Hai mai pensato di scrivere un romanzo intimista? Io te lo consiglio.

Io sono un’appassionata di genere e mi sono divertita molto a scrivere Il Carnefice, però credo che se mi dovesse capitare di pensare a una storia che necessiti di essere declinata in uno stile più intimista proverei…

Scriverai altri Thriller?

Il prossimo, l’ho già in mente… Un’altra ragazza da cacciare in una brutta situazione.

Cosa c’è nel futuro di Francesca Bertuzzi?

Questo non lo so, però so di certo che cercherò di far diventare la scrittura il mio unico lavoro.

Fatti una domanda e datti una risposa.

Sei felice? Mai stata così felice!!!!!

intervista a Francesca Bertuzzi di Ivo Tiberio Ginevra per http://www.thrillercafe.it/

Intervista a Maria Tronca


Intervista di Ivo Tiberio Ginevra per www.thrillercafe.it

Prima di fare quest’intervista ho cercato notizie di te su internet. Volevo sapere chi mi sarei trovato davanti per impostare meglio il colloquio. Mamma mia quello che è venuto fuori: direttrice di prodotti editoriali di successo per il web e la telefonia, collaboratrice in famose riviste femminili, curatrice di una collana di letteratura erotica con più di 150.000 copie vendute, fondatrice del primo vero social network dedicato agli animali. Vivi tra Palermo e Milano. Appena puoi scappi per l’India e quasi quasi ti si deve andare a riprendere, Insomma Maria Tronca: Chi sei?

Sono una persona che ha imparato che nella vita è un dovere, oltre che un diritto, usare tutti i talenti che ci sono stati dati. Se non lo facciamo, ci priviamo della gioia e della soddisfazione che ne ricaveremo. E facciamo un torto anche agli altri, perché non ne godranno mai neanche loro. Il mio maestro indiano che si chiama Sathya, la mia guida spirituale, mi ha detto che il mio compito su questa terra è quello di dare emozioni alle gente. Ho sempre cercato di farlo in tutti i modi che conosco. E continuo in questo percorso. Ah, una cosa ti è sfuggita però: la cucina. Mi dicono che sia un'ottima cuoca, anche questo è un dono, ma fin'ora lo conoscono solo i miei familiari, parenti e amici. Ho pensato che è un ulteriore modo di dare emozioni e sto tentando di fare la cuoca a domicilio. Nel menù, per chi lo desiderasse, è compreso il racconto di una storia e la lettura dei fondi di caffè.

Allora a questo punto la domanda è d’obbligo: Nel tuo romanzo c’è la splendida idea della reincarnazione di uno dei due protagonisti. Era da un bel po’ di tempo che questa pratica non era riproposta, poi in chiave humour meno che mai. Siccome il tema è un po’ insolito, ci spieghi qual è il tuo rapporto con la reincarnazione?

Ci credo. Penso che siamo il frutto di tante e tante e tante vite passate, e che portiamo in noi memoria di tutte. Basta lasciarle venire fuori. Calogero ha appena iniziato un percorso. Spero.

In cosa vorresti reincarnarti e perchè?

Che bella domanda. In me stessa più saggia, meno emotiva e impulsiva. In me stessa che è riuscita a incanalare l'energia del vulcano che ha dentro in creatività e positività. In una persona che fa meno abbili, si può dire? Magari lo traduci tu. E che prende tutto un po' più alla leggera, perché credo che sia l'unico modo che permetta di avere una visione lucida della vita e che alla fine riesca a farti risolvere i problemi. Se ti lasci prendere dalla rabbia, dalla “passione”, non valuti bene e non vieni a capo di nulla anzi ti complichi la vita. Perché vorrei reincarnarmi in una Maria migliore? Perché alla fine della fiera mi sono affezionata a questo Cavallo Pazzo, mi piaccio e mi voglio bene.

Rosanero è un romanzo davvero forte, di grande impatto emotivo, originale, e a tratti anche divertente, quindi a te i miei migliori complimenti, ma spiegaci: come ti è venuta in mente una storia così singolare?

Non lo so. Nel senso che ero in bagno, il mio pensatoio preferito, e ho pensato che sarebbe stato carino scrivere di un mafioso morto ammazzato la cui anima finiva nel corpo di una bambina di nove anni. E ho cominciato. Man mano si è sviluppato l'intreccio, quasi da solo. D'altronde sono i mie personaggi che inventano le storie e poi me le dettano. Io le trascrivo fedelmente. Certo ogni tanto litighiamo perché non siamo d'accordo su tutto. Ma di solito la collaborazione è ottima.

Nel romanzo mescoli sapientemente il tema dell’innocenza dei bambini alla crudeltà mafiosa, ambientando tutto in una Palermo “problematica e magica”. Traspare un profondo amore per questa città, le sue tradizioni, la gente ed al contempo un forte disprezzo per la criminalità organizzata. Cosa rimpiangi della tua Palermo e come vorresti che fosse?

Rimpiango l'aria che respiro ogni volta che torno. Aria che vuol dire profumi, suoni, sensazioni ma anche colori e atmosfere per me magiche. Il mare di Mondello, i cornetti dell'Antico Chiosco, le ciambelle di Scimone, la Taverna della Za Pina alla Vucciria. Il calore della gente, della brava gente. Odio invece l'arroganza di tutti quelli che credono di potere continuare a usare, violentare, torturare Palermo, come hanno fatto fin'ora, indipendentemente dal ceto sociale. Anzi, posso capire coloro che lo fanno per ignoranza, ma non riesco proprio a perdonare quelli che sono ai vertici della pubblica amministrazione e lo fanno scientemente, quasi orgogliosi di uscirne come sempre impuniti. Vorrei che la mia bella città fosse più amata e coccolata e quindi pulita, ospitale, curata. Nel corpo e nell'anima. Vorrei che fosse protetta da tutti coloro che ci vivono. Vorrei un sogno.

Cosa pensi di Calogero Mancuso, l’eroe nero del tuo Rosanero?

Lo adoro. Perché lui si redime, lui si pente, lui ce la fa. E poi è un simpatico, un gran figo, e nonostante sia ignorante è intelligente. Il suo lato luminoso riesce a venir fuori e ad avere il sopravvento sul lato oscuro.

Cosa ami di più del tuo romanzo?

I dialoghi. Cerco sempre di scriverli come se ci fossero davvero due persone davanti a me che stanno parlando. A volte li recito ad alta voce, per vedere che effetto mi fanno, per verificare se siano credibili o no. I miei familiari sono abituati a sentirmi parlare da sola ad alta voce.

Quanto tempo ti è servito per scrivere Rosanero?

Non me lo ricordo ma ti posso dire che tornata dal secondo viaggio in India ho scritto tre romanzi in un anno e mezzo, e Rosanero era il primo. Il secondo esce il 13 settembre e si chiama L'amante delle Sedie volanti.

La fine del libro lascia intuire che ci sarà un seguito. Forse un’altra reincarnazione. Puoi anticiparci qualcosa?

Solo un nome, Rais.

Ho visto che nelle ultime pagine ringrazi Venezia, Miguel Bosè e Carla Bruni. Mi spieghi? Non riesco a metterli in correlazione?

Venezia perché Rosanero l'ho scritto lì. Ci ho abitato cinque anni e mezzo e dopo Palermo è la città che amo di più al mondo. Non è una città, è un sogno. Carla Bruni e Miguel Bosé perché fanno parte della musica che ascoltavo, e ascolto, mentre scrivo. Deve essere molto leggera, poco impegnativa, deve farmi compagnia ma non pretendete troppa attenzione altrimenti mi distrae. La musica, intendo. Loro sono perfetti, insieme a tanti altri, comprese le colonne sonore dei film di Bollywood.

Fatti una domanda e datti una risposa.

Cosa vuoi fare da grande Maria?
Voglio scrivere tutte le storie che ho in testa, dar vita alla moltitudine di personaggi che affollano il mio cervellino che non si ferma mai. Voglio cucinare per la gente e raccontare le mie favole che alla fine sono molto più vere di quanto appaiano. Voglio fare quello che so fare meglio: dare emozioni.

intervista di Ivo Tiberio Ginevra

Gioco Sporco


Gianluca Ferraris
Dalai editore

Due clan, uno campano e uno calabrese, combattono la loro battaglia quotidiana, che è al tempo stesso lotta per il potere e per la sopravvivenza.

Sullo sfondo, un’Italia dove gioco d’azzardo, scommesse, ippica e slot machine sono diventati il crocevia di un business da miliardi di euro. Tra il lassismo di uno Stato biscazziere per convenienza e il sogno disperato di milioni di persone che non hanno altro in cui credere, si apre una zona grigia dove proliferano guadagni illeciti, consenso sociale e omertà, nel Sud come a Milano.

Gioco sporco è un romanzo verità che attinge ai casi di cronaca degli ultimi anni. Un viaggio brutale e incalzante nel mondo della criminalità organizzata. Un’analisi senza sconti su cui riflettere per comprendere un fenomeno tutto italiano.

«Dentro il capannone che brucia, l’ex fagotto umano umido di piscio e vomito si è trasformato in un teschio adagiato su un mucchio di ossa annerite. Pare una bandiera dei pirati, col sorriso sghembo e il naso spaccato. E una puzza di merda essiccata da far schifo. Non è più il Ragioniere. Non è più Giovanni. È solo un infame che ha sgarrato. Pochi minuti e lo sapranno tutti. Le voci corrono, da queste parti. Ed è così che si muore, da queste parti. Bruciati vivi in un capannone, nell’ultimo buco di culo di paese di quello che chiamano Mezzogiorno. Ma mezzogiorno di cosa?»

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra per www.thrillercafe.it

Gioco Sporco si basa su una storia vera, realmente accaduta, e purtroppo è simile a tante altre di criminalità organizzata vecchia e nuova. Oltre ai nomi, i luoghi e qualche altra piccola cosa servente la narrazione, d’inventato, e ribadisco “purtroppo” c’è ben poco, perché ci troviamo dinanzi a un romanzo-verità, scritto da un giornalista che da anni si occupa di cronaca ed economia e che pertanto ha meglio potuto osservare e studiare l’evoluzione della criminalità organizzata.

Il romanzo, infatti, narra di due famiglie meridionali la Laurino di stampo camorristico e la Mazzaferro tipicamente ‘granghetista che stringono fra loro un’alleanza criminale per meglio investire e far fruttare i loro capitali sporchi.

Entrambi i clan sono in evoluzione continua, ma non mollano mai quelle che da sempre sono state le basi del loro proliferare delittuoso, e mi riferisco al pizzo, all’usura e all’estorsione. E di questo si muore nella realtà come nei romanzi: infatti Ferraris nel suo Gioco sporco, fa assassinare un povero cristo calabrese che non vuole cedere al ricatto della ‘ndrina e che soprattutto le ha mancato di rispetto. Il rispetto, quello che si riserva agli uomini d’onore e alle loro famiglie. Il rispetto, altro minimo comune denominatore della potenza malavitosa.

Ma oltre ai tradizionali canoni illeciti di ogni famiglia criminale, ai quali dobbiamo aggiungere il traffico di droga, dalla lettura del romanzo emerge l’esigenza di pulire il denaro sporco e soprattutto d’investirlo in nuove e lucrose attività. Queste esigenze hanno portato le criminalità organizzate ad esplorare nuovi mercati, a stringere nuove alleanze, ad investire i loro capitali in traffici assai redditizi e soprattutto, alla capacità d’infiltrazione nei territori del nord Italia con le relative capacità logistiche. L’ultima nuova frontiera, frutto di quel fiuto eccezionale per i nuovi affari illeciti che da sempre hanno avuto le mafie, è quella del gioco d’azzardo, da vedere come naturale evoluzione di quella già consolidata nelle scommesse ippiche e calcistiche della vecchia gestione.

Ferraris ci dipinge perfettamente i clan dei Laurino e Mazzaferro, facendo risaltare il sacro vincolo della famiglia e l’ancoraggio alle antiche tradizioni, soprattutto nella calabrese, nonché l’attaccamento ai vecchi e nuovi affari.

Inquietante è la parte del libro narrante la penetrazione criminale nei settori del gioco d’azzardo (scommesse ippiche, sale bingo, slot machine, videopoker, scommesse su internet, gratta e vinci tutti regolarmente truccati) e del racket del totonero con i suoi risultati combinati. Non scordiamoci che è di solo qualche mese fa la notizia del figlio di un boss della camorra fotografato a bordo campo dello stadio di Napoli e che da poco si è appena conclusa l’inchiesta della Federcalcio sugli illeciti calcistici che ha visto coinvolti calciatori del giro della nazionale e squadre di serie B e C.

In questo mondo moderno e globalizzato Ferraris ci fa assistere all’evoluzione delle nuove leve criminali oramai esperte d’internet ed economia, in grado di rischiare capitali in investimenti “sicuri” con l’aiuto d’altri clan criminali e la collaborazione di quelli altrettanto pericolosi dell’est europeo. Sinergie avide, senza scrupoli e quanto mai attuali. Sconvolgenti, brutali e tutte uguali fra loro, tese solo al profitto a qualunque costo e soprattutto a quello di non rimetterci.

Questi capitali, frutto delle nuove attività non ostacolate dal nostro “stato biscazziere”, una volta sommati a quelli tradizionali derivanti dall’estorsione, usura, droga, mettono in risalto un’economia totale e redditizia al massimo grado. Sapere poi che tutti questi denari provengono da gente comune oramai rassegnata al proprio destino e che la corruzione o l’indifferenza delle autorità (sindaci in particolare) consente alle mafie di infiltrarsi nei territori del nord con maggiore pressione, ecco, tutto questo porta allo scoraggiante convincimento che lasceremo un pessimo destino alle nostre future generazioni.

Da un punto di vista letterario il romanzo vive di un eccellente e marcato incipit, qualche episodio di buona letteratura e soprattutto di un’ottima caratterizzazione psicologica dei personaggi, ma rimane sempre ancorato ai canoni del romanzo-inchiesta, nel solco di quelli di Saviano, Nisini, Catozzella. Pertanto, anche se lo scrittore che di professione fa il giornalista, avvisa che non ci troviamo a leggere un saggio-inchiesta, ma un romanzo-verità, a mio avviso il taglio resta sempre di natura cronistica. Nel complesso si tratta di una lettura consigliabile, gradevole e decisamente attuale.

Ivo Tiberio Ginevra

Delitti esemplari (1957)

MAX AUB
SELLERIO EDITORE

recensione di Ivo Tiberio Ginevra per www.thrillercafe.it


Leggendo un libro trovo una citazione di “Delitti esemplari” di Max Aub.

M’incuriosisco e dico: “Max, il nome è il massimo che ci possa essere, ma è piccolo. Solo 3 lettere.” E poi “Aub: un nome che è un enigma, un mistero. E poi è pure corto. E breve è anche il suo libro, Delitti esemplari. Solo 61 pagine delle quali 20 di presentazione. Quindi in tutto 41 pagine edite da Sellerio”. Tutto mi suona come il massimo del mistero e al contempo il minimo dello stesso.

Per un appassionato del genere, questi elementi sono un’esca invidiabile. Abbocco.

Risultato: letto 3 volte in una sola giornata e subito dopo partenza per una forsennata ricerca sul web di Max Aub e tutto quanto riguarda le sue opere.


MAX AUB

Padre tedesco, madre francese, nasce a Parigi nel 1914, vive in Spagna e poi in Messico. Si sentirà spagnolo tutta la vita.

Vita burrascosa. Forte ascesa sociale da giornalista fino a diventare addetto culturale presso l’Ambasciata spagnola a Parigi. Nel ’39 è accusato di essere comunista e rinchiuso in un campo di concentramento. Evade tre anni dopo e ripara in Messico, dove muore nel 1972.

La sua produzione letteraria è vastissima e abbraccia tutti i generi. Max Aub è, infatti narratore, drammaturgo, critico, poeta, giornalista, cineasta.

Scrive opere d’intenso impegno politico fra le quali Il labirinto magico e non abbandona mai la sua vena d’autore satirico, eccentrico, umoristico.

Artista nell’arte della mistificazione con anarchia, ironia, e puro divertimento riesce a farsi beffe della società in cui vive. Scrive La vera storia della morte del generale Franco, in piena epopea franchista, inventa di sana pianta uno spagnolo pittore cubista, e lo fa diventare famoso interessando fior di critici per valutare le pitture e i disegni di questo mai esistito pittore e defunto in circostanze misteriose. S’inventa addirittura un epistolario con personaggi famosi e ne scrive la sua biografia, interrompendo a malincuore la burla solo dopo due anni, per riproporla nel 1963 simulando una Antologia di poeti e scrittori stranieri, anch’essi mai esistiti e tradotti in spagnolo.

Max Aub fu un autentico e raffinato scrittore d’avanguardia, un serissimo mistificatore che confuse la critica, ma non inganno mai divertendoli, i suoi lettori. Egli stesso confessa: “A me non preme la critica, preme di più la gente, il prossimo” (Lucrezia Panunzio Cipriani).

Purtroppo questo grande artista spagnolo è poco conosciuto in Italia perché non tradotto e quindi dobbiamo accontentarci di quel poco che c’è: fra questo i Delitti Esemplari.

DELITTI ESEMPLARI

Nascono nel 1957 e solo nel 1981 sono pubblicati in Italia dalla casa editrice Sellerio.

I Delitti esemplari è l’opera di un vero genio del secolo scorso. Nella sostanza si tratta di 82 confessioni d’altrettanti ipotetici delitti e “Sono quelli che quotidianamente, in intenzione, si commettono, e che Aub, trasportando la realtà nella surrealtà, da per consumati: con lampeggiante fantasia, con davvero esemplare rapidità e leggerezza. Le antipatie, le insofferenze, gli insopportabili incontri della giornata di ognuno sfogati e liberati in delitti senza castigo”.

Quanti di noi farebbero degli omicidi che nelle stesse intenzioni sono commessi durante il corso della giornata. Quanti! Pensateci. Iniziate a sommarli e vedrete quanti sono. Fate come ho fatto io all’indomani della lettura del libro.

Il primo che nelle intenzioni ho fatto fuori è stato il condomino del piano di sopra che ancora, dopo le innumerevoli volte che gli è stato detto, continua a fumare nell’ascensore, e poi a seguire, il portiere, che non è mai in guardiola per farsi il secondo lavoro (e io pago), e poi lo stronzo che ha posteggiato in doppia fila impedendomi di uscire dal posteggio con la macchina, per finire all’omicidio della fornaia che mi ha venduto il pane duro, dopo tanti anni che sono suo cliente. Ecco un semplice esempio di cosa ha fatto Max Aub nel suo Delitti esemplari. Ha dato sfogo a quella parte cinica e umana che sta dentro ognuno di noi.

Sono 82 omicidi che potremmo definire normali.

Sono di qualunque nazionalità, età, sesso, condizione sociale.

Sono omicidi universali, senza tempo. Impuniti, o meglio autoassolti.

Nessun moralismo, solo il piacere di abbandonarsi alla soppressione fisica di chi si detesta, e senza che abbia fatto qualcosa di particolare.

Nessuna follia omicida, nessuna pietà, solo il piacere di sbarazzarsi dell’altro, dove tutto assurge la veste della possibilità, pur restando impossibile, o meglio, dove tutto potrebbe essere drammaticamente possibile. Dove la violenza è giustizia, nella mente di chi si crede nel giusto, nella mente dell’omicida doloso che in generale agisce obbedendo ad un raptus improvviso, magari per uno stupido motivo.

I moventi sono i più insoliti e al contempo i più normali possibili: Odio, rancore, antipatia, noia, ripicca, semplici opinioni in contrasto che sconfinano nel cinismo e nell’insopportabilità assoluta del prossimo; nella sua sofferenza e disagio sociale, il tutto vissuto come un potente atto liberatorio, senza alcun pentimento.

I delitti sono pieni di una verve surreale, ricchi d’umor nero, anticamera della gratuita violenza di un film come Arancia Meccanica di S. Kubrik o dell’ironica violenza come Pulp fiction di Quentin Tarantino.

Aub è una lettura che fa sorridere amaro, che fa riflettere come un’improvvisa sferzata, che fissa i pensieri degli esseri umani per quelli che sono, e che abortiscono nel mondo reale, anche se ultimamente, nella vita d’ogni giorno, fantasia e realtà, dramma e follia sono sempre più presenti in ognuno di noi. Nei nostri affetti, nelle nostre cose, nel nostro mondo di mediocrità.

Ivo Tiberio Ginevra

Navigando in internet ho trovato su Youtube le immagini del “Primo premio festival internazionale cinema giovani” di Torino (1988) dove buona parte dei delitti esemplari è recitata da strepitosi attori come Duilio Del Prete, Renato Scarpa, Marco Zannoni, Pina Cei, Luca Zingaretti e c’è persino il sommo Andrea Camilleri, che recita la seguente confessione di Aub: La squartai dal basso in alto, come una pecora, perché guardava indifferente il soffitto mentre faceva all'amore.