venerdì 21 dicembre 2012

Intervista a Gianni Solla

Intervista a Gianni Solla di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

E allora intervistare Gianni Solla non è una cosa semplice. Lui dice di se stesso: Mi chiamo Gianni Solla. 36 anni. Zoppico per finta quando attraverso la strada bloccando il traffico. Lo faccio solo per provocare il senso di colpa cosmico nelle persone. Raccolgo i punti del latte e i punti della benzina. Spero di vincere il borsone entro Ottobre. Ho studiato la chitarra elettrica per dieci anni ma ho sempre avuto problemi con il mi bemolle. Per suonare una canzone devo accertarmi che dentro non ci sia il mi bemolle. Anche il fa minore mi ha sempre dato problemi. Abito a Napoli in un quartiere più pericoloso della striscia di Gaza. Da piccolo le maestre dicevano che ero un bambino precoce mentre mio padre diceva che ero mezzo scemo. La partita è ancora aperta.
Allora ci provo, ma non garantisco:
[D]: Cos’è il senso di colpa cosmico nelle persone che blocchi nel traffico con la tua simulata zoppia?

[R]: Nascere è una colpa, l’atto stesso della nascita implica il dolore che provochiamo nel corpo delle nostre madri. I preti ci ungono per lavarci dal peccato originale. Poi dopo si aggiungono tutti gli altri che compiamo.

[D]: Sì va be’! Ma generalmente cosa ti gridano gli automobilisti quando attraversi la strada?

[R]: Togliti di mezzo faccia di cazzo.

[D]: Perché continui a suonare ancora la chitarra se non prendi il mi bemolle e il fa minore ?

[R]: È una guerra con i mie vicini di casa. Serve a tenere alta la tensione. Non voglio che si sentano al sicuro.

[D]: Due titoli di canzoni senza il mi bemolle e il fa minore che li mettiamo come sottofondo musicale all’intervista.

[R]: Forse hanno queste note però sono belle e darebbero un tono all’intervista: Mogwai – I’m Jim Morrison I’m Dead e The Raconteurs – Carolina Drama

[D]: Uno scrittore professionista è un dilettante che non ha mai mollato (Richard Bach) e tu chi sei?

[R]: Sono il dilettate. Mi interessa scrivere, è la mia maniera di comprendere la realtà. Non riesco a farne a meno.

[D]: E chi è Sergio Scozzacane, alias “LO SQUALO”?

[R]: Scozzacane è quello che mi toglie la scena alle presentazioni. Mi chiedono di lui. Mi tocca spiegare che non poteva venire e che posso parlare io per lui.

[D]: Domanda scontata: Come nasce il personaggio dello Squalo?

[R]: Non lo so. Ignoro il momento preciso nel quale abbia cominciato a parlarmi. I personaggi dei libri sono atomi della personalità di chi la racconta, poi diventano sempre più indipendenti e alla fine mi lasciano sempre e vivono da qualche altre parte.

[D]: Domanda ancora più scontata: Perché una pinna al posto del naso? Questa da dove caspita ti è venuta.

[R]: Il corpo è importante. Penso che siamo il nostro corpo. La pinna di Sergio Scozzacane è la più grande infamia che la natura potesse compiere.

[D]: Ultima domanda scontata: Che genere letterario è il tuo ultimo romanzo Il fiuto dello squalo?

[R]: Anche qui non so risponderti. Il problema del genere appartiene ai venditori, ai siti internet che devono metterti in un database. Ho sentito varie definizioni, quella che più mi piace è Black Comedy ma non ho mai letto un romanzo Black comedy quindi non so se sia quella giusta però suona bene.

[D]: Finite le domande scontate ti chiedo se anche tu come Sergio Scozzacane dormi in una lurida pensione tipo Nuova Libia.

[R]: No! Dormo in appartamento che affaccia un po’ sul mare e un po’ nel parcheggio di un supermercato a Napoli Est.

[D]: Bene, ora dimmi cosa c’è di autobiografico ne Il fiuto dello squalo?

[R]: Eccola. E come si fa a rispondere? Scozzacane è invenzione, io sono quello che paga il mutuo ed è inseguito da Equitalia. Sono messo peggio di lui.

[D]: Ok, abbiamo capito che la musica per te ha un’importanza notevole. L’hai anche trasmessa al tuo Squalo, infatti, lui è un impresario di musica napoletana. Ma è un impresario “a pagamento” un po’ come l’editore “a pagamento”. Analogia piuttosto calzante per un fallito musicista o scrittore che sia. Che ne pensi di chi paga per farsi leggere o sentire?

[R]: La possibilità di poter distribuire il proprio contenuto gratuitamente attraverso i canali di internet dovrebbe annullare di fatto queste realtà truffaldine, anche se invece le persone continuano a comprare questi servizi. Non critico nessuno, non mi permetto, dico solo che io non lo farei.

[D]: Gianni, sono personalmente convinto che tu sei un talento straordinario, di grande sensibilità e lungimirante pensiero, ma i capelli… perché non li tagli? (questa domanda non te la aspettavi, vero?)

[R]: Ci sta pensano la natura a porre fine allo scempio estetico. Sono immorali, lo so, ma mi piacciono.

[D]: Nel tuo sito www.hotelmessico.net (che invito a frequentare) ci sono anche le poesie sceme. Cosa sono? Come nascono?

[R]: La composizione di una poesia scema deve durare meno di sessanta secondi altrimenti non è più scema ma ragionata e io non voglio questo. Sono poesie tutte uguali che parlano sempre di femmine e di fallimenti. Non conosco altro di cui scrivere.

[D]: La mia preferita è quella dell’abbandono. È bellissima e la trascrivo, però spiegaci di più.

Sono sempre stato bravo a trovare i soprannomi alle persone.
A quella grandissima puttana, che adesso m’ha lasciato,
per esempio,
io avevo trovato proprio quello preciso.
Ora guardo le televendite e gioco a Football Manager,
sto portando la Stabiese in Champion,
e sbaglio apposta i numeri di telefono.
Ho conosciuto una di Grosseto,
siamo diventati amici,
dice che c’è una cometa che il 22 maggio duemilaventuno colpirà la terra,
e tutto sarà finito.
Da tre settimane dormo in macchina,
sotto il portone della troia,
ogni tanto viene la polizia e mi portano in questura.
Mi hanno preso i pollici.
Agli sbirri ho raccontato tutta la storia,
uno di loro m’ha detto,
anche se questa cosa non deve saperla nessuno,
che lui l’avrebbe ammazzata al posto mio, la bagascia.
Dice che può procurarmi una pistola.
Poi mi dicono di andare a casa
e io vado di nuovo a dormire in macchina,
a contare i giorni fino al duemilaventuno.

[R]: Anche a me piace. Avevo anche dimenticato di averla scritta.

[D]: Progetti futuri?

[R]: portare a lavare la macchina e cambiare la cinghia della distribuzione, nel breve il progetto è questo. Sì certo, scrivere.

[D]: Da piccolo le maestre dicevano che ero un bambino precoce mentre mio padre diceva che ero mezzo scemo. La partita è ancora aperta. Chi vince?

[R]: Mio padre non ha mai sbagliato.

intervista di Ivo Tiberio Ginevra


giovedì 13 dicembre 2012

Nella carne






Autore: Sara Bilotti
Editore: Termidoro Edizioni
Anno: 2012
Pagine: 116

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
publicata su www.thrillercafe.it

Sara Bilotti esordisce con un libro di racconti. 12 per l’esattezza. “Quelli giusti”, penso quando ho in mano il volume.

Indubbiamente la forma del racconto fra le varie espressioni artistiche è una delle più difficili. Non sono guardingo, ma questo genere è un problema anche per chi mastica scrittura da sempre. E credo che lo sia ancora di più per chi decide di esordire in questo modo nel panorama letterario.

Il racconto è un mondo a parte. Non è come un romanzo. Nel racconto non hai tempo. Non c’è tempo. C’è sintesi. Troppa sintesi. Non c’è racconto senza sintesi. Non c’è genialità senza la sintesi. La sintesi è l’essenza stessa del racconto. E oltre la sintesi, il ritmo. Un ritmo nei suoi tempi rapidi e scanditi dalla storia. Un ritmo imposto alle parole. Un ritmo tale da risucchiare subito il lettore in poche righe. Nel gorgo del racconto. E dei pensieri. Sintesi e ritmo elementi essenziali del racconto.

Nel racconto breve non c’è il tempo per l’evoluzione dei personaggi. Non c’è tempo per le loro vite o le loro vicende. Non c’è tempo di niente. Dall’altro lato c’è solo una persona che legge. Che deve essere investita. Carcerata fin dall’inizio da frasi imprigionanti con dettagli efficaci. Frasi fortemente ossessive per raggiungere l’effetto di continuare a leggere. Senza smettere. E fino in fondo come una tela che s’imbeve arida d’acqua essenziale. E non solo. Il racconto deve entrarti nella carne. Si deve ricordare. Si deve ricordare per lungo tempo. Se non si ricorda è un fallimento. Per far questo i fatti devono susseguirsi come a rincorrersi. Tutto deve essere chiaro. Ricco di tensione. Un mix di paure, ossessioni e umanità. Umanità solidificata nell’ambiente dove si svolge l’azione. Umanità che non può prescindere da questo. Dal suo ambiente dove trova il disagio. Dove il lettore si deve muovere come in una palude. Alle dipendenze esclusive del suo creatore. Del demiurgo che opera con poche ritmiche pennellate cariche di dettagli che fanno la differenza.

Questo è quello cerco in un racconto. E questo è quello che ho trovato nella raccolta di racconti di Sara Bilotti. In poche parole ho avuto in mano l’opera di un vero scrittore. E non capita facilmente un demiurgo che sperimenta tecniche nuove.

La raccolta è composta da dodici racconti disincantati dove Nulla è ciò che sembra. Dove realtà e finzione demarcati da una sottile linea rossa di dolore si rincorrono fra ordine e follia in una costante recita. Dove ognuno dietro la maschera che indossa per il comune vivere sociale, nasconde più volte passioni morbose o aberrazioni inconfessabili. Una recita ben riuscita, fatta da attori normali figli del quotidiano malessere. Personaggi che non danno tregua. Portatori di paure reali. Orrori e paure. Mostri. Mostri personali. Sepolti e rinati. E risepolti da Sara. Che è un cane lupo, che fiuta, morde rincorre e morde ancora fino a trasformare le sue paure, in paure collettive, e poi in arte. Ho sbagliato: in Arte con la A maiuscola. Senza fronzoli. Essenziale. Un’Arte d’essenziali pensieri che vanno oltre. Che trapassano la carne e vanno oltre. Oltre. OLTRE. Con eleganza. Con stile. Senza mai una semplice forzatura.

Una passione desolata quella che esce fuori dai racconti di Sara Bilotti. Pulsazioni d’amore insano. Indifferente. Violento, voluto, o plasmato. Una passione che riga le pagine con naturale lirismo, del quale, si accusa subito dipendenza finita la lettura. Dipendenza dallo stile del tutto creativo e personale della scrittrice che non si mostra, ma che mostra sempre restando un passo indietro a quelle amare storie di banale quotidiana follia dei drammi arrabbiati. Delle invidie subite. Abusate in un grido di dolore che entra Nella carne. Inevitabile. Spiazzante. Senza cinismo alcuno e ricco. Ricco di vera umanità. Di commozione sensibile per i drammi degli indifesi. Di chi è piccolo. E solo. O malato.

Si mastica amaro nei racconti di Sara Bilotti. C’è troppo disagio di vivere. C’è troppo amore malato. O incapacità d’amare. C’è lo spazio ingombrante dell’amore che si trasforma in impulso distruttivo a qualsiasi costo. In una sequenza che non da tregua, dove tutto non sembra reale perché È. È reale. Senza possibilità di riscatto all’interno di follie familiari isolate e sole. Di famiglie isolate e sole. E di veri drammi all’interno di queste solitudini. Istinti assurdi. Sentimenti orribili. Un susseguirsi di colpi di scena. Brava Sara. Tutto quadra. Niente è messo a caso. Ogni parola è pesata. Ogni frase è studiata. Vissuta. Sentita. Brava Sara è stato un piacere vero e struggente leggere il tuo libro. Ora aspetto. Aspetto.

Qui finisce la recensione.

Quello che segue è un piccolo commento a tutti e dodici i racconti di Sara Bilotti, ma prima devo scrivere dell’ossessione di Sara.

Questa ossessione è il TRE che come un chiodo fisso è riportato più o meno consapevolmente in ogni racconto. Trinità, dunque, espressa da un numero perfetto: Il tre. E sempre Tre sono gli sviluppi d’ogni racconto, le soluzioni, i protagonisti, le azioni, i numeri e le ore. Tutto. Ogni cosa ruota intorno al tre. L’opera è scandita da questa trinità opprimente a partire dallo stesso numero di racconti 12 per l’esattezza. 12 multiplo di 3. Oppure 12 =1+2=3 e se guardate meglio c’è anche una terza soluzione.

Farfalla non è un racconto è una perfetta bomba ad orologeria, a partire dal suo innesco. E’ una bomba deflagrante e distrugge tutto. Oltre all’equilibrio della narrazione, allo scavo interiore nella psiche, e alla raffinata ricerca stilistica, c’è un gran bella quadratura del cerchio con la descrizione degli odiati contadini e della famiglia del marito, dove il male istillato dal bruco entra nella carne ed esce farfalla, in un gioco delle parti dove lei diventa lui, e come lui, detestabile contadina.
Nulla è messo a caso in questo racconto!

Caos c’è cinismo e lucida follia. C’è sarcasmo ed esasperazione. C’è il dono della parola e una mano che la plasma, dove nulla è mai messo a caso. C’è un qualcosa nell’ultima pagina che mi ricorda i finali dei racconti di Pirandello. Ecco cosa c’è: C’è il genio.

Passo numero quattro scritto a lettere e non a numero. Volutamente per aumentare l’attesa, tra realismo poetico e lirismo angosciante.
L’azione, il pensiero, il tutto è un incedere monco di passi fino al tre. Incedere monco come quello di Antonio e tutta la solitudine dei tre personaggi è racchiusa in soli tre passi. Tre passi di travaglio interiore, follia e isolamento che finalmente portano al quarto liberatorio: quello decisivo del coraggio che scardina la paura con la forza dell’amore. Poi torna la solitudine dei numeri che lascia il posto alle parole non dette. Al silenzio della brezza marina. Al silenzio dell’inizio: lo zero.
I dialoghi corti ed incisivi mi hanno ricordato il miglior cinema e le atmosfere di T. Kitano.
E come sempre tutto quadra.

Clara e Adele anche questo racconto è regolato dai numeri. Precisamente dal 3 e dai suoi multipli. E’ il più lungo e racchiude 9 anni in 10 pagine.
Non ha i comuni salti temporali dettati dal tempo e dalla gente, ma ha lo scorrere del tempo legato alla vita della famiglia a multipli di tre, dove tutto cresce in modo esponenziale, o muta nelle logiche delle vite, tentando d’inglobare un vissuto incolmabile.
Nove anni d’amore. D’amore normale e malato, dove lo spazio ingombrante del sentimento è racchiuso nella gioia d’essere accettati o voluti, oppure nella paura del contrario, fino al paradosso di non credere di essere accettati. Amore che sembra. Amore che è. Amore che è incapacità d’amare pur amando. “Lei mi viene incontro come un treno, io apro le braccia e la accolgo. Il dolore arriva molto più tardi di quanto avessi immaginato. Sorrido. Perchè Adele mi ama“. Bello questo amore malato che “si avvicina e si allontana, come se io fossi una lampadina incandescente e lei una falena impazzita“.
… e poi il solito lirismo di cui accuserò la dipendenza. Io lo so bene.

L’uomo nero è sempre il tre il numero che ricorre nelle storie di Sara. Non sono un matematico, anzi odio la matematica, ma il tre c’è sempre.
La visione di questo triangolo perfetto Figlio, Padre, Madre, è infatti triplice come logica pura e al contempo triplice, come le sue interpretazioni.
L’uomo nero è un teorema.
Il figlio è abusato dal padre. Il padre a suo tempo ha ricevuto le stesse morbose attenzioni. La moglie/madre si vendica del marito/padre strumentalizzando il figlio contro il genitore innocente.
Tre visioni diverse di uno stesso problema. Tre vissuti diversi che s’intersecano, strumentalizzano e si sommano, dove l’unico risultato possibile dell’equazione matematica è solo il male. Il male! Tre volte il male.

Pozzo verde l’ho dovuto leggere tre volte per dire che è il solito eccellente Bilotti.
Si entra subito. Idee chiare per tutti. Lettore e protagonisti subito inquadrati, ma….nella vita di Barbara c’è un buco e un sacco di polverina bianca. C’è anche una grossa crepa in famiglia, con gli altri, con se stessa. Polverine e crepe come metafora anticipatoria del crollo di Barbara, incapace di reagire, ma lucida. Impossibilitata a reagire, ma sempre più lucida nonostante i suoi complessi d’inferiorità e sudditanza. Vittima dell’indifferenza. Uccisa tre volte dall’indifferenza. Autoconsegnatasi al carnefice nella sua metamorfosi.
La brava Sara lascia aperto tutto alle solite molteplici interpretazioni, dove ogni soluzione quadra il cerchio o chiude un triangolo; che apre una caterva di temi per confrontare e discutere sui malesseri della società, della famiglia e dei minori.
In Pozzo verde c’è la solita ossessione del 3. Faccio presente che la violenza di Vincenzo è durata 3 giorni. Che da bambina Barbara è portata da 3 specialisti. Che sono le 2 e quaranta del pomeriggio, tra venti minuti c’è la prima messa. Ovviamente14,40+00,20= 15,00 che nel gergo comune sono le 3 del pomeriggio. E sì credo proprio che il 3 sia una grande ossessione, come la metamorfosi (già presente in bruco e farfalla che un po’ ovunque).

Legami di sangue dal titolo ambivalente come parentela e come laccio. Laccio che stritola il legame di sangue. Laccio ancora più stretto dello stesso legame.
Anche in questo racconto torna il tema dell’indifferenza come arma per ferire, ma stavolta si evolve pure per offendere, sempre nella sua glaciale impotenza.
Nella progressione dei racconti doveva per forza seguire il Pozzo nero, pertanto credo che ogni storia del libro ha un ordine cronologico ben preciso. C’è un unico motivo d’evoluzione/involuzione e come al solito nulla in questi racconti è messo a caso. Sia dentro che fuori.
E torna l’amore, come in ogni storia. Con i suoi gesti folli. Impossibile, o rassegnato. Violato o condiviso, ma sempre folle. Un amore malato che consuma la carne sempre con l’indifferenza. Indifferenza della famiglia, soprattutto.Anche nel dovere della riconoscenza.
Ovviamente è nello stile di Sara che i racconti sono sempre aperti a chiusure libere e alle sensazioni personali incondivisibili.
Ricorre la solita ossessione del 3 – tre protagonisti, ma ultimamente noto che uno di questi muore sempre nel corpo o nello spirito e in pozzo nero, anche nell’anima.
Sensazioni forti. I racconti si devono rileggere per avere la stupida impressione di averli afferrati, ma prenderli è come prendere qualcosa d’inafferrabile. La fine è splendida, “…stasera sarà più difficile del solito, far prendere le medicine al mio bambino”. C’è arte nel finale.

Senza voce quando è uscito nel Blog thrillerpages.blogspot.com ho riportato un trauma. Da allora lo sento ancora vivo nella pelle e dentro di me. Mi ha scosso troppo. Mi ha abbattuto, fatto sentire impotente, muto, scioccato e depresso. Mi ha semplicemente distrutto.
Ha reso fin troppo bene il concetto d’abuso sommato a quello dell’infanzia indifesa e violata. Ha accusato la società con le sue strutture inutili se non altro ricettacolo d’immondizia umana, e potrei scrivere per ore. Quest’impotenza mi ha fatto soffrire. Ho ancora pena enorme dentro al cuore.

Nella carne è il dono della parola e una mano che la plasma. È il dramma dell’indifferenza e della rassegnazione. Due temi cari a Sara Bilotti e figli della stessa madre: “l’Amore”. L’Amore incapace di donare. L’Amore malato e irriconoscente. Anche qui abbiamo marcata l’espressione della trinità ossessiva della Bilotti a forma di tre.

Loro è bello. È uno spillo nero che acceca il cervello. “… di fronte, c’è la porta della vecchia, che vive attaccata allo spioncino come se fosse la flebo che la tiene in vita“. È il cervello il protagonista. Il cervello malato, come il cuore, come l’amore, come tutti i racconti della Bilotti. Pensieri fatti di lama che si conficcano nella carne. Che uccidono lentamente e inevitabilmente. Che non lasciano scampo.
Niente da perdere rancore. Rimpianto. Vendetta insulsa. È l’apoteosi della trinità Bilottiana. Tre. Ovunque. Ossessivo, ma sempre nascosto. Ripeto, sempre nascosto. Tre, vigliacco e maledetto. Narcisista e pieno di rancore. Tre folle e vendicativo. Tre smemorato e soddisfatto. Un finale degno di nota. Spiazzante e geniale.

Athina è libera lo dice il titolo. È scritto insieme a Massimo Rainer, amico e Faro di Sara. Questo racconto dal solito finale più che imprevisto, è però diverso dagli altri. Qui si vede bene la mano di Rainer con i suoi inconfondibili e amabili eccessi. Personalmente il racconto anche se molto valido e bello non l’avrei inserito in questa raccolta, perché troppo diverso da quelli che lo precedono, ma credo proprio che questo era un atto dovuto per celebrare il sodalizio fra i due scrittori.

In conclusione nei racconti di Sara Bilotti una sola cosa è certa. Sara ha sepolto Sara e io l’ho tirata fuori, ma non scriverò mai della sua ossessiva metamorfosi, anche perché credo d’averla sezionata abbastanza e soprattutto di avere ampiamente abusato della pazienza dei pochi lettori che stremati sono arrivati alla fine di questa recensione interminabile.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

venerdì 30 novembre 2012

L'Ammazzatore



L'AMMAZZATORE
Autore: Palazzolo Rosario
Editore Perdisa Pop (collana Babelesuite)
Anno:  2007
Pag. 111

TRAMA: "Certuni coi baffi dicono che da ammazzatore ad assassino il passo è breve, dicono che quando succede, la faccia si fa d'improvviso una maschera stipata di rughe e che se uno non ci sta attento, se non se la fida a distinguere, si ritrova con la coscienza nera come alla pece e non ci dorme la notte, loro che c'hanno i baffi dicono così e ci devo credere. Io, secondo me, penso che la stessa cosa precisa può capitare pure ai dottori, o a quelli che guidano gli aerei, mettiamo". Ci sono uomini costretti a vivere una vita che non gli appartiene, per scelte che non hanno fatto, per idee che non condividono. Ernesto Scossa, il protagonista de "L'ammazzatore", è uno di questi. Nato in una Palermo che non concede vie d'uscita, si trova a dover uccidere per mestiere, fino a quando la consapevolezza di una scelta non gli concederà un vago spiraglio di luce. E farà ciò che c'è da fare, costi quel che costi

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su thrillerpages.blogspot.com

Un buon libro non ha età e lo scorrere degli anni lo fa diventare ancora più buono. È un po’ come il vino, cambia solo il suo alloggio da botte di rovere a ripiano di una libreria, ma il sapore, quello di una buona bevuta, resta, eccome se resta.

Palazzolo a me fa quest’effetto. Ubriacante. Cento e rotti pagine di un vino d’annata rosso dal sapore corposo e complesso. Rosso, perché nelle sue storie c’è sempre il sangue, complesso perché evoca sapori dalle pulsioni ancestrali, corposo perché non può prescindere da un contesto sociale che si appiccica alla pelle diventando una sola unica cosa con il lettore.

Ne L’ammazzatore, così come nelle altre opere di Palazzolo, la prima cosa che colpisce è lo stile più che innovativo e personale del linguaggio, fatto da un uso scorretto della punteggiatura e delle maiuscole, al quale si devono sommare lunghi periodi che contengono spesso errori di sintassi o di grammatica. Non è un rimprovero, ma un paradossale complimento, perché con questo sgangherato modo di esprimersi ci si addentra all’interno della storia come se fosse stata scritta e narrata dal suo stesso protagonista. Rosario Palazzolo, lo scrittore, non interviene. È assente. È solo il suo personaggio che scrive, quindi c’è il libero sfogo ai suoi contorti pensieri trasmessi così come vengono, senza un rigore letterario. L’effetto, mi si consenta il termine meraviglioso, è quello di coinvolgere il lettore non solo nell’incedere in una lettura ricca di primordiale musicalità, ma di trascinarlo nell’intero mondo del protagonista incollandoti addosso i suoi luoghi e le sue cose. Pure i pensieri intimi e pensieri neanche pensati. Pure la miseria senza riscatto. È solo grazie a questo linguaggio colloquiale di un io narrante sgrammaticato e senza filtri che tutto prende un senso e diventa materia plasmata.

La storia è semplice. Ernesto Scossa è un giovane palermitano del popolare quartiere di Brancaccio. Ernesto ha addosso il degrado sociale e culturale della sua città. Non ha speranza, volontà e forza di uscire da questo ambiente, che accetta con disarmante ineluttabilità. Senza volere, sperare o semplicemente pensare ad un riscatto. Riscatto che gli è negato “a prescindere” da “u Ziu”. Dal potere mafioso. Quello terreno, che comanda e decide vite e destini degli uomini, come se fossero pertinenze del quartiere. Come oggetti che gli appartengono. È proprio “u Ziu” che lo vuole killer alle sue dipendenze. Per certuni un onore, per altri una maledizione, per Ernesto Scossa solo un lavoro da fare senza chiedersi il perché. E Scossa è bravo. Fa bene il suo lavoro. “u Ziu” è contento e inizia ad avere progetti migliori su lui, finché il meccanismo di ammazzare senza un perché si blocca in modo imprevisto e nell’unico possibile. Scossa s’innamora della sua vittima. Il finale è chiaro perché è scritto fin dall’inizio. Lo dice proprio Ernesto Scossa, L’Ammazzatore: “quando sono morto io si fece festa, una festa stramba e inutile, ridicola come le cose ridicole, una festa che ognuno se ne stava a casa propria a gioire in silenzio, una festa senza brindo, senza mani strette e sorrisi aperti, una festa muta, una festa che se mettiamo uno sarebbe passato di là non se ne accorgeva che c’era questa festa, era una festa a minchia, una festa senza cerimonie, una festa guasta….” Nonostante si conosce bene l’esito della storia, il finale è singolare e spiazzante, perché, ovviamente, “u Ziu” non gradisce l’alzata di testa e L’Ammazzatore muore ucciso dalla sua stessa coscienza e da quello che ha imparato nel suo essere L’Ammazzatore.

Tutto qua. Poca cosa. Il problema è che Palazzolo concentra in 111 pagine una quantità tale di riflessioni e contenuti da mandare in tilt anche il più incallito dei critici. Fare una sintesi, o peggio, esprimere, o peggio ancora, commentare le sue opere è una cosa che può e si deve lasciare soltanto ai professionisti, ai così chiamati addetti ai lavori. Io accecato dalla sua Arte posso dire solo poco e solo bene. Certo ho ben compreso il perché del titolo “L’Ammazzatore” e non “Il killer” o altro, e questo perché L’Ammazzatore è uno che semplicemente esegue. Non è un assassino che uccide. C’è una profonda differenza fra chi uccide senza chiedersi un perché, proprio perché rientra nel concetto di normalità e chi lo fa per una qualsiasi ragione. Uno ammazza, l’altro uccide. E non c’è neanche il classico rapporto fra causa ed effetto. C’è solo l’effetto. La morte. Se poi si deve proprio cercare una causa, allora questa non sta dentro Ernesto Scossa, ma solo dentro al concetto di materiale degrado socio culturale dove il protagonista è nato, vissuto e morto. Un ambiente dove la criminalità adesca, plagia o schiavizza i ragazzi facendoli crescere nel mito della delinquenza stessa. Un contesto mafioso, senza essere mai nominato anche una sola volta dallo scrittore, ma a ben guardare, quella di Scossa non è neanche una storia di mafia. È una storia di potere a prescindere dalla sua stessa matrice mafiosa. E a ben guardare non è neanche un potere, ma Il Potere, quello vero. Quello della spersonalizzazione dell’individualità ed a L’Ammazzatore, infatti, è anche negata la libertà, o meglio la stessa scelta di uccidere, perché è vittima lui stesso.

Adesso a Rosario mi rivolgo. Ora, tu che sei anche, attore regista e sovrintendi una compagnia teatrale, ascolta il mio desiderio: metti in scena L’Ammazzatore. È un testo che merita molto. Ne vale proprio la pena. È difficile, lo so bene, ma un personaggio come Ernesto Scossa credo proprio che ha diritto ad una sua vita sulle tavole di un palcoscenico pieno di Occhi, Baffi e Santa Rosalia.
Recensione a cura di Ivo Tiberio Ginevra

ROSARIO PALAZZOLO

È nato a Palermo, nel '72.
È drammaturgo, scrittore, regista e attore.
Nel 2002 ha fondato - con Anton Giulio Pandolfo - la Compagnia del Tratto, associazione che si occupa di nuove drammaturgie.
Per il teatro ha scritto: Ciò che accadde all'improvviso, I tempi stanno per cambiare (con Luigi Bernardi), Ouminicch', 'A Cirimonia, Manichìni.
E per la narrativa: L'ammazzatore (Perdisa Pop, 2007) e Concetto al buio (Perdisa Pop, 2010).
Solitamente, fa il regista di ciò che scrive.
E - quando non può farne a meno - l'attore.

martedì 20 novembre 2012

Il castigo di Attila


Autore: Paolo Foschi
Editore: E/O
Anno : 2012
Pag. 150

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
Gran bella scoperta, il commissario Ivan Attila, della sezione Crimini Sportivi sezione di Roma. Gran bella trovata. Un commissario che indaga su crimini legati al mondo dello sport, con una squadra composta da ex atleti “falliti” a partire da Attila stesso ex pugile, medaglia d’argento alle olimpiadi di Seul. Di questa squadra fanno parte Lillo Santoni, in arte fantino perché proveniente dal mondo dell’ippica e incappato in un giro di scommesse clandestine, Checco Rossi, il ciclista detto Farmacista con una brutta storia di doping alle spalle, e poi ancora Luchino de Medicei, il conte, ex tennista e Palmiro Giovannelli, Fiocco di neve, proveniente dal basket. Su tutti domina la figura del commissario Ivan Attila, ben caratterizzato da Paolo Foschi in sole 150 pagine circa di buona tensione investigativa.

Il commissario restò in silenzio. Sembrava la scena di un film. L’aria era carica di tensione e di attesa. Igor Attila socchiuse gli occhi. Si sentiva un po’ come Re Artù davanti ai suoi impavidi cavalieri. Gli eroici Cavalieri della Tavola Ikea.
“Le vacanze sono finite”.
Pausa.
I quattro poliziotti della squadra rimasero in silenzio.
Igor Attila non voleva creare suspense. Ma le parole proprio non riuscivano a venir fuori. Era ancora sconvolto per l’sms ricevuto la sera prima.
Non cercarmi più. Ho un altro. E sono felice. Cerca di rispettarmi almeno adesso.
Un colpo al cuore quelle parole.
Doveva immaginarlo e chissà da quanto tempo andava avanti questa storia. Forse anche prima che…
Sbattè con forza il pugno sul tavolo….

L’indagine lo vede alle prese con l’omicidio del portiere Rocco Graziano della Roma calcio, all’indomani della vittoria della squadra in Champions League, la più importante delle competizioni calcistiche per club. Tre colpi di pistola, per stroncare la vita di una giovane promessa dello sport italiano. Le indagini prendono piste diverse perché fin da subito si scopre che Rocco Graziano ha una doppia vita e molte possono essere le persone che hanno dei buoni motivi per ucciderlo in un mix di sporca politica, camorra, mondo dello spettacolo e storie sentimentali. Alla fine il commissario Attila verrà a capo di tutto donando al lettore una conclusione di Umana e Personale giustizia.

La personalità di Ivan Attila domina la storia, rispettando sempre la sua ambientazione romana che fa da sfondo alla vicenda senza massacrare il lettore con riferimenti di vie, luoghi, spazi ecc. Una Roma presente, ma non invadente, come la vita sentimentale del protagonista sempre viva e sempre relegata ai margini dell’indagine. I pensieri di Attila non sono mai espressi a parole, vivono nei suoi comportamenti e soprattutto nell’ossessivo rapporto con il corpo e la continua voglia di superarsi nella fatica e nell’esercizio fisico. Mentalità vincente la sua. Fatta di sacrificio, tenacia e tanta musica per vincere la rabbia:

Fu costretto ad attendere ancora un po’. Era nervoso. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Non si era sentito così emozionato nemmeno ai tempi delle olimpiadi. Adesso però era tutto diverso. All’epoca era pieno di sogni e speranze. Ora invece era pieno di rabbia.

Rabbia che sfoga con pericolose corse in moto e allenamenti ai limiti del collasso. Rabbia che cela un personaggio complesso:

La morte lo aveva proiettato al centro di un vortice. Era giustizia o vendetta quella che andava cercando? Forse era ancora in tempo per fermarsi.
Voglio ringraziare Paolo Foschi, scrittore, per aver creato un personaggio come il commissario Igor Attila completo e perfetto. Ironico e profondo. Malinconico al punto giusto e sbirro, anche se, asservito ad una giustizia non del tutto legale, ma indubbiamente giusta e condivisibile.

Una chicca Paolo Foschi la riserva al Sommo Maestro: “… Ma, dico, è impazzito dalla sera alla mattina? E perché non mi ha informato prima? Che si è messo in testa? Si crede di essere Montalbano? Qui non siamo in una fiction o in un romanzo di quattro soldi…”.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra



martedì 6 novembre 2012

Il fiuto dello squalo


Autore: Gianni Solla

Editore: Marsilio

Anno: 2012

Pag: 297

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

Sergio Scozzacane è un manager discografico, conosciuto nell’ambiente napoletano con il soprannome di “Squalo”. L’ingiuria la prende fin dalla nascita. È suo padre a dargliela. Ha una pinna al posto del naso. Da allora è sempre stato “lo Squalo” per tutti.

La prima volta che mio padre mi ha chiamato Squalo avevo tre settimane. Mi teneva avvolto in un plaid marrone a pochi centimetri dalla stufa a cherosene che accendeva bruciando un foglio di giornale infilato nel buco del serbatoio. Aveva paura: adesso che ero nato, era davvero costretto a tornare nel letto di mia madre tutte le notti? Continuava a guardarmi attraverso gli occhiali a goccia e non si spiegava quella cosa misteriosa che avevo sulla faccia.Mi chiamò squalo perché aveva il piacere che avessi il nome di una pianta carnivora o di un predatore. Doveva farlo sentire meno responsabile. Se ero nato con quella pinna al posto del naso, c’era da aspettarsi che mi sarebbero comparse le branchie e in bocca un centinaio di denti triangolari. Era convinto che per ognuno di noi esistesse un solo nome possibile, e lui aveva trovato il mio.
Quarant’anni dopo, sul mio biglietto da visita c’è scritto LO SQUALO.

Lo Squalo è un fallito. Uno spiantato. Uno che nella vita non ha combinato niente e niente ha capito della vita. Si è solo barcamenato nei vicoli di Napoli, vivendo alla giornata con un lavoro ereditato dal padre e da lui distrutto per la sua innata mancanza di fiuto negli affari. Ha una marea di debiti, di quelli grossi, ed è stato così pirla da averli contratti con la camorra; e con la camorra non si scherza. O paghi o muori.

“Ti devo tagliare un dito”… “ Parliamo seriamente, questa cosa fa schifo pure a me, mi sporco il vestito di sangue e mi tocca sentirti piangere, ma è lavoro, non posso affezionarmi ai miei clienti, quindi di meno parliamo meglio è. Lo dico anche per te, conserva le forze per guidare. Però mi hanno detto di farti scegliere quale dito vuoi che ti venga tagliato e non mi sembra poco”.
“Hai capito che devi scegliere un dito?”
“Se mi tagli il dito dopo devo pagare comunque oppure siamo pari?”
Quello si avvicina e mi da uno schiaffo. In realtà appoggia la sua mano carnosa e mi stringe la faccia, ma l’effetto è quello di uno schiaffo. Sento le guance comprimersi e un po’ di sangue in bocca.
“ Che ce ne facciamo del tuo dito. È un avvertimento, devi pagare, oggi ti tagliamo il dito, dopo ti ammazziamo è una specie di anticipo sulla tua morte”.

E proprio quando Lo Squalo ha progettato la sua uscita di scena, ecco che fiuta il primo vero affare della sua vita. L’affare si chiama Mattia. Un giovane cantante vincitore di un talent show televisivo e, ancora per due mesi,sotto contratto con la sua agenzia. Scozzacane, si getta a capofitto nell’avventura di portare il cantante della sua scalcinata casa discografica al festival di Sanremo, così con gli introiti potrà saldare i debiti, rifarsi una vita e magari uscire dal giogo della sua stupida esistenza. C’è anche un momento dove tutto sembra che si stia mettendo per il meglio, c’è pure una splendida ragazza innamorata di lui, ma poi ogni cosa ricomincia a girare male. A vuoto e stavolta Lo Squalo deve per forza uscire di scena se vuole vivere. Allora decide di andar via, ma alla grande, quindi progetta un finale inaspettato, struggente e senza dubbio geniale. Una soluzione ingegnosa che a ben vedere è l’unica possibile per uno squalo palombo.

Gianni Solla con scrittura leggera e incalzante, ma al contempo ironica, patetica, vivace e realistica, affresca il dramma del fallimento dell’essere umano e della sua incapacità di sottrarsi al proprio disastroso destino già segnato dalla nascita, donandoci un personaggio nuovo e indimenticabile nel moderno panorama letterario italiano: Sergio Scozzacane, Lo Squalo

La narrazione in prima persona procede sciolta e intrigante fin dalle prime pagine, captando l’attenzione del lettore su Lo Squalo, protagonista indiscusso di questo romanzo e dello spirito partenopeo dell’arrangiarsi indolente attraverso le continue vicissitudini con il suo carico d’amarezza per una vita spesa dietro al sogno di emergere dallo squallore dei rioni di una Napoli insensibile, che brama denaro e successo. Vittima e carnefice al tempo stesso delle esistenze che la compongono.

Nel romanzo ci sono anche altre figure minori tutte ben caratterizzate e perfette nel contesto dell’opera. Ognuna vuole qualcosa che cerca e non trova o che non cerca più. A Marcello Santamaria, boss della camorra, vero squalo di tutta la storia, manca il successo; a Teresa, sensibile, devota e sottovalutata collaboratrice dello Squalo manca l’amore; a Luisa, con la sua vita buttata in un triste hotel della vicina Sanremo manca qualsiasi possibilità di riscatto, e poi soprattutto c’è Sofia, bellissima, intelligente, sofisticata, forte, sensibile e innamorata di un fallito come Sergio Scozzacane. Una donna, alla quale manca molto in termini di salute (è cieca), e che al fianco dello Squalo, non fa altro che amplificare la natura drammatica del fallimento generale, togliendogli pure l’intimità della solitudine.

In conclusione fra sesso veloce consumato con indifferenza in luridi postacci, cantanti neomelodici napoletani allucinati dalla ricerca del successo, malavitosi e falliti vari, Lo Squalo è una figura vincente perché vive la sua esistenza in un mondo sbagliato e la saprà riscattare alla fine di un percorso d’autodistruzione personale.

“Cerchiamo di capirci, se hai una pinna di squalo sulla faccia allora diventi carnivoro”.

Il libro di Giovanni Solla è un gran bel libro che si fa amare per l’unicità del suo protagonista, Sergio Scozzacane detto Lo Squalo.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

venerdì 19 ottobre 2012

Intervista a Matteo Bortolotti

Chiacchierata fra
Matteo Bortolotti e Ivo Tiberio Ginevra.
pubblicata su www.thrillercafe.it



[D]: Ho già detto di prepararti un disgustoso lattementa. Tranquillo non è il tuo barman che ad ogni persona grida: “C’è qui Matteo Bortolotti lo scrittore”. Il nostro barista è come Rollo di Amsterdam avenue dei romanzi di Westlake, pertanto ti indicherà sempre come “quello del lattementa“. Ma Bortolotti scrittore beve davvero questa cosa stomachevole?

[R]: Grande Cocomero, magari fossi come Dortmunder! Bevo davvero lattementa. A me piace, e poi è pure… verde!

[D]: Oramai sappiamo tutti che l’idea di trasformarti in personaggio nei tuoi romanzi te l’ha data Loriano Macchiavelli, ma perché hai scelto proprio questo look pazzesco buono solo per daltonici?

[R]: Be’, tutti gli altri protagonisti del panorama del giallo mi annoiavano. E i vecchietti del bar sotto casa mia erano già stati presi! Perché questo look? faccio le cose seriamente senza prendermi sul serio. Uno scrittore scrive sempre di se, ma per farlo ha bisogno spesso di passare attraverso dei personaggi, quindi per rendere efficaci dei gialli come ‘Il mistero della loggia perduta’, ho dovuto trasformarmi in un personaggio, trattandomi esattamente come tratto tutti gli altri personaggi: senza favoritismi perché abbiamo lo stesso nome, anzi!

[D]: E scusa, già che ci siamo il Bortolotti scrittore, davvero va in giro con giacca verde e camicia hawaiana? Mi risultano degli avvistamenti in tal senso.

[R]: Una notte di qualche anno fa, un amico nelle forze dell’ordine mi chiamò trafelato, convocandomi all’Istituto di Medicina Legale: voleva un parere su alcune ‘strane’ ferite che avevano trovato su un cadavere. Io non riuscii a dirgli di no. Non mi sembrava vero. Era proprio come nei film. Mi sentivo fichissimo, così non pensai che avrei dovuto passare da casa per cambiarmi… Venivo da una festa anni ottanta! Indossavo una giacca verde, una camicia hawaiana e risultavo particolarmente colorato rispetto a tutta quella morte che avevo intorno. Ricordo ancora il dialogo che scambiai con lui.
“Ma come ti sei conciato, Matt?”
“Allegro.”
“E’ morta una persona!”
“Be’, quando sono entrato in quel frigorifero il morto sembrava quasi che mi sorridesse!”
“Era il rigor mortis.”
“E che ne sai, tu? Magari lo divertiva il mio abbigliamento. E’ allegro!”

[D]: Cosa ha voluto fare il Bortolotti scrittore con quest’ultimo romanzo rendendosi protagonista egli stesso?

[R]: Che ne dici di usare parole meno ‘definitive’ di ‘ultimo romanzo’? Per esempio… ‘nuovo romanzo’!

Ho voluto scrivere il primo di una-spero-lunga-serie di romanzi gialli, di spassose e delittuose commedie dove si ride molto, ma ogni tanto si potrebbe anche piangere, dove si dicono un sacco di bugie, ma anche qualche piccola verità. Dove, dopo tanti anni di sovraesposizione alla violenza, ri-puntiamo il dito sull’anticamera del delitto: il vizio.

[D]: Qual è il rapporto con il tuo alter ego?

[R]: Lo odio. E’ lo stesso rapporto che ogni scrittore ha coi suoi personaggi: gli creo problemi e lui li risolve. Maledetto! E a volte ci riesce proprio come lo farei io. Altre volte è più bravo, forse perché è anche un po’ più antipatico, un po’ più intelligente, un po’ più nei guai di me.

[D]: E io in questo momento con chi sto parlando con lo scrittore o l’inguardabile?

[R]: Tutti noi siamo quello che ci raccontiamo di essere, a volte indeboliamo e rischiamo di diventare come ci raccontano gli altri. Tutti siamo autori del nostro personaggio, solo che spesso ci sfugge di mano. Io ho preso alcuni miei difetti e li ho amplificati disegnando un fumetto di me stesso, un fumetto che in alcuni casi ha molto di realistico. L’ho fatto per sparlare di me, del mio mondo, degli scrittori italiani, della nostra società.
[D]: La vicenda narrata nel tuo romanzo Il mistero della loggia perduta (ed. Felici) sembra piuttosto credibile, ma ha un reale un fondamento storico?

[R]: In questo primo giallo un maggiordomo viene trovato ucciso in modo particolarmente macchinoso e si scopre che la sua morte riguarda anche un tesoro della Massoneria. Per trovare il tesoro, il protagonista dovrà risolvere tre indovinelli lasciati da Giovanni Pascoli. Dunque, di vero c’è che Pascoli era massone come lo era il suo maestro Carducci, che la Massoneria alla fine dell’Ottocento propugnava ideali liberali e sosteneva quantomeno moralmente le rivoluzioni a tutti i regimi e le dittature. Di vero c’è che all’epoca l’allegra combriccola iniziatica era una fucina di libero pensiero e di democrazia. Poi chissà! Come dice anche Eco nel suo ultimo romanzo (ops!) la Massoneria è diventata una specie di spauracchio e di capro espiatorio per tutti. La Chiesa per prima, visto che i massoni, i carbonari, i giacobini, lottavano contro il Papa Re. Persino a sinistra tutti la schifano, quando si sa dai libri di Storia che le radici del socialismo sono piantate tra squadra e compasso. Allora di vero c’è, forse, che quando tutti danno sempre la colpa a qualcosa di esterno, di inafferrabile e ‘segreto’, di ‘deviato’ e ‘satanico’, probabilmente ci stanno prendendo per i fondelli, perché un nemico totale fa sempre comodo. Di vero c’è che non mi piacciono i pregiudizi, e mi sembrava divertente giocarci sopra. Senza risparmiare nessuno.

[D]: Cosa ti è piaciuto di più mentre scrivevi il romanzo?

[R]: Non è stato facile trasformare me stesso e alcuni dei miei amici in ‘personaggi’, mi sono divertito a guardarmi con gli occhi dei lettori, a indagare la mia città, a cercare tra i vizi e le complicità di chi tira i fili di Bologna. E non solo. La cosa più divertente è che ho ritrovato un vecchio amico: il giallo classico, il whodunit. Ho ritrovato nel sarcasmo di questo genere così finto eppure così vero, la forza per raccontare il mio mondo senza annoiare e senza fare l’intellettuale diarroico di verità rivelate. Questo non mi farà vincere dei premi. Lo so.

[D]: Al centro de Il mistero della loggia perduta c’è Bologna. Sappiamo tutti che la tua città la ami da morire, ma oggi nel 2012 cosa c’è che non ti piace più e vorresti cambiare?

[R]: C’è quello che già prima non funzionava, c’è una città che non va’ al passo con se stessa perché ha paura del cambiamento. C’è l’arroganza di chi si è sempre ritenuto vincitore perché stava dalla parte dei vinti, e questo è il più grande peccato di vanità e vigliaccheria che si possa commettere. C’è una città coraggiosa travestita da città ossessionata dai suoi fantasmi. Una città buona, nascosta sotto le macerie delle stazioni e dei partiti. Una città giovane travestita da forestiera dentro le case subaffittate ai fuorisede dell’Università, c’è una città arrabbiata che non ride più, lasciata fuori dai vernissage dei nuovi hipster radical chic. Gente che non ha il senso dell’autoironia, ma che la dovrà ritrovare. Io predico un’insurrezione fatta di sfottò e di lieto-fine, di guitti eroi giusti anche se considerati sbagliati, di giullari che ridono di se e fanno ridere gli altri smascherando la logorrea generale. Perché ridere è l’anticamera della rivoluzione. Oggi più che mai. Alleluia!

[D]: La maggiore soddisfazione che hai provato scrivendo Il mistero della loggia perduta?

[R]: Frasi come: “Ho letto il tuo romanzo e per tre ore ho riso!”, “Ho seguito la tua indagine… Volevo capire chi era l’assassino!”, “Scrivine ancora, la prossima volta che voglio dimenticare una giornata di merda voglio entrare in libreria e chiedere un Bortolotti!”, “Ehi, scrittore! Mi devi dodici euro!”.
Ehm, quest’ultima frase non mi ha dato soddisfazione. Le altre però…

[D]: Ho visto che sei anche molto attivo su internet ed hai un filo diretto con i lettori. Qual è il tuo rapporto con il pubblico? Cavolo! Sbaglio sempre Siete molto attivi…

[R]: ‘Il mistero della loggia perduta’ non è l’unico romanzo che ho scritto che vede la giacca verde protagonista. Mano a mano che lavoravo sul progetto, questa è diventata molto di più che una serie di romanzi. E’ diventato un mondo della storia che volevo condividere coi lettori, col pubblico nel senso più lato del termine. Un narratore non è nessuno se non ha qualcuno che lo ascolta, così ho deciso che per raccontare le avventure gialle di Matteo Bortolotti dovevo partire dalla base, ascoltare chi mi seguiva e cercare un contatto diretto con loro, e con questi mattoni costruire una casa comune. Si chiama ‘Professione Mistero’. Nel sito di professionemistero.it c’è Matteo Bortolotti, in giacca verde, declinato in tutti i modi possibili che le nuove tecnologie ci permettono di utilizzare. Stupide vignette ironiche, recensioni misteriose in cui consegno come voti delle ‘giacche verdi’, video in cui lo scrittore è protagonista di una serie di servizi riguardanti il mondo del mistero (e prende in giro alcuni televisivi), e poi ancora racconti inediti, anticipazioni… Ho persino spedito il prologo del romanzo una settimana prima che uscisse in libreria… in formato audio, però! Anche in questo caso l’ho fatto per giocare coi media, per esplorarli, e questo mi è valso il titolo di primo personaggio cross mediale italiano. Roba da matti. Non so nemmeno pronunciarlo.
Immaginate il dialogo a una festa, una modella mi si avvicina e chiede:
“Tu cosa fai nella vita?”
“Il personaggio cross mediale.”
“Ah, così vai in moto?”

[D]: Parlaci o se preferisci, parlateci pure dei tuoi/vostri progetti futuri.

[R]: La parte che preferisco: progetti futuri. Dunque, se riesco a camparci continuerò a fare lo scrittore e lo sceneggiatore, ma non è facile senza un partito politico alle spalle, senza un parente famoso o senza un patrimonio di famiglia. Per ora, sono quasi sette anni che ci campo senza dovermi vendere come un guru o parlarvi per forza di mafia, camorra e ‘ndrangheta, ma avrò bisogno di voi! Del pubblico! E non sono il solo, come me ce ne sono molti altri.
E’ già pronta una seconda indagine cartacea di Matteo Bortolotti, la storia di una ragazza trovata morta in un fosso, senza nome, ma con strani segni sulla pelle. E poi ci sono una serie di brevi e divertenti indagini che usciranno esclusivamente su ebook. Racconti lunghi il cui primo s’intitola ‘Cinquanta sfumature di verde’ ed è ambientato sulla riviera romagnola…

[D]: Qual è la regola che ti dai quando scrivi?

[R]: Alla base di ogni buona storia c’è il conflitto.

[D]: A cosa non puoi rinunciare quando scrivi?

[R]: Alla comprensione di chi mi sta vicino, al supporto di chi mi vuole bene. Non è facile far capire agli altri che in certi giorni stai scrivendo anche quando bevi una birra.

[D]: Convinci i nostri lettori a leggere Il mistero della loggia perduta.

[R]: Se sono arrivati a questo punto dell’intervista sono già convinti.

[D]: Una domanda cazzona: In cosa si rincarnerebbe Bortolotti scrittore? E il Bortolotti per daltonici?

[R]: Una risposta cazzona: entrambi ci rincarneremmo volentieri nella cyclette di Heidi Klum.

[D]: Un’altra domanda cazzona: Il Bortolotti, quello del romanzo, è un tipo sfortunato con le donne. E l’altro Bortolotti come va con le gentil sesso?

[R]: Tutti siamo stati sfortunati in amore. Tutti siamo stati ingannati, perché il più delle volte siamo noi stessi che ci inganniamo da soli. Ho vissuto molte avventure e qualche buon amore. Da quando indosso questa giacca verde, però, sono davvero fortunato!

[D]: Una domanda seria: che ho già fatta ad altri tuoi colleghi, ma è un argomento a cui tengo molto perché ho notato quanto la classe culturale italiana è insensibile al dramma del popolo Siriano, pertanto ti chiedo: Cosa diresti agli Stati Uniti ed ai principali governi europei tanto prodighi in Libia nella difesa dei diritti umani, quanto e nella stessa misura indifferenti in Siria? Dai Rimproverali! Sciogli le loro anime. Trova quelle belle parole che un grande scrittore come te può dire i questi frangenti, per smuovere le coscienze sociali.

[R]: Le parole migliori che in questo momento mi vengono in mente sono quelle di Stefano Tassinari, recentemente scomparso, cuore pulsante dell’Associazione Scrittori di Bologna quando io ne ero segretario. Sono le parole della sua bellissima e cruda poesia ‘Ti ricordi, America’.

“Peccato, America,

perché non hai capito neanche adesso

e allora fottiti, America,

per le tue guerre umanitarie,

le tue vendette corporali

il tuo Dow Jones che gioca all’altalena

il Ku Klus Klan, gli hamburger,

le pistole in ogni casa

le rappresaglie, i marines, le bombe sui civili

e l’inno cantato con la mano sul cuore

quando nemmeno sai, il cuore,

da che parte sta.

Fottiti, America.”

[D]: Ciao Matteo e grazie per l’intervista.

[R]: Ciao a tutti!

intervista di Ivo Tiberio Ginevra



lunedì 1 ottobre 2012

La donna che parlava con i morti


Autore : Remo Bassini
Editore : Newton Compton
Anno : 2007
Pag. : 238


Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Con questa recensione voglio dar seguito al mio disappunto nei confronti delle case editrici, già espresso in occasione di Rosso Italiano di Massimo Rainer (ed. Barbera 2007) a proposito di libri messi anzitempo fuori catalogo, nella speranza di sensibilizzare i lettori e magari qualche editore a voler leggere, cercare, o ripubblicare delle ottime opere di romanzieri più o meno conosciuti, che altrimenti sarebbero dimenticate.

Il libro di oggi è La donna che parlava con i morti di Remo Bassini, pubblicato nel 2007 da Newton Compton Editore e già fuori catalogo.

Gravissimo errore per due motivi fondamentali.

Primo perché Remo Bassini è uno dei pochi narratori italiani contemporanei che con profonda e lucida semplicità riesce a descrivere le contraddizioni delle provincie del nord Italia nella solco della tradizione tipica di grandi scrittori come Cesare Pavese, Dino Buzzati ed altri noti (e questo posso dirlo poiché non sono di parte e non ho alcun interesse personale).

Secondo perché l’opera è di alto valore letterario e a distanza di cinque anni è ancora attuale, godibile e credo unica nel suo genere “giallo”.

La trama

È il primo giorno di settembre, fa caldo. Nell’aria, Anna Antichi sente l’angoscia del suo fallimento esistenziale: un incubo di giornate sempre uguali da consumare in un paese troppo piccolo per i suoi sogni. Con l’anima spezzata da un grave lutto familiare, Anna è una ragazza invecchiata troppo presto e il corso degli eventi aggiungerà dolore al suo dolore. Fabrizio, lo strano poliziotto di cui si è innamorata, è scomparso improvvisamente: i suoi colleghi brancolano nel buio e Anna si rifiuta di credere a una realtà troppo dura da accettare. Dal passato di Fabrizio affiorano, infatti, le tracce che portano fino alle profezie di una misteriosa Marta. Fili sottili che Anna è costretta a seguire nel tentativo di liberare se stessa e l’uomo che ama da un destino di disperazione.

Anna Antichi è un personaggio semplice e complesso al tempo stesso. È anarchica figlia d’anarchico. Testarda come un mulo. Sfrontata, irritante, impulsiva, paranoica, complicata, inquieta, vive solo “il tutto o il niente” ed è piena di difetti, ma ha pure delle qualità contrapposte. È forte dentro. È molto sensibile. Coraggiosa, pratica, intelligente, onesta e soprattutto è innamorata e soffre. Soffre molto per amore, e non solo per quello di Fabrizio, ma anche per quello rimpianto del padre e per quello inespresso della madre.

Anna Antichi è un personaggio vero, o meglio, Remo Bassini riesce a creare un personaggio vero, vivo, ricco di una sensibilità femminile così intensa, da far credere che sia stata addirittura descritta da una donna, per come è intimamente spiegata. Da uomo non è facile scavare nell’animo di una donna. Non lo è affatto nelle sue passioni, nel suo amore e soprattutto nel suo dolore, nel suo tormento senza pietà. Scusate ma tutto questo, non è poco.

Anche gli altri personaggi del romanzo sono perfetti e indimenticabili. Ognuno di questi, a partire dall’amato Fabrizio è completo, ben caratterizzato e con un ruolo preciso e funzionale nell’insieme della storia. Ognuno introduce sempre un tema o rappresenta qualcosa. Un qualcosa d’importante come l’onestà intellettuale (il padre anarchico di Anna), l’amicizia (Fabrizio), l’invidia, la caparbietà, l’onore, la giustizia, il passato con la sua storia, la guerra, l’omicidio di una giovane innocente, l’omicidio di un giovane idealista. Il mistero. Fili tutti legati dall’amore, dalla sofferenza e dal tormento dell’anima.

Il vero protagonista del romanzo è il dolore, assoluto, incondizionato. In una sola parola Potente. Protagonista da subito di una escalation senza uguali, fino a diventare lirismo. Un dolore vero che scaturisce dalla passione, inserito in un sordo contesto quotidiano, mai espresso in modo sensazionale e confinato a restare intimo. Un dolore che muta e fa crescere.

Lo sfondo della narrazione è come sempre quello della provincia Italiana del nord Italia, con le sue atmosfere e contraddizioni, messe impietosamente a nudo, insieme ai difetti, alle ipocrisie e alle sue devastanti indifferenze. Raccontare di questo, e così bene, senza essere un “grillo parlante” retorico e moralista, oggi lo sanno fare davvero in pochi, e credo, veramente molto pochi se si tratta di un giallo intriso di mistero.

A proposito del genere letterario scelto da Remo Bassini c’è da dire che si tratta di un “giallo” piuttosto atipico, dove l’azione scenica è sostituita dall’evoluzione psicologica dei suoi personaggi, e della protagonista in particolare, fino a superare l’essenza stessa del genere narrativo per uno di gran lungo respiro che tocca le corde dell’opera letteraria.

La genialata del romanzo La donna che parlava con i morti, (titolo inquietante e retrò), è l’enigma che ruota intorno a questa donna che fino all’ultimo non sarà svelato.

In conclusione la narrazione di Remo Bassini ha sempre un’anima forte e bella che penetra nella psiche del lettore come un soffio vitale fino a trasformarsi in essenza del quotidiano e sublimazione del leggere.

Ivo Tiberio Ginevra