lunedì 24 giugno 2013

Il killer delle maratone


Autore: Paolo Foschi
Editore: Edizioni e/o
Anno: 2013
Pag. 171

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillecafe.it

Meno male che Paolo Foschi è uno scrittore dalla penna prolifica, perché mi stavano iniziando le crisi d’astinenza dal Commissario di PS Igor Attila responsabile della Sezione Crimini Sportivi della Questura di Roma. Meno male che è uscito un nuovo episodio perché mi sono veramente affezionato a questo maledetto commissario e alla sua strampalata squadra di collaboratori, tutti ex sportivi come lui. Tutte promesse mancate a partire proprio da Igor Attila, che alle olimpiadi di Seul si fece soffiare sotto il naso, la medaglia d’oro e il titolo di campione di boxe da un pugile coreano dal nome impronunciabile. Adesso Attila è un Commissario di Polizia, ma il suo carattere individualista, forgiato dai pugni degli avversari non l’ha abbandonato anche quando conduce un’indagine come quella del killer delle maratone che si presenta fin da subito piuttosto insolita e maledettamente complicata. C’è, infatti, un serial killer che uccide un corridore dilettante ad ogni maratona e non usa un’arma comune tipo pistola o pugnale, ma una balestra. Una balestra di precisione, potentissima. Il forte e polemico carattere di Attila durante il corso dell’indagine lo porterà a litigare con mezzo mondo, fino ad essere isolato insieme alla sua squadra, ma Igor Attila è ancora pugile dentro. Lui non è tipo da arrendersi così facilmente e da lupo solitario lavorerà al caso fino a….. Altro ovviante non si può dire perché si tratta di un giallo. Atipico perché ambientato nel mondo dello sport, come i due precedenti Delitto alle Olimpiadi e Il castigo di Attila, ma bello, originale, semplice, dal ritmo incalzante e dalle trovate geniali.

Nei romanzi del commissario Attila, tutto ruota intorno a lui. Tutti sono di contorno e lui fa il bello e cattivo tempo fino ai limiti dell’odio, però ha fascino, tanto fascino e caratterialmente è un personaggio completo e perfetto. Sì, va beh, è un edonista, egocentrico, nevrastenico, indisciplinato e autolesionista, ma è anche un geniale, cocciuto, e tenero poliziotto. Rifugge la tecnologia, ama le chitarre elettriche, corre con la moto e si tormenta il fisico con esercizi fino allo stremo delle forze bevendo di tutto e di più nei suoi forti momenti di depressione. Ha pure dei gusti e delle relazioni particolari, ma questa è un’altra cosa che non disturba affatto il lettore perché Igor Attila ha il maledetto fascino di chi o si ama o si odia.

Paolo Foschi ci dona anche un finale serrato e con maestria di giallista, alterna con sapienza le tormentate vicende della vita personale di Attila alle coinvolgenti fasi delle indagini sul killer, creando un personaggio dal profilo completo in poco più di 150 pagine.

In conclusione, una lettura, veloce, gradevole e soprattutto disintossicante. Da usare quando si passa da un mattone all’altro, però Vi avverto subito che crea dipendenza.



mercoledì 12 giugno 2013

Bentornati in casa Esposito


 

Autore: Pino Imperatore
Editore: Giunti Editore
Anno: 2013
Pag. 288

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
Non ho mai usato un superlativo, ma oggi lo sparo ed è tutto rivolto a Pino Imperatore per questo suo BELLISSIMO “Bentornati in casa Esposito“.

Innanzitutto sono stato colpito dalla dedica dell’autore “Alle vittime innocenti della criminalità” e subito dopo dalla citazione di Amato Lamberti “Solo i giovani possono dare una nuova voce alla voglia di legalità delle nostre terre“. Non la citazione del grande letterato di turno, ma quella di un semplice uomo di cultura che con la sua testimonianza di vita fatta di onestà e coraggio, intelligenza e generosità, ha forgiato intere coscienze contro il potere criminale.

Ebbene dopo premesse del genere è lecito aspettarsi un romanzo saggio-inchiesta contro la delinquenza organizzata ricco di documenti, pensieri e soprattutto paroloni, invece trovi un’opera tragicomica finalizzata all’abbattimento del tabù camorra: “perché la camorra non vale niente“, perché ” la camorra è stupida“.

Messaggio forte e chiaro. Lanciato soprattutto alle nuove generazioni. Lanciato in modo diretto e metaforico nell’unico linguaggio universale possibile: quello della satira. Quello del sorriso. Perché ridicolizzare il mostro facendo ridere delle sue debolezze, ha un effetto pari a quello di un esorcismo ben riuscito. Perché ridere in faccia allo strapotere criminale, è manifestazione di gran maturità. Perché ridere, è presa di coscienza della propria forza. Perché ridere, è testimonianza e insegnamento a non aver paura, ad essere onesti, laboriosi e al contempo intelligenti. Ridere perchè la camorra è stupida e della stupidità si deve anche ridere.
“Per la logica classica il “principio di non contraddizione” è una delle leggi fondamentali del pensiero. Aristotele nella “Metafisica” ne diede una formulazione precisa: “È impossibile che lo stesso attributo nello stesso tempo appartenga e non appartenga allo stesso soggetto e nella stessa relazione. Nessuno può ritenere che la medesima cosa sia e non sia”. Le dichiarazioni contraddittorie, dunque, si escludono a vicenda: <> e <> sono incompatibili. Nessun asserto può essere sia vero che falso. Questo pilastro della filosofia occidentale, su cui tanti straordinari pensatori hanno basato le loro riflessioni, viene demolito ogni giorno dalla camorra. La camorra non ha logica. Non conosce Aristotele e se ne frega della filosofia. Non sa nemmeno che proprio gli antenati del genio di Stagira fondarono prima Parthenope e poi Nepaolis, la Città Nuova. La camorra non ha coerenza. È sanguinaria, disumana, schizofrenica. Se con le minacce e le pressioni psicologiche non riesce a ottenere ciò che vuole, uccide. E anche quando ha ottenuto ciò che vuole, continua a uccidere, per il solo gusto dissennato di moltiplicare i dolori e le sofferenze. La camorra non ha un “logos”. È completamente priva di ragione. Spesso ammazza per un nonnulla, per motivi banali. È contraddittoria. Ammazza persino se stessa. Non dà futuro nemmeno ai suoi figli, costringendoli a vivere le paure che essa stessa ha creato. La camorra è stupida.”

Per inculcare questo concetto, Pino Imperatore dà vita alla famiglia Esposito, e soprattutto al suo capofamiglia Tonino. Camorrista di 4 soldi, incapace e sfigato. Succube della moglie Patty e delle femmine della famiglia, ma col pedigree di tutto rispetto. È, infatti, il figlio di Don Gennaro Esposito, il Boss del rione Sanità a Napoli, ovviamente ammazzato dalla camorra, anzi dal suo stesso braccio destro. Dal suo guaglione più forte e ambizioso. Tonino e famiglia sono napoletani veraci. Vivono nel cuore del capoluogo campano e si esprimono sempre in un dialetto del quale Pino Imperatore riesce a cogliere anche sottigliezze incisive e indimenticabili, regalandoci slang e gag esilaranti. E proprio questo contrasto così marcato fra la risata senza freno, come ad esempio nell’episodio di Ipnotica, ‘a navigatrice erotica e la voglia di riscatto dei giovani napoletani impegnati a spezzare le catene del giogo criminale, condito dalla musicalità del dialetto campano, è una delle chiavi vincenti del romanzo.

Questa contrapposizione continua tra serio e faceto, fra stravaganza e concretezza, inettitudine e capacità, squilibrio e saggezza, caos e precisione, è giustamente spinta in ogni pagina fino all’eccesso proprio per rimarcare il conflitto senza fine fra giusto e sbagliato nell’eterna lotta fra il bene e il male. E la genialità di Pino Imperatore sta nell’inculcare il concetto che la camorra è stupida smontando alcuni stereotipi e rendendola ridicola dal suo interno stesso usando come tramite Tonino Esposito e i boss con cui interagisce. Intendiamoci bene, la criminalità organizzata, sia essa di matrice campana o altra, è una cosa seria, terribilmente seria, lo dice anche lo stesso autore, ma è indubbio che pure un sorriso, un pernacchio, uno sberleffo letterario se ben fatto, serve a ridicolizzare il mostro e soprattutto a formare le nuove coscienze che un domani lo combatteranno. Serve a non aver paura. Ecco allora che il cerchio si chiude e prende logica l’iniziale citazione di Amato Lamberti: "Solo i giovani possono dare una nuova voce alla voglia di legalità delle nostre terre“. E i giovani, che sono la nostra logica speranza, questo lo devono capire anche ridendo".

La caratterizzazione dei personaggi è ottima, impeccabile e curata in ogni sfumatura psicologica e questo vale per tutti, anche per le figure minori. Sono creature letterarie di grande rispetto che godono di vita propria. Proprio come se fossero vive e sono sicuro che tormentano il nostro Pino Imperatore così come i Sei personaggi in cerca d’autore fecero con Pirandello. Personalmente ritrovandoli ad un anno di distanza dal loro esordio me li sono risentiti vivi. Come se fossero della famiglia, cosa che mi capita solo da quando leggo Camilleri e limitatamente a Vigàta, con Montalbano e C.. E se tiro fuori Camilleri, per me ho detto tutto. Non ho altro da aggiungere.

Sul piano narrativo Bentornati in casa Esposito mantiene la stessa struttura del precedente Benvenuti in casa Esposito. Stessa narrazione ad episodi, stessi personaggi, stessa napoletanità che senza dubbio è una delle carte vincenti di quest’opera. Qui dentro, Napoli è così forte, prorompente e viva che alla fine ve la sentite cucita addosso perché l’avete respirata, ascoltata. Coccolata. Vi sentirete napoletani anche voi e godrete appieno della tipica meditazione partenopea: “Diceva Pirandello che uno quando è contento di se stesso ama l’umanità. Questo è il problema: noi non siamo mai contenti, vogliamo sempre qualcosa in più di quello che già teniamo, e di conseguenza ci andiamo a scontrare con gli altri. Tutti eternamente insoddisfatti.”

Qui dentro c’è tutto. Ci sarebbe da discutere per ore e per me sarebbero solo complimenti, quindi mi fermo.

Bentornati in casa Esposito è un libro bellissimo.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra


martedì 11 giugno 2013

Cattiverìa


Rosario Palazzolo
Perdisa Pop Editore
Anno 2013
Pag. 320

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Tre anni ho aspettato il nuovo romanzo di Rosario Palazzolo. Tre lunghi anni. Finalmente l’ho letto e poi riletto. La rilettura è d’obbligo se davvero si vuole cogliere, assaporare, capire e stupirsi della follia narrativa di Cattiverìa. Una follia perfetta, ottimamente dosata, universale, analitica, concupiscente, divina, e al contempo grezza, patetica. Scontata.

Tutto parte dal disagio dei protagonisti, oramai privi di nomi. Privi d’identità se non di ruolo o genere: la madre, il figlio, inconsci della loro depersonalizzazione e così riplasmati dall’occulto demiurgo contemporaneo; dal più anonimo dei nomi, il più spersonalizzato in assoluto, dalle antiche radici: il signor “Media”. Oramai uno e trino. Indefinito, astratto, condizionante. Assoluto. E tutto in Cattiverìa passa dal suo volano che filtra i desideri, che li permea o manovra con fili invisibili in geometriche costruzioni obbligate ad una realtà illusoria; tragedia inconscia e immane dell’apparire. Vita falsa. Manipolata dall’oggetto del desiderio pubblicitario, sciacquata dal candore di una telenovela patinata di centinaia di anni, fatta aderire nell’inconscio insieme ai cartoni animati con cui si è svezzati, al sottofondo musicale esistenziale a base di sapori rassicuranti, e ai programmi nazionalpopolari di prima serata. Ecco, allora, il trionfo del demiurgo! Portobello, l’uomo tigre, i due protagonisti della telenovelaMedia. Vincitori sui gusti e sulle coscienze. Sulle personalità. Sull’uomo stesso. Vincitori sulla madre e sul figlio di Cattiverià. Vincitori biechi che non lasciano nulla. Mancanti di verità e menzogna. Mancanti di conforto. E in Cattiverìa non c’è conforto. Non c’è neanche l’ombra di un conforto perché assente del tutto fino a spingersi oltre. E Rosario Palazzolo, oggi, va oltre la misera speranza di una fede illogica miscelando in un impasto perfetto, padre e Dio, e dio padre di dio e di santi supereroi e di santi cartoni animati. Di San Francesco Superman o di Padre Pio Tigre (la spada di Zorro nelle mani di Padre Pio è l’emblema della sua Media sacralità).
Sentieri, Gino Paoli e pure Padre Pio. Eccoli tutti creati e asserviti. Ecco il trionfo, ossessivo, anancastico, presente in ogni dove e in ogni quando. Ecco il trionfo dei

Cattìveria è il delirio del sogno senza speranza alla ricerca dell’opportunità di successo. Un desiderio smodato di successo senza speranza. Una misera umanità incanalata in una vita che non da scampo. Svuotata di tutto e Cattiverìa stessa è un’opera svuotata di tutto. Dall’intreccio, praticamente nullo, dallo scorrere del tempo che non c’è, dall’interazione fra i personaggi del tutto inesistente come le loro psicologie, dai luoghi rigorosamente chiusi e indefiniti. Da azioni assenti ad eccezione di una, la potente, la principe, che ritorna, viva e cancellata al contempo, ma senza spazio in un istante che fu. Che è. Che è certezza e che non è. Al suo posto: Solitudine. E Silenzio. Silenzio in mezzo a una bufera di parole, tese a crepare il muro della tragica deflagrazione che dilagherà per tornare nuovamente al silenzio dell’incapacità di comunicare.

Non ci sono oggetti in Cattiverià. Non ci sono persone. Non ci sono dialoghi. C’è un’esplosione detonante la cui miccia lunga e lenta di polvere nera, divora il trauma inconfessabile e simbolico di una verità dissepolta e poi nuovamente sepolta per la quiete del rimorso di una madre e per la libera quiete di un figlio, per poi rientrare e tutto ricomporsi nel definito; perfetto nel suo contorno della difficoltà di essere. Di esistere. Di apparire. Cattiverìa è tragedia dell’apparire.

Un discorso a parte merita la scrittura di Rosario Palazzolo che io amo molto e da sempre. Non è scrittura per ragionieri questa, ma per gran contabili, perché alla fine, nonostante la gran carestia dei punti, l’incredibile tempesta di virgole, le pagine intere prive di qualsiasi punteggiatura, le sgrammaticature sempre volute, le nutrite espressioni dialettali, le storpiature delle parole, ecco che alla fine i conti, tutti i conti, tornano sempre. Anche quelli più che complessi, tornano sempre.

A chi è aperto o predisposto a ricevere qualcosa di nuovo, Palazzolo dona incredibili pagine scritte senza punteggiatura, ma dense del ritmo veloce del grande narratore che toglie il respiro, oppure regala tempeste di virgole che si trasformano in una musicalità di linguaggio originale e unico, ma Palazzolo, e tengo a dirlo, non inventa alcuna lingua. Questo è il suo personalissimo modo di scrivere, ed è solo il frutto di una profonda e meticolosa ricerca stilistica che come base ha l’amore per la parola. Una parola succhiata, mangiata, fagocitata e poi sputata, riplasmata e donata a nuova vita, dentro un concetto di libertà espressiva a confronto con la realtà quotidiana. Una parola sommata ad altre parole, mai messe a caso, sempre pesate che si trasformano in un motore che una volta azionato va fino in fondo adattandosi allo spessore culturale e ambientale dei personaggi, mischiandosi con loro, fino a creare eterogenei individui di uno spaccato che rappresenta una Sicilia popolare. Una parola parlata, quella di Palazzolo. Intelligente e colta. Diretta e inimitabile. Una parlata che incanta, seduce, che sprizza vita e vivacità, che anima, incalza, scandisce, completa e scanna ogni personaggio uscito dalla mente geniale di quel pazzo avanguardista di Rosario Palazzolo.

In conclusione Cattiverìa è un libro bellissimo e ancor più bello se riletto.