venerdì 21 dicembre 2012

Intervista a Gianni Solla

Intervista a Gianni Solla di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

E allora intervistare Gianni Solla non è una cosa semplice. Lui dice di se stesso: Mi chiamo Gianni Solla. 36 anni. Zoppico per finta quando attraverso la strada bloccando il traffico. Lo faccio solo per provocare il senso di colpa cosmico nelle persone. Raccolgo i punti del latte e i punti della benzina. Spero di vincere il borsone entro Ottobre. Ho studiato la chitarra elettrica per dieci anni ma ho sempre avuto problemi con il mi bemolle. Per suonare una canzone devo accertarmi che dentro non ci sia il mi bemolle. Anche il fa minore mi ha sempre dato problemi. Abito a Napoli in un quartiere più pericoloso della striscia di Gaza. Da piccolo le maestre dicevano che ero un bambino precoce mentre mio padre diceva che ero mezzo scemo. La partita è ancora aperta.
Allora ci provo, ma non garantisco:
[D]: Cos’è il senso di colpa cosmico nelle persone che blocchi nel traffico con la tua simulata zoppia?

[R]: Nascere è una colpa, l’atto stesso della nascita implica il dolore che provochiamo nel corpo delle nostre madri. I preti ci ungono per lavarci dal peccato originale. Poi dopo si aggiungono tutti gli altri che compiamo.

[D]: Sì va be’! Ma generalmente cosa ti gridano gli automobilisti quando attraversi la strada?

[R]: Togliti di mezzo faccia di cazzo.

[D]: Perché continui a suonare ancora la chitarra se non prendi il mi bemolle e il fa minore ?

[R]: È una guerra con i mie vicini di casa. Serve a tenere alta la tensione. Non voglio che si sentano al sicuro.

[D]: Due titoli di canzoni senza il mi bemolle e il fa minore che li mettiamo come sottofondo musicale all’intervista.

[R]: Forse hanno queste note però sono belle e darebbero un tono all’intervista: Mogwai – I’m Jim Morrison I’m Dead e The Raconteurs – Carolina Drama

[D]: Uno scrittore professionista è un dilettante che non ha mai mollato (Richard Bach) e tu chi sei?

[R]: Sono il dilettate. Mi interessa scrivere, è la mia maniera di comprendere la realtà. Non riesco a farne a meno.

[D]: E chi è Sergio Scozzacane, alias “LO SQUALO”?

[R]: Scozzacane è quello che mi toglie la scena alle presentazioni. Mi chiedono di lui. Mi tocca spiegare che non poteva venire e che posso parlare io per lui.

[D]: Domanda scontata: Come nasce il personaggio dello Squalo?

[R]: Non lo so. Ignoro il momento preciso nel quale abbia cominciato a parlarmi. I personaggi dei libri sono atomi della personalità di chi la racconta, poi diventano sempre più indipendenti e alla fine mi lasciano sempre e vivono da qualche altre parte.

[D]: Domanda ancora più scontata: Perché una pinna al posto del naso? Questa da dove caspita ti è venuta.

[R]: Il corpo è importante. Penso che siamo il nostro corpo. La pinna di Sergio Scozzacane è la più grande infamia che la natura potesse compiere.

[D]: Ultima domanda scontata: Che genere letterario è il tuo ultimo romanzo Il fiuto dello squalo?

[R]: Anche qui non so risponderti. Il problema del genere appartiene ai venditori, ai siti internet che devono metterti in un database. Ho sentito varie definizioni, quella che più mi piace è Black Comedy ma non ho mai letto un romanzo Black comedy quindi non so se sia quella giusta però suona bene.

[D]: Finite le domande scontate ti chiedo se anche tu come Sergio Scozzacane dormi in una lurida pensione tipo Nuova Libia.

[R]: No! Dormo in appartamento che affaccia un po’ sul mare e un po’ nel parcheggio di un supermercato a Napoli Est.

[D]: Bene, ora dimmi cosa c’è di autobiografico ne Il fiuto dello squalo?

[R]: Eccola. E come si fa a rispondere? Scozzacane è invenzione, io sono quello che paga il mutuo ed è inseguito da Equitalia. Sono messo peggio di lui.

[D]: Ok, abbiamo capito che la musica per te ha un’importanza notevole. L’hai anche trasmessa al tuo Squalo, infatti, lui è un impresario di musica napoletana. Ma è un impresario “a pagamento” un po’ come l’editore “a pagamento”. Analogia piuttosto calzante per un fallito musicista o scrittore che sia. Che ne pensi di chi paga per farsi leggere o sentire?

[R]: La possibilità di poter distribuire il proprio contenuto gratuitamente attraverso i canali di internet dovrebbe annullare di fatto queste realtà truffaldine, anche se invece le persone continuano a comprare questi servizi. Non critico nessuno, non mi permetto, dico solo che io non lo farei.

[D]: Gianni, sono personalmente convinto che tu sei un talento straordinario, di grande sensibilità e lungimirante pensiero, ma i capelli… perché non li tagli? (questa domanda non te la aspettavi, vero?)

[R]: Ci sta pensano la natura a porre fine allo scempio estetico. Sono immorali, lo so, ma mi piacciono.

[D]: Nel tuo sito www.hotelmessico.net (che invito a frequentare) ci sono anche le poesie sceme. Cosa sono? Come nascono?

[R]: La composizione di una poesia scema deve durare meno di sessanta secondi altrimenti non è più scema ma ragionata e io non voglio questo. Sono poesie tutte uguali che parlano sempre di femmine e di fallimenti. Non conosco altro di cui scrivere.

[D]: La mia preferita è quella dell’abbandono. È bellissima e la trascrivo, però spiegaci di più.

Sono sempre stato bravo a trovare i soprannomi alle persone.
A quella grandissima puttana, che adesso m’ha lasciato,
per esempio,
io avevo trovato proprio quello preciso.
Ora guardo le televendite e gioco a Football Manager,
sto portando la Stabiese in Champion,
e sbaglio apposta i numeri di telefono.
Ho conosciuto una di Grosseto,
siamo diventati amici,
dice che c’è una cometa che il 22 maggio duemilaventuno colpirà la terra,
e tutto sarà finito.
Da tre settimane dormo in macchina,
sotto il portone della troia,
ogni tanto viene la polizia e mi portano in questura.
Mi hanno preso i pollici.
Agli sbirri ho raccontato tutta la storia,
uno di loro m’ha detto,
anche se questa cosa non deve saperla nessuno,
che lui l’avrebbe ammazzata al posto mio, la bagascia.
Dice che può procurarmi una pistola.
Poi mi dicono di andare a casa
e io vado di nuovo a dormire in macchina,
a contare i giorni fino al duemilaventuno.

[R]: Anche a me piace. Avevo anche dimenticato di averla scritta.

[D]: Progetti futuri?

[R]: portare a lavare la macchina e cambiare la cinghia della distribuzione, nel breve il progetto è questo. Sì certo, scrivere.

[D]: Da piccolo le maestre dicevano che ero un bambino precoce mentre mio padre diceva che ero mezzo scemo. La partita è ancora aperta. Chi vince?

[R]: Mio padre non ha mai sbagliato.

intervista di Ivo Tiberio Ginevra


giovedì 13 dicembre 2012

Nella carne






Autore: Sara Bilotti
Editore: Termidoro Edizioni
Anno: 2012
Pagine: 116

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
publicata su www.thrillercafe.it

Sara Bilotti esordisce con un libro di racconti. 12 per l’esattezza. “Quelli giusti”, penso quando ho in mano il volume.

Indubbiamente la forma del racconto fra le varie espressioni artistiche è una delle più difficili. Non sono guardingo, ma questo genere è un problema anche per chi mastica scrittura da sempre. E credo che lo sia ancora di più per chi decide di esordire in questo modo nel panorama letterario.

Il racconto è un mondo a parte. Non è come un romanzo. Nel racconto non hai tempo. Non c’è tempo. C’è sintesi. Troppa sintesi. Non c’è racconto senza sintesi. Non c’è genialità senza la sintesi. La sintesi è l’essenza stessa del racconto. E oltre la sintesi, il ritmo. Un ritmo nei suoi tempi rapidi e scanditi dalla storia. Un ritmo imposto alle parole. Un ritmo tale da risucchiare subito il lettore in poche righe. Nel gorgo del racconto. E dei pensieri. Sintesi e ritmo elementi essenziali del racconto.

Nel racconto breve non c’è il tempo per l’evoluzione dei personaggi. Non c’è tempo per le loro vite o le loro vicende. Non c’è tempo di niente. Dall’altro lato c’è solo una persona che legge. Che deve essere investita. Carcerata fin dall’inizio da frasi imprigionanti con dettagli efficaci. Frasi fortemente ossessive per raggiungere l’effetto di continuare a leggere. Senza smettere. E fino in fondo come una tela che s’imbeve arida d’acqua essenziale. E non solo. Il racconto deve entrarti nella carne. Si deve ricordare. Si deve ricordare per lungo tempo. Se non si ricorda è un fallimento. Per far questo i fatti devono susseguirsi come a rincorrersi. Tutto deve essere chiaro. Ricco di tensione. Un mix di paure, ossessioni e umanità. Umanità solidificata nell’ambiente dove si svolge l’azione. Umanità che non può prescindere da questo. Dal suo ambiente dove trova il disagio. Dove il lettore si deve muovere come in una palude. Alle dipendenze esclusive del suo creatore. Del demiurgo che opera con poche ritmiche pennellate cariche di dettagli che fanno la differenza.

Questo è quello cerco in un racconto. E questo è quello che ho trovato nella raccolta di racconti di Sara Bilotti. In poche parole ho avuto in mano l’opera di un vero scrittore. E non capita facilmente un demiurgo che sperimenta tecniche nuove.

La raccolta è composta da dodici racconti disincantati dove Nulla è ciò che sembra. Dove realtà e finzione demarcati da una sottile linea rossa di dolore si rincorrono fra ordine e follia in una costante recita. Dove ognuno dietro la maschera che indossa per il comune vivere sociale, nasconde più volte passioni morbose o aberrazioni inconfessabili. Una recita ben riuscita, fatta da attori normali figli del quotidiano malessere. Personaggi che non danno tregua. Portatori di paure reali. Orrori e paure. Mostri. Mostri personali. Sepolti e rinati. E risepolti da Sara. Che è un cane lupo, che fiuta, morde rincorre e morde ancora fino a trasformare le sue paure, in paure collettive, e poi in arte. Ho sbagliato: in Arte con la A maiuscola. Senza fronzoli. Essenziale. Un’Arte d’essenziali pensieri che vanno oltre. Che trapassano la carne e vanno oltre. Oltre. OLTRE. Con eleganza. Con stile. Senza mai una semplice forzatura.

Una passione desolata quella che esce fuori dai racconti di Sara Bilotti. Pulsazioni d’amore insano. Indifferente. Violento, voluto, o plasmato. Una passione che riga le pagine con naturale lirismo, del quale, si accusa subito dipendenza finita la lettura. Dipendenza dallo stile del tutto creativo e personale della scrittrice che non si mostra, ma che mostra sempre restando un passo indietro a quelle amare storie di banale quotidiana follia dei drammi arrabbiati. Delle invidie subite. Abusate in un grido di dolore che entra Nella carne. Inevitabile. Spiazzante. Senza cinismo alcuno e ricco. Ricco di vera umanità. Di commozione sensibile per i drammi degli indifesi. Di chi è piccolo. E solo. O malato.

Si mastica amaro nei racconti di Sara Bilotti. C’è troppo disagio di vivere. C’è troppo amore malato. O incapacità d’amare. C’è lo spazio ingombrante dell’amore che si trasforma in impulso distruttivo a qualsiasi costo. In una sequenza che non da tregua, dove tutto non sembra reale perché È. È reale. Senza possibilità di riscatto all’interno di follie familiari isolate e sole. Di famiglie isolate e sole. E di veri drammi all’interno di queste solitudini. Istinti assurdi. Sentimenti orribili. Un susseguirsi di colpi di scena. Brava Sara. Tutto quadra. Niente è messo a caso. Ogni parola è pesata. Ogni frase è studiata. Vissuta. Sentita. Brava Sara è stato un piacere vero e struggente leggere il tuo libro. Ora aspetto. Aspetto.

Qui finisce la recensione.

Quello che segue è un piccolo commento a tutti e dodici i racconti di Sara Bilotti, ma prima devo scrivere dell’ossessione di Sara.

Questa ossessione è il TRE che come un chiodo fisso è riportato più o meno consapevolmente in ogni racconto. Trinità, dunque, espressa da un numero perfetto: Il tre. E sempre Tre sono gli sviluppi d’ogni racconto, le soluzioni, i protagonisti, le azioni, i numeri e le ore. Tutto. Ogni cosa ruota intorno al tre. L’opera è scandita da questa trinità opprimente a partire dallo stesso numero di racconti 12 per l’esattezza. 12 multiplo di 3. Oppure 12 =1+2=3 e se guardate meglio c’è anche una terza soluzione.

Farfalla non è un racconto è una perfetta bomba ad orologeria, a partire dal suo innesco. E’ una bomba deflagrante e distrugge tutto. Oltre all’equilibrio della narrazione, allo scavo interiore nella psiche, e alla raffinata ricerca stilistica, c’è un gran bella quadratura del cerchio con la descrizione degli odiati contadini e della famiglia del marito, dove il male istillato dal bruco entra nella carne ed esce farfalla, in un gioco delle parti dove lei diventa lui, e come lui, detestabile contadina.
Nulla è messo a caso in questo racconto!

Caos c’è cinismo e lucida follia. C’è sarcasmo ed esasperazione. C’è il dono della parola e una mano che la plasma, dove nulla è mai messo a caso. C’è un qualcosa nell’ultima pagina che mi ricorda i finali dei racconti di Pirandello. Ecco cosa c’è: C’è il genio.

Passo numero quattro scritto a lettere e non a numero. Volutamente per aumentare l’attesa, tra realismo poetico e lirismo angosciante.
L’azione, il pensiero, il tutto è un incedere monco di passi fino al tre. Incedere monco come quello di Antonio e tutta la solitudine dei tre personaggi è racchiusa in soli tre passi. Tre passi di travaglio interiore, follia e isolamento che finalmente portano al quarto liberatorio: quello decisivo del coraggio che scardina la paura con la forza dell’amore. Poi torna la solitudine dei numeri che lascia il posto alle parole non dette. Al silenzio della brezza marina. Al silenzio dell’inizio: lo zero.
I dialoghi corti ed incisivi mi hanno ricordato il miglior cinema e le atmosfere di T. Kitano.
E come sempre tutto quadra.

Clara e Adele anche questo racconto è regolato dai numeri. Precisamente dal 3 e dai suoi multipli. E’ il più lungo e racchiude 9 anni in 10 pagine.
Non ha i comuni salti temporali dettati dal tempo e dalla gente, ma ha lo scorrere del tempo legato alla vita della famiglia a multipli di tre, dove tutto cresce in modo esponenziale, o muta nelle logiche delle vite, tentando d’inglobare un vissuto incolmabile.
Nove anni d’amore. D’amore normale e malato, dove lo spazio ingombrante del sentimento è racchiuso nella gioia d’essere accettati o voluti, oppure nella paura del contrario, fino al paradosso di non credere di essere accettati. Amore che sembra. Amore che è. Amore che è incapacità d’amare pur amando. “Lei mi viene incontro come un treno, io apro le braccia e la accolgo. Il dolore arriva molto più tardi di quanto avessi immaginato. Sorrido. Perchè Adele mi ama“. Bello questo amore malato che “si avvicina e si allontana, come se io fossi una lampadina incandescente e lei una falena impazzita“.
… e poi il solito lirismo di cui accuserò la dipendenza. Io lo so bene.

L’uomo nero è sempre il tre il numero che ricorre nelle storie di Sara. Non sono un matematico, anzi odio la matematica, ma il tre c’è sempre.
La visione di questo triangolo perfetto Figlio, Padre, Madre, è infatti triplice come logica pura e al contempo triplice, come le sue interpretazioni.
L’uomo nero è un teorema.
Il figlio è abusato dal padre. Il padre a suo tempo ha ricevuto le stesse morbose attenzioni. La moglie/madre si vendica del marito/padre strumentalizzando il figlio contro il genitore innocente.
Tre visioni diverse di uno stesso problema. Tre vissuti diversi che s’intersecano, strumentalizzano e si sommano, dove l’unico risultato possibile dell’equazione matematica è solo il male. Il male! Tre volte il male.

Pozzo verde l’ho dovuto leggere tre volte per dire che è il solito eccellente Bilotti.
Si entra subito. Idee chiare per tutti. Lettore e protagonisti subito inquadrati, ma….nella vita di Barbara c’è un buco e un sacco di polverina bianca. C’è anche una grossa crepa in famiglia, con gli altri, con se stessa. Polverine e crepe come metafora anticipatoria del crollo di Barbara, incapace di reagire, ma lucida. Impossibilitata a reagire, ma sempre più lucida nonostante i suoi complessi d’inferiorità e sudditanza. Vittima dell’indifferenza. Uccisa tre volte dall’indifferenza. Autoconsegnatasi al carnefice nella sua metamorfosi.
La brava Sara lascia aperto tutto alle solite molteplici interpretazioni, dove ogni soluzione quadra il cerchio o chiude un triangolo; che apre una caterva di temi per confrontare e discutere sui malesseri della società, della famiglia e dei minori.
In Pozzo verde c’è la solita ossessione del 3. Faccio presente che la violenza di Vincenzo è durata 3 giorni. Che da bambina Barbara è portata da 3 specialisti. Che sono le 2 e quaranta del pomeriggio, tra venti minuti c’è la prima messa. Ovviamente14,40+00,20= 15,00 che nel gergo comune sono le 3 del pomeriggio. E sì credo proprio che il 3 sia una grande ossessione, come la metamorfosi (già presente in bruco e farfalla che un po’ ovunque).

Legami di sangue dal titolo ambivalente come parentela e come laccio. Laccio che stritola il legame di sangue. Laccio ancora più stretto dello stesso legame.
Anche in questo racconto torna il tema dell’indifferenza come arma per ferire, ma stavolta si evolve pure per offendere, sempre nella sua glaciale impotenza.
Nella progressione dei racconti doveva per forza seguire il Pozzo nero, pertanto credo che ogni storia del libro ha un ordine cronologico ben preciso. C’è un unico motivo d’evoluzione/involuzione e come al solito nulla in questi racconti è messo a caso. Sia dentro che fuori.
E torna l’amore, come in ogni storia. Con i suoi gesti folli. Impossibile, o rassegnato. Violato o condiviso, ma sempre folle. Un amore malato che consuma la carne sempre con l’indifferenza. Indifferenza della famiglia, soprattutto.Anche nel dovere della riconoscenza.
Ovviamente è nello stile di Sara che i racconti sono sempre aperti a chiusure libere e alle sensazioni personali incondivisibili.
Ricorre la solita ossessione del 3 – tre protagonisti, ma ultimamente noto che uno di questi muore sempre nel corpo o nello spirito e in pozzo nero, anche nell’anima.
Sensazioni forti. I racconti si devono rileggere per avere la stupida impressione di averli afferrati, ma prenderli è come prendere qualcosa d’inafferrabile. La fine è splendida, “…stasera sarà più difficile del solito, far prendere le medicine al mio bambino”. C’è arte nel finale.

Senza voce quando è uscito nel Blog thrillerpages.blogspot.com ho riportato un trauma. Da allora lo sento ancora vivo nella pelle e dentro di me. Mi ha scosso troppo. Mi ha abbattuto, fatto sentire impotente, muto, scioccato e depresso. Mi ha semplicemente distrutto.
Ha reso fin troppo bene il concetto d’abuso sommato a quello dell’infanzia indifesa e violata. Ha accusato la società con le sue strutture inutili se non altro ricettacolo d’immondizia umana, e potrei scrivere per ore. Quest’impotenza mi ha fatto soffrire. Ho ancora pena enorme dentro al cuore.

Nella carne è il dono della parola e una mano che la plasma. È il dramma dell’indifferenza e della rassegnazione. Due temi cari a Sara Bilotti e figli della stessa madre: “l’Amore”. L’Amore incapace di donare. L’Amore malato e irriconoscente. Anche qui abbiamo marcata l’espressione della trinità ossessiva della Bilotti a forma di tre.

Loro è bello. È uno spillo nero che acceca il cervello. “… di fronte, c’è la porta della vecchia, che vive attaccata allo spioncino come se fosse la flebo che la tiene in vita“. È il cervello il protagonista. Il cervello malato, come il cuore, come l’amore, come tutti i racconti della Bilotti. Pensieri fatti di lama che si conficcano nella carne. Che uccidono lentamente e inevitabilmente. Che non lasciano scampo.
Niente da perdere rancore. Rimpianto. Vendetta insulsa. È l’apoteosi della trinità Bilottiana. Tre. Ovunque. Ossessivo, ma sempre nascosto. Ripeto, sempre nascosto. Tre, vigliacco e maledetto. Narcisista e pieno di rancore. Tre folle e vendicativo. Tre smemorato e soddisfatto. Un finale degno di nota. Spiazzante e geniale.

Athina è libera lo dice il titolo. È scritto insieme a Massimo Rainer, amico e Faro di Sara. Questo racconto dal solito finale più che imprevisto, è però diverso dagli altri. Qui si vede bene la mano di Rainer con i suoi inconfondibili e amabili eccessi. Personalmente il racconto anche se molto valido e bello non l’avrei inserito in questa raccolta, perché troppo diverso da quelli che lo precedono, ma credo proprio che questo era un atto dovuto per celebrare il sodalizio fra i due scrittori.

In conclusione nei racconti di Sara Bilotti una sola cosa è certa. Sara ha sepolto Sara e io l’ho tirata fuori, ma non scriverò mai della sua ossessiva metamorfosi, anche perché credo d’averla sezionata abbastanza e soprattutto di avere ampiamente abusato della pazienza dei pochi lettori che stremati sono arrivati alla fine di questa recensione interminabile.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra