domenica 28 novembre 2010

LA FESTA DEI MORTI

di Ivo Ginevra

Noi in Sicilia abbiamo “i morti”.
Mi spiego meglio. È una vecchissima tradizione dove la notte dell’uno novembre i morti, cioè le anime dei parenti defunti, fanno trovare al risveglio dei bambini, dolci (la frutta di martorana – marzapane), la pupaccena (una statuetta di zucchero solidificato con l’interno cavo a forma di pupo siciliano) dei biscotti secchi (detti ossa di morto) ed un regalo di poco conto (a me regalarono un fucile con i tappi). Poi si va al cimitero e quel cordone ombelicare che lega la famiglia, sebbene reciso dalla morte fisica, vive e si tramanda nelle generazioni.

Quella dei morti è una festa pagana tipica della nostra tradizione. L’origine che si perde nella notte dei tempi è sicuramente tribale e anticamente consisteva nell’offerta simbolica di alimenti di forma umana da parte dei defunti con l’intento di tramandare nei vivi la loro forza e il loro ricordo (riti ancora in vigore in qualche tribù dell’Indonesia e dell’Africa).

La tradizione si è anche rafforzata nel tempo con l’usanza del pranzo offerto dai vicini di casa del defunto ai familiari che avevano subito la perdita del parente, dato che non avevano potuto provvedere ai loro bisogni alimentari.

Questa tradizione grazie ad Halloween rischia ora di scomparire, infatti, i mercati rionali che in questo periodo erano invasi di luci, colori sgargianti, sapori, odori e luccichii di giocattoli stanno per essere soppiantati da una marea di colori neri, lugubri e porcherie di plastica fatti da teschi, pipistrelli e costumi da streghe d’indubbio gusto.

Grazie anche al bombardamento mediatico i nostri bambini al posto della frutta di martorana, adesso vogliono un zucca di plastica. Vogliono un tetro abito nero ed un trucco sanguinolento come se fossimo a carnevale, e in definitiva non vanno più al cimitero a rendere un omaggio ai morti facendo scomparire una buona tradizione.

Anche la scuola e soprattutto quella materna ed elementare, grazie ad un personale poco attento contribuisce molto a soppiantare questa educativa tradizione tipicamente nostra.

La festa dell’attesa del regalo col giorno del ricordo si sta velocemente trasformando in una pacchianata americaneggiante, non sentita, inutile, diseducativa, stupida e soprattutto estranea alla nostra cultura, oramai tesa alla globalizzazione, all’appiattimento del tutto, ed a scimmiottare malamente lo sterile modello americano.

Mi fanno pena i nostri figli che crescendo non avranno come me il ricordo del sorriso mio nonno che nella mattina della festa, regalandomi la frutta di martorana, il pupo di zucchero, ed il fucile di latta mi diceva: “questi te li ha portati la nonna che non c’è più e ti pensa sempre”. Poi andavamo a portarle un fiore al cimitero.

Tenetevi pure Halloween.

Ivo Tiberio Ginevra

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA

CARLO EMILIO GADDA


Garzanti Editori.


Recensione di Ivo Ginevra




È impossibile fare una recensione a questo Romanzo con la “R” maiuscola e, di fatto, non la farò perché non so fare quei discorsi da professoroni sull’importanza di questo lavoro nell’ambito della letteratura italiana del novecento. Se me n’arrogassi il compito dovrei scrivere dell’arte del Belli nella parlata in romanesco, e dovrei fare riferimenti anche a Manzoni e “La ricerca dello stile necessario”. Dovrei trattare necessariamente dell’importanza che il dialetto, e la lingua parlata aveva, ha ed avrà nella storia dell’opera narrativa, e spingermi fino al nostro secolo con riflessioni su Camilleri, Niffoi, ecc., ma ripeto non sono quel professore che potrebbe dire, quanto altri emeriti critici hanno già detto.

Dico solo che mi è piaciuto e anche molto.


Dico che da siciliano ho letto, sì con un po’ di difficoltà quest’opera intrisa di spirito romano, ma che alla fine ho capito tante cose sulla romanità che forse non avrei afferrato leggendo altri romanzi su Roma.

Dico che questo classico non deve cadere nel dimenicatoio e che dovrebbe essere insegnato nelle scuole e soprattutto in quelle del Lazio obbligatoriamente.

Dico che il grande regista cinematografico Pietro Germi ha fatto uno splendido film, con il grande Saro Urzì, e che anche questo non dove essere dimenticato.

Dico che me pure venuta la voglia di parlarci in romanesco e quasi quasi in faglja me ce diverto pure a parlaglje, se così se’ scrive.

Solo per farvi capire quanto è bello il romanzo, quanto grande è la genialità del suo autore, e soprattutto, per farvi leggere sto capolavoro di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, vi trascrivo alcune frasi del romanzo che sono più eloquenti di migliaia di discorsi cattedratici, cominciando dalla descrizione del suo protagonista e credetemi, c’era da trascriverlo tutto.

Ingravallo

Tutti oramai lo chiamavano Don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente negli affari tenebrosi………Vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi inpercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana.

…..In simili materie Don Ciccio era piuttosto versato : intuizione viva, e fino dagli anni della pubertà: aperta, poi, a tutti gli incontri demici della stirpe “fertile in opre e acerrima in armi”.

Un dubbio naturalmente. Un dubbio perfido però…che gli faceva dolorar le tempie, un dubbio dei più Ingravalleschi, dei più Doncicciani.
 
“Mah” pensò Don Ciccio per confortarsi “qualunque figlio ‘e bona femmina è illibato, fino al suo primo amore … con la questura.

 
Il collega di Ingravallo
 
Per quello che era donne, poi, e sfruttatori de donne, amore, amanti, matrimoni veri, matrimoni finti, corni e controcorni, nun c’era che lui, se po’ dì. …be’ lui in quela fanga, ce schizzava dentr’è fora come un autista de piazza. Lui sapeva a memoria tutte le coppie, co tutte le parentele e tutte le ramificazioni che je sbottaveno fora a primavera, o in testa o giù de testa:… co tutti l’incastri possibili: nascita, vita, morte e miracoli. Sapeva li buchi ch’affittaveno, e quanno se moveveno da qua pe annà là, le cammere matrimoniali, li cammerini, le cammere a ore, li sommiè e insino l’ottomane, co tutte le purce che ce stanno de casa, una per una.

 
Il maresciallo Santarella

Con la pelle generosa degli italici, nelle lor messi cotti a luglio, a sole trebbiato: una salute da sensale di campagna.


La notizia criminis
 
Quando i due agenti gli dissero: “Se so’ sparati a via Merulana: ar duecentodicinnove: ner palazzo de li pescicani…”, un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra.

 
Descrizione dei luoghi

Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso di uggia, e di canarinizzata costrizione. Davanti al casermone color pidocchio una folla.

 
La folla e le metafore di Ingravallo

Nell’andito e in portineria un’altra piccola folla, inquilini dello stabile: il cicaleccio delle donne. Ingravallo salì al terzo piano della scala A. Giù seguitò la gran ciarla: le voci spiegate o addirittura canore delle femmine, emulate da qualche trombone maschio, a quando a quando ne venivano addirittura sopraffatte: come le cervici chine delle vacche dalle gran corna del toro.
 
….Era una confusione di voci e di aspetti: serve, padrone, broccoli….Vocine agri o infantili aggiungevano dinieghi o conferme. Torno torno un barboncino bianco scodinzolava eccitato e de tanto in tanto abbaiava puro lui: il più autorevolmente possibile.
 
Le donne volevano sapè. Tre o quattro, deggià, se sentì che parlaveno de nummeri: ereno d’accordo p’er dicissette, ma discuteveno sur tredici.

 
La vittima

La signora Liliana di quando in quando, si sarebbe creduto sospirasse. Ingravallo notò che due o tre volte, a mezza voce, aveva detto mah! Chi dice ma, cuore contento non ha.

 
L’azione criminale

Lui rivoltosi, le aveva puntato una pistola sulla faccia: “Azzittete befana, sinnò te brucio”.

 
Gli avvocati
 
Oh! Gli avvocati! Com’erano simpatici! E che buoni clienti! Bisognò un attimo, ma mai ad esser lei la cliente loro, cogitò.


Descrizione di un’inquilina

La Menegazzi nun s’era potuta pettinà: pareva una perucca de peli de granturco co li nastri, quello che ci aveva in testa. Diceva che il palazzo aveva la maledizione dentro i muri.


La stampa (piuttosto attuale già da allora e invasiva…solo quando vuole)

Era venerdì. Li cronisti e il telefono avevano rotto l’anima tutta la sera: tanto a via Merulana che giù, a Sante Stefene.

 
Le indagini

Le indagini si sarebbero dovute estendere a mezza penisola, con un lento monsone di fonogrammi.

“bè: allora dite: subito, bisogna rispondere, cara la mia madama: no pensarci un secolo. A pensarci tanto l’è di sicuro una bugia.

Il volto gli si illuminò dell’aurora del ci siamo


Descrizione del fabbro (superba)

Da ultimo fu chiamato un fabbro. Un vereo Don Giovanni delle serrature: ciaveva un mazzo de rampini co un beccuccio in fonno, e je bastava de faje appena er solletico o coll’uno o coll’antro, che quelle già se sentiveno de nun potè più resiste. Pareveno come una donna virtuosa che perde i sensi.


Una bella ragazza con la dote

Era una splendida figliola, ed era un cofano di gioie… Era una figliola, con una scatoluccia: di cui loro, i Valdarena, avevano affidato al marito la chiavicina: e il diritto di servirsene, tric tric: il santo usufrutto.

 
Una confessione

…lei arrossì, abbassò gli occhi sul ventre, come l’Annunziata quanno che l’angelo se mette a spiegaje tutta la faccenda: poi prese coraggio a risponne…
 

Lo spirito romano di Ingravallo
 
Era una giornata meravigliosa: di quelle così splendidamente romane che perfino uno statale di ottavo grado, ma vicino a zompà ner settimo, be’, pero quello se sente aricicciasse ar core un nun socchè, un quarche cosa che rissomija a la felicità.

“Amico, che amico! amico ‘e chi?” Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-investigativa tanto in uso agli Apuli.

Ereno passati li tempi belli …che pe un pizzico ar mandolino d’una serva a piazza Vittorio, c’era un brodo longo de mezza paggina.

 
Ingravallo e il vino
 
A Marino, artro che quel’ambrosia ce sta! A la grotta de sor Pippo ce steva un bianco malvagio: un vigliacchetto de quattr’anni in certe bottije che cinque anni prima averebbe elettrizzato il ministero….


Il risveglio di Ingravallo

A occhi ancora chiusi o quasi, infilò le ciabattazze: che parevano attenderlo come due bestiole accucciate sul parquet: attendere i piedi ognuno il proprio…Un Apollo non più ventenne, un tantino pelosetto. Si grattò il testone, si appressò alla vaschetta, e dato libero corso alle linfe s’insaponò il naso e la faccia, il collo e le orecchie. Sgrullò il parruccone sotto il rubinetto alto del lavabo, con quei soffi e quelle strombate de naso, come di foca venuta a galla dopo le sue giravolte sott’acqua…

 
Ingravallo e l’invidia

Non s’azzardi d’accusà Giuliano, verga splendida della ceppaia, solo perché ne deve subire il confronto.

“ah” fece Don Ciccio, “congratulazioni sentitissime”. Una smorfia atroce, una faccia di catrame…


Le battute di spirito di Ingravallo

“Ci vuol poco” grugnì don Ciccio fra sé e sé: “dove l’hanno comprata la nafta, da ‘o broccolaro?”.

 
Ingravallo e la donna

La personalità femminile – brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando a se stesso – che vvulive di? …’a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii.


Riflessioni di Ingravallo sul ruolo del marito nel matrimonio senza figli

...mancandole i figli il marito cinquantottenne decade senza alcun demerito a buon amico, ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei soprammobili, a mera immagine ovvero, cioè, a manichino di marito: e l’uomo in genere è degradato a pupazzo. Un arnese che non serve.

 
Antifascismo
 
Chi è certo d’avere ragione a forza, nemmeno dubita di poter avere torto in diritto. Chi si riconosce genio e faro delle genti, non sospetta d’essere moccolo male moribondo o quadrupede ciuco.

…che da quanno nun c’era ancora sto Pupazzo a Palazzo Chiggi, a strilà dar barcone come uno stracciarolo.

Ladro de pentole e di casseruole a tutte genti: co la scusa de facce la guerra all’Inghilterra.

…il testa di morto in pennacchi eruttò che la polizia….

…o da chilo ferente d’ ‘o palazzo Chigge.

Ivo Tiberio Ginevra



EVERYMAN

PHILIP ROTH

EINAUDI EDITORE

Recensione di Ivo Ginevra

Premetto subito che Everyman è un buon libro, che mi è piaciuto e che l’ho subito riletto;

che Roth è indubbiamente uno dei più grandi scrittori contemporanei;

che il dono di scrivere di Roth è fuori dal comune;

che Roth è insuperabile nel dosare il racconto e bilanciare tutti i rapporti fra il protagonista e gli altri personaggi;

che tutte le sue riflessioni sulla morte, la vecchiaia, la malattia resteranno indelebili nella mia memoria perché uscite fuori dall’intimo riflessivo di ogni uomo e narrate con una incisiva e disarmante semplicità;

che la narrazione è piuttosto originale e procede fluida nel difficile campo dei salti temporali;

che ho apprezzato molto l’autoironia, il nichilismo e la tragicomicità di Roth in questo racconto privo di qualsiasi metafora;

che la chiusa del racconto con il dialogo fra il becchino ed il protagonista è una pietra miliare della letteratura contemporanea, in grado di richiamare alla memoria l’autorevole figura di un grande metafisico come “Amleto”.

Tutto quanto premesso e considerato

mi autorizzo a criticare un papabile premio Nobel partendo dal titolo, perché non è azzeccato e non gli si addice per niente.

Io lo avrei chiamato “Morte, vecchia, malattia, pentimento di un pubblicitario di successo”, senz’altro il risultato sarebbe stato migliore. L’opera letteraria, infatti, parla proprio di un pubblicitario di successo in pensione, intento a fare i conti con la vita che gli è scivolata innanzi con tutti i suoi amori, e indugia sempre sulla continua demolizione del corpo da parte della vecchiaia e della malattia che lo porteranno inevitabilmente alla morte.

Il romanzo è un continuo fare i conti con la morte. Inizia con il funerale del protagonista, continua con la scoperta della morte degli estranei e delle persone care, finisce con la propria morte, dopo avere visto lo scadimento del corpo attaccato dai morsi di una vecchiaia tiranna che tutto sbriciola, che tutto demolisce.

Il nostro protagonista giunto alle soglie della senilità traccia il bilancio della sua vita, con la costante presenza delle malattie, ma non è un conto obiettivo che lo rende credibile, perché privo d’autocritica.

Mai il protagonista di questo romanzo ha pensato di essere stato un uomo “fortunato”, di avere vissuto fino a 75 anni con una gran reputazione, con successo, con soldi, con donne stupende, viaggiando da Parigi ai Caraibi e circondato da tante belle cose che un Everyman qualunque non può permettersi di sognare.

Sì, ha anche sofferto, ma le pessime relazioni matrimoniali sono il frutto del suo esacerbato egoismo.

Ha sofferto per la morte dei genitori e delle persone care, ma chi non soffre o soffrirebbe per questo.

Ha sofferto perché malato, infatti, ha subito diverse operazioni al cuore con la paura che la malattia vinca sulla vita, ma permettetemi di dire che non c’è niente d’incredibile in tutto questo. Milioni di persone nel mondo tirano avanti in questa maniera, basti pensare che pure il sottoscritto è un cardiopatico ed ha subito 3 interventi al cuore (a proposito, la descrizione delle angioplastiche rende bene l’idea dell’estraneità del corpo nel processo operativo di una sala chirurgica ed è ottimamente descritta, ma non vi è alcun accenno in tutta l’opera, alla schiavitù della pillola, vero incubo di chi deve fare i conti con la malattia che giornalmente ti ricorda di esserci). Proprio per tutto questo il protagonista mi sembra privo d’attendibilità ed il libro a tratti riesce a scadere nella mera contabilità degli acciacchi, come in una qualsiasi operazione di ragioneria, dove il risultato finale è purtroppo sempre lo stesso.

Anche un altro titolo si sarebbe addetto a questo lungo racconto, come ad esempio: “La solitudine di un uomo di successo”.

Questo perché il nostro acritico personaggio è solo nelle malattie, solo nella vecchiaia, solo nella morte stessa, ma non è quello che può definirsi un povero Cristo, un disgraziato segnato dalla vita, dal destino. È uno che ha dato, che ha preso anche molto, e che solo prima di morire, ha capito di avere bisogno degli altri.

È un uomo che alla fine della vita paga il suo sviscerato egoismo, frutto della civiltà del benessere e capisce gli sbagli.

Manca una critica seppure velata da parte dello scrittore, al personaggio che dalla vita ha saputo prendere solo l’effimero, fatto di fama, soldi, donne a scapito dei valori fondamentali dell’esistenza umana.

Per finire permettetemi una terza e ultima disapprovazine sul titolo.

Se Everyman prende il nome da un classico dell’antica drammaturgia inglese che metaforicamente ha in sostanza l’appello di tutti gli uomini innanzi alla morte, la sua traduzione letterale in “ogni uomo” ha la pretesa universale di accumulare, svilire, forfettizare e soprattutto spersonalizzare ogni essere umano solo perché nasce, vive e muore.

“Ogni uomo” non è uguale all’altro, perché vive in maniera diversa, perché affronta la vita, l’amore, la vecchiaia e la morte in maniera diversa dall’altro. L’assunto di Roth con la sua pretesa d’essere tutti uguali solo perché viviamo, amiamo e moriamo è troppo collettivo, comune, assolutista e cinico e non sposa il titolo del racconto, finendo per depistare il lettore che ovviamente non s’identifica.

Se è vero che tutti gli esseri umani hanno in comune una vita ed una morte, è anche vero che il percorso è sempre diverso per tutti, anche se porta allo stesso posto.

Proprio per questo ogni uomo non ha niente di comune con gli altri. Perché ogni uomo è diverso. Perché ogni uomo è arbitro del proprio destino.

Ivo Tiberio Ginevra

IN DUE SI UCCIDE MEGLIO

GIUSEPPE PASTORE 
STEFANO VALBONESI

“Quando i serial killer agiscono in coppia”

EDIZIONI XII
 
Recensione di Ivo Ginevra

"Capire perché una persona possa dedicare la propria esistenza all’omicidio e scandirla al ritmo delle violenze più efferate non è facile……. Tenendo presente ciò, capiamo allora come ancor più difficile sia capacitarsi del fatto che, a volte due perfetti sconosciuti possano unire le loro forze per perpetrare dei crimini orrendi e incamminarsi assieme lungo un percorso disseminato di morte. Partendo da tali considerazioni, questo libro non cercherà dunque di spiegare perché esistano assassini seriali di coppia. Questo libro vi mostrerà piuttosto cosa la malvagità combinata di due persone abbia potuto generare e come essa si sia manifestata”.

Ho volutamente trascritto parte dell’introduzione del libro perché l’essenza di questo lavoro sta tutta qui, proprio nell’introduzione, pertanto, leggendo questo volume non troverete le dissertazioni medico scientifiche, filosofiche, sociali ecc. ecc. di autori che hanno la pretesa di scrivere una pagina miliare nello studio della fenomenologia delinquenziale, ma troverete solo una lucida ed equilibrata narrazione di storie criminali, dove lo stile asciutto e incalzante guarda al fenomeno in se stesso applicando le varie teorie psicologiche elaborate dai migliori studiosi, direttamente ai singoli casi concreti.

È proprio la cura usata dagli scrittori nella descrizione dei singoli casi, utilizzando anche le confessioni dei serial killer, a far comprendere con disarmante semplicità le varie teorie degli studiosi del settore, come ad esempio quella dell’interazione “incube succube”, della coppia Lake e Ng, o quella della “mutua concordanza”, applicata alla “coppia venuta dall’inferno” Lucas e Toole, oppure quella dell’”uomo nel giusto” di Gallego e Williams, ma in questo libro nulla è più disarmante e realistico dei dialoghi criminali per far capire l’orrenda portata del fenomeno: “uccidere qualcuno è come fare una passeggiata, se volevo una vittima non dovevo far altro che procurarmela” (Henry Lee Lucas) o peggio : “….Ng le taglia i vestiti. – “Perché mi fate questo” chiede. “Perché non ci piaci. Dobbiamo metterlo per inscritto?” “Ridatemi mio figlio e farò tutto ciò che volete”. “Farai tutto ciò che vogliamo in ogni caso”….la ragazza non sa che sono già tutti morti (Lake e Ng)”.

La scelta degli autori di concentrarsi solo sul fenomeno degli omicidi seriali di coppia è senz’altro una scelta vincente, perché va a colmare una lacuna nel panorama della letteratura specialistica, inoltre, la fenomenologia è molto ben studiata, infatti, dapprima tratta nei particolari le caratterizzazioni dei singoli “predatori”, e poi analizza le dinamiche comportamentali della coppia.

La perfezione dello studio è data anche dall’analisi d’alcuni dati statistici recenti e soprattutto dalle tipologie che formano la coppia: uomo/uomo, uomo/donna, donna/uomo, donna/donna, dove il primo indicato del duo è il dominante della coppia.

L’esame degli scrittori oltre a scavare nel binomio di formazione dell’accoppiata seriale (amici, amanti, parenti), ne specifica statisticamente l’appartenenza allo status sociale (benestante, gay, lesbo) ed anche l’aspetto statistico geografico, che purtroppo attribuisce all’Italia un tragico primato.

Il libro è arricchito pure da un’ottima bibliografia, dagli interventi dell’esimio criminologo Ruben De Luca e soprattutto dalla rigorosa descrizione dei crimini tratti dalle cronache giudiziarie.

Va rilevata anche l’ottima vena narrativa di Giuseppe Pastore e Stefano Valbonesi. Gli Scrittori, infatti, riescono con semplicità, chiarezza e precisione a trattare un argomento inquietante e assolutamente difficile, come quello degli omicidi seriali, con un apprezzabile tocco letterario, fra il noir incalzante ed il sociologico puro.

In conclusione posso dire che quest’indagine di Giuseppe Pastore e Stefano Valbonesi sulla psiche umana deviata è raccolta in un libro che si legge tutto di un fiato e che sarà sicuramente d’aiuto a tutti gli operatori e non del settore.

Ed anche se scontato, lasciatemelo dire: “In due si scrive meglio”.

Ivo Tiberio Ginevra