mercoledì 23 marzo 2011

Non fare la cosa giusta


di Alessandro Berselli

• Formato: Libro
• Pagine: 240
• Lingua: Italiano
• Editore: Perdisa Pop
• Anno di pubblicazione 2010

Claudio Roveri è un informatore medico scientifico. Conduce una vita di apparenze. Apparentemente è un professionista affermato, ha una famiglia felice, nessun motivo, per non sentirsi soddisfatto, in realtà le cose non vanno così bene. Roveri cova il disagio. Odia Bologna, che è diventata una città così diversa da come se la ricordava. Negri, punk e zingari ai semafori, e quella sensazione di degrado che ha ogni volta che cammina per il centro. Roveri odia, ma non fa nulla. Si rifugia nella famiglia, negli amici di sempre, nel lavoro. Fino a quando reagisce, assecondando la sua vera natura. Una sera durante un rapporto sessuale con una giovane dottoressa conosciuta per lavoro, sente suonare il cellulare, ma non risponde. A chiamare è sua figlia, in cerca di aiuto. La vita di Claudio Roveri, da quel momento in poi, cambierà una volta per sempre.


Dirò subito che Non fare la cosa giusta è un ottimo libro.

Che è un vero noir senza via di scampo e che vorrei vederlo vincitore di quei famosi premi letterari dove autorevoli tromboni scrittori dispensano la loro saggezza infinocchiando libri difficili, a volte scritti male e che non lasciano nulla dentro se non quelle solite scontate riflessioni.

Berselli racconta la crisi dell’uomo contemporaneo e lo fa senza particolari paroloni con una storia ben scritta, semplice e nera, con misura, originalità e soprattutto affidandosi a una prosa dal ritmo crescente fino al punto da farsi leggere senza soste.

Fin dall’inizio colpisce subito l’inconsueto e azzeccato utilizzo della seconda persona quale forma narrativa:

Non ho mai tradito tua madre.
Non che non ci abbia mai pensato, non sono mica un santo. È solo che alla fine ho fatto prevalere il senso di responsabilità. L’etica della famiglia, se così la vogliamo chiamare.
Rileggo la frase.
Senso di responsabilità, etica della famiglia. Sono ridicolo, ho appena iniziato a scriverti e già me la sto raccontando.
Ne prendo atto. Ricomincio da capo.
Ho sempre avuto paura. Paura di essere scoperto, di non riuscire a farla franca. Non sono bravo a mentire, Erica, e tua madre è troppo furba per non accorgersene.
È per questo che non l’ho mai tradita.”

Sembra di leggere una lunga lettera che Claudio Roveri, il protagonista del romanzo, indirizza alla figlia Erica, ma non è così. Non è una lettera. È solo un monologo, o meglio, è una grande invenzione narrativa che ha il meritevole compito di mettere ben chiari e fin da subito, gli ingordi sensi di colpa divoratrici della personalità di un padre teso solo alle gioie effimere borghesi del suo tempo, a scapito delle uniche certezze irrimediabilmente perdute della famiglia, dell’amore coniugale e più di tutto, dell’amore fra un genitore e la figlia adolescente.

Nella prima parte del romanzo abbiamo un protagonista che ha speso tutti i suoi primi quarant’anni di vita per correre dietro alle apparenze (vedi la bella casa, la bella moglie avvocato, la bella figlia studente), alle prospettive di una carriera brillante, all’effimero (come il bisogno dell’aperitivo preservale nei locali chic del centro città), e con il dio denaro al di sopra di tutto.

Claudio Roveri fin dall’inizio della storia ha già sviluppato questi temi feticistico borghesi volti alla raccolta “dell’inutile prezioso” a scapito della certezza emotiva. Si è già consumato nell’autocompiacimento narcisistico del proprio IO, in costante ricerca di realizzare altri edonistici bisogni, come tradire la moglie, ovviamente con una bella donna, ovviamente in carriera, ovviamente elegante, ovviamente porca, ovviamente riservata e soprattutto capace di non intaccare i suoi beni sociali conquistati, e mi riferisco ovviamente alla famiglia, ovviamente al prestigio sociale, ovviamente a quei beni di consumo che danno un significato alla vita. La sua vita. Altrettanto ovviamente, Roveri ha cognizione del disagio che caratterizza le sue certezze, ma impegnato com’è a correre dietro al suo IO, non tenta neanche una volta di risolvere il malessere della famiglia, magari cercando un dialogo con la moglie o con la unica figlia oramai diciassettenne. Non prova neppure ad annullare la distanza creatasi fra loro, considerandola incolmabile. Non fa nulla per entrare in quel mondo di cose a lui distanti e incomprensibili, in una sola parola nel semplice mondo degli adolescenti. Eppure Claudio Roveri adora sua figlia e sa bene di avere sbagliato in tutto: “fallire come marito è un peccato veniale, ma non esserci come padre è la voce peggiore che può capitare in un bilancio esistenziale”.

Il protagonista è in tutto e per tutto cosciente del fallimento, ma non reagisce. Continua a rifugiarsi nell’effimero con l’unica conseguenza di assecondare la noia partorendo un insopportabile disagio che lo porta ad essere intollerante verso ogni cosa ad iniziare dalla sua città che oramai detesta, e a tutte le forme di vita diverse da lui (zingari, barboni, giovani colleghi, extracomunitari, ecc...). È un disagio che dapprima cresce lentamente (litiga con il compagno di scuola della figlia, attacca briga con un giovane collega in un ambulatorio, ha un acceso diverbio con Luca lo psicologo) e poi matura uccidendo il cane del vicino, pigliando a schiaffi una zingara, bruciando vivo un barbone, ma proprio quando l’attenzione del lettore è rivolta alla discesa negli abissi di Roveri, oramai intento a non fare la cosa giusta, ecco che Berselli ha quel colpo di genio che rende unico questo romanzo: Termina la prima parte all’apice del suo interesse per iniziarne una seconda diversa. Una seconda del tutto inaspettata e spettrale che getta il lettore in un turbinio di pensieri ed azioni dove non fare la cosa giusta è l’unico imperativo che legittima l’agire del nostro personaggio che oramai ha capito e detesta senza remissione alcuna la sua vita inutilmente condotta.

Le effimere certezze di uno stimato e benestante professionista quarantenne si sono trasformate in palliative menzogne e inadeguate finzioni non più in grado di trattenere i freni inibitori dell’uomo oramai deciso a scendere nell’abisso.

È in questo clima che Roveri compie degli atti inconsulti che paradossalmente gli danno iniezioni di autostima fino alla distruzione generale.

Non voglio commentare oltre, perché toglierei il piacere al lettore di godersi un bel finale del tutto inaspettato e finisco incensando quest’opera narrativa di Alessandro Berselli e complimentandomi con quel grande saggio di Luigi Bernardi abituato da sempre a fare la cosa giusta.

Ottima e comunicativa anche l’immagine di copertina in perfetta sintonia con il romanzo ed il suo recondito significato.

Ivo Tiberio Ginevra
(recensione pubblicata su Thrille Cafè)

Il ragazzo dai capelli rossi - Piergiorgio Di Cara

Autore: Piergiorgio Di Cara


Editore: Perdisa Pop

Anno: 2007

Informazioni: pg. 113



Il ragazzo dai capelli rossi è finalmente maggiorenne, e solo. Suo padre è stato ammazzato, e lui stesso ne ha vendicato la morte, uccidendo a sua volta. La vita scorre noiosa, il ranch, qualche capatina in città, niente di particolarmente eccitante. E oltre? Oltre c'è l'America, il più grande paese della terra. Il ragazzo dai capelli rossi decide di andare a vedere se è davvero così.

…ma chi me lo doveva dire di leggere un western!

Grazie ai remainders ho acquistato su un sito di vendita libri on line “Il ragazzo dai capelli rossi”. Un western pazzesco che mi porta a valutare il suo autore Piergiorgio Di Cara, fra gli scrittori più eclettici del nostro panorama letterario contemporaneo.

Questo romanzo breve è un piacevole cambio di registro del narratore palermitano che abbandona le sue terrene storie poliziesche per donarci uno spaghetti-western concentrato di tutta una cultura italiana del genere, che si snoda fra i fumetti di Tex Willer, il cinema di Trinità e le atmosfere di Sergio Leone come collante.

È un omaggio alle nostre gioventù cresciute per strada a giocare con pistole e fucili, a indiani e cowboys. Il ragazzo dai capelli rossi mi ha riportato in mente quelle sparatorie pazzesche con i miei cugini e gli altri ragazzi del quartiere, combattute nei cortili e fin dentro le aiuole incolte piene d’ortiche. Ricordi sbiaditi in bianco e nero, nel cinema muto dell’infanzia perduta che ancora adesso ha il sapore della felicità innocente. Ricordo che tutti volevamo avere lo sguardo alla Terence Hill, oppure quello a fessura di Bud Spencer, e volevamo essere buoni o cattivi come Lee Van Cleef e avere per amici Kit Carson e il suo indiano.

Di Cara bastardo, con il tuo romanzo mi hai buttato indietro di quarant’anni per farmi respirare quella pura gioia innocente che la vita mi ha strappato semplicemente facendomi crescere. Mi hai ricordato che nei miei giochi ero “Il ragazzo dai capelli rossi” coinvolto mio malgrado a uccidere i nemici che mi cercavano come le mosche cercano il miele, senza che io avessi fatto niente. E li uccidevo con la mia infallibile mira e con i miei alleati cugini, Rosario, Ninni … e c’era anche Isabella …la ragazza (irraggiungibile) che nei sogni mi aspettava innamorata, dopo avere ammazzato Mimmo, il cattivo che la voleva toccare. E avevo pure un cavallo nero come la notte, che mi portava veloce da lei. E avevo tanto altro ancora…

Di Cara grazie. Con la tua storia hai fatto rivivere per qualche ora “Il ragazzo dai capelli rossi” che ho scoperto di avere ancora dentro, e che era ancora vivo. Non era morto, era solo nascosto dai cumuli di pensieri che massacrano i cinquantenni, che fra bisogni terreni e affanni giornalieri per la prima volta iniziano a pensare: “quanto ancora mi resta da vivere.”

Scusate se non ho parlato del romanzo, ma alla fine non c’è niente da dire, ha tutto come nella migliore tradizione del western puro. È bello e ve lo consiglio, ma dovete saperlo leggere. Dovete respirarlo ad occhi chiusi. Dovete viverlo e abbandonarvi liberi alle suggestioni che vi evocano la vostra vecchia infanzia spensierata oramai sepolta dalle rate del mutuo in un camerino della memoria.

Un ultima cosa rivolta a Luigi Bernardi e la dico nel linguaggio western: “Sei bravo straniero. Non sbagli un colpo”.

Splendida copertina.

Ivo Tiberio Ginevra



martedì 8 marzo 2011

IL SUPREMO CARDINALE un racconto di Ivo Tiberio Ginevra



In un’epoca assai lontana e molto confusa dove il potere temporale è della polizia, Italo sta per essere nominato Cardinale. E’ inginocchiato in fondo alla piccola sala ed indossa un vestito nero, elegante e lucido, con una medaglia d’oro che brilla nello scuro della sua persona. Ha le mani giunte sotto il mento rasato fresco e lo sguardo attento e fisso sul Supremo Cardinale che benedice i presenti in una Prefettura affollata consegnando gli eleganti baschi color oro, simbolo del potere e clou della cerimonia. Fra poco il Supremo Cardinale nel suo lussuoso abito da cerimonia avanzerà verso Italo, ma Italo non è felice. E’ solamente incredulo. Molto incredulo. Guarda fisso il Supremo e continua a restare incredulo eppure, mai nessuna promozione è stata meritata come la sua. Un’onesta politica, una dedizione totale al lavoro, un’incessante opera divulgativa di modernizzazione moralizzata, un’onestà ormai diventata simbolo dei suoi meriti. Il popolo lo ama, i Magistrati sono dalla sua parte, i Prefetti lo viziano e perfino il Papa chiede costantemente sue notizie. Tutto insomma. Tutto…… eppure Italo ha paura. Nella sua pura ingenuità ora che il potere è a pochi passi da lui, resta ancora incredulo. “Si tratta di uno sbaglio se sono qui! Certo, che cosa ho fatto di così speciale per meritare quest’altissima carica? Perché io e non qualcun altro?”. Che umili pensieri nel suo cervello. Intanto il religioso avanza, stringe le mani e consegna i baschi d’oro che i nuovi cardinali non indossano. Ora è il turno di Italo. Tutti applaudono. Anche lui come gli altri riceve il grande potere ed anche lui lo tiene in mano. Poi, dopo la cerimonia, in una saletta attigua il Prefetto con la sua tonda faccia invita tutti i neo-cardinali ad indossare il berretto e, come vuole la tradizione, risvoltato. “E’ molto buffo” pensa Italo “anzi ridicolo. Se un domani sarò Supremo questa meschina scaramanzia la farò sparire per sempre, insieme a questo grossolano Prefetto che ormai è un inferiore a tutti gli effetti e continua a dare queste volgari pacche sulle spalle. Tutto questo non è serio e noi abbiamo bisogno di serietà ed onorabilità partendo dalla base, altrimenti non si è creduti”.

Sono passati ventidue anni e già da tre Italo è il Supremo Cardinale.

Il popolo lo imita, lo stima, lo crede giusto ed onesto e così è. Nell’arco del suo mandato Italo ha fatto imponenti riforme e tante altre cose belle e buone. Nomina i Cardinali sempre giusti e onesti. E’ lui il simbolo d’ordine e polizia mondiale. L’Imperatore ha proposto la sua nomina al soglio Pontificio e fra qualche giorno sarà nominato Papa. Finalmente, dopo tanti secoli di governo arabo è un cattolico a sedersi sull’ambito trono, ma un piccolo particolare, insignificante nella sua tradizione, purtroppo ancora in vigore per i Papi e chissà come sfuggito alla riforma dell’ordine legale, può costargli tutto. Può distruggere in un solo attimo tutta la sua opera e principalmente la sua immagine. Nella corsa al trono di Dio, Italo ha dimenticato che un Papa è ancora legato al vecchio e superato rito della cresima e per essere Papi bisogna essere cresimati. Lui non lo è, e proprio grazie alle sue riforme non lo potrà mai essere, né per altro può abolire questo requisito ora che sederà sul soglio pontificio. Nel frattempo, Italo come un dio viene eletto Papa, ed il Cardinale Saucier nominato dall’Imperatore per il controllo dei requisiti formali di legittimità del nuovo Papa. E’ proprio Saucier, già tempo nominato Cardinale da Italo, il suo controllore. Proprio quel Saucier che gli piacque tanto per il suo carattere incorruttibile, sarà quello che lo sputtanerà e lo ricoprirà di fango e merda fino a farlo sprofondare, proprio come lui stesso gli ha insegnato a fare con gl’imbroglioni. “No! Tutto questo si deve evitare. Si deve evitare. L’ordine mondiale resterebbe sconvolto. Bisogna intervenire subito. Per prima cosa è necessario farlo tacere, non sarà facile ma si conosce il suo prezzo” o meglio, Italo conosce benissimo il punto debole di Saucier, ed è lì che lo colpirà; una bella nomina a Supremo Cardinale più il titolo di primo consigliere del Santo Uffizio se starà zitto e questo è subito dopo l’investitura, poi in seguito altri favori, e se non dovesse bastare altro potere, denaro e donne a volontà. Comunque, poi sarà necessario farlo uccidere. “No, meglio ucciderlo personalmente per evitare scandali e testimoni. Un po’ di veleno…..E’ meglio simulare un incidente, un banale e disgraziatissimo incidente che lo farà volare fuori della finestra”, ed Italo sarà addolorato e la parola di un Papa peraltro testimone dell’accaduto basterà a far archiviare le indagini.

Tutto è andato come previsto. Tutto è in regola, gli uomini credono molto nell’onestà di Saucier. Italo è ufficialmente salito sullo scranno papale ed il suo primo atto di Dio in terra è stato quello di far nominare Saucier Supremo Cardinale e Primo Consigliere del Santo Uffizio con la seguente motivazione “…per le sue doti di onestà, incorruttibilità, religiosità ed attaccamento al dovere.”

Il pontificato di Papa Italo XI passò alla storia come il più breve di tutti i tempi. La balaustra del vetusto Palazzo Prefettizio cedette proprio sotto il peso dello sventurato Italo mentre era a colloquio con il suo Primo Consigliere. Fu un volo di circa trenta metri, dove il disgraziato Papa Italo trovò una morte terribile e all’istante. Ovviamente non fu aperta nessuna inchiesta. Bastò semplicemente la descrizione dell’accaduto da parte dello sconvolto Primo Consigliere e Supremo Cardinale … Saucier.

I funerali furono solenni e l’intera umanità pianse Papa Italo. Saucier disse un gran bene del Santo Padre, e pianse pubblicamente commovendo tutti.

Quindici giorni dopo i funerali, il Supremo Cardinale Saucier fu segnalato all’Imperatore quale successore di Italo e solo dopo altri tre giorni divenne Papa. Governò con il nome di Papa Italo XII. Si! proprio di Italo come ebbe lui stesso a dire nel giorno della sua incoronazione “….nel rispetto ed imperitura memoria di quel grande Papa da tutti noi amato che fu Italo XI, nostro maestro e da oggi guida spirituale per noi tutti.

Saucier era cresimato e non ebbe problemi. Pontificò quattro anni e fu ricordato come l’uomo del rinnovamento morale e spirituale. Purtroppo ancora a tutt’oggi le circostanze della sua morte rimangono un mistero.

Ivo Tiberio Ginevra

Un tipo tranquillo

Siete sicuri di non avere dentro di voi una bestia immonda capace di realizzare il più turpe dei vostri desideri?

Siete sicuri che resterà sempre in letargo?

Qualunque sia la risposta vi dico che c’è.

Che un giorno potrebbe svegliarsi, rompere i legacci e scatenarsi per il suo univoco piacere che è il vostro inconfessabile desiderio segreto.

Mario Rossi, il protagonista dell’ultimo romanzo di Marco Vichi “Un tipo tranquillo”, questa bestia ce l’ha. Non sapeva d’averla e quando lo ha scoperto credeva pure di domarla, ma rotta la catena, la bestia ha soddisfatto il suo desiderio rosso e vivo e la tela si è imbevuta avida come un prato.

Mario Rossi, un uomo tranquillo, come tanti.

In lui è tutto ok. Ogni cosa è tranquilla. E “tranquilla” vuol dire avere una cuccia, uguale alle altre. Mediocre, comune, scontata, dozzinale. In una sola parola: “Sicura”. Tutto sicuro e tranquillo a cominciare dal suo nome. Anonimo.

Per 63 anni, Mario Rossi è andato a spasso con la sua bestia rinchiusa nella scatola.

A spasso con lui in tutti i luoghi, in ogni circostanza.

Per tutti gli anni della sua tranquilla esistenza, la bestia è stata con lui.

Non aveva neanche pensato d’averla, ma un fatto comune. Una circostanza imprevedibile, ma naturale, l’ha svegliata. E questa ha dovuto rincorrere tutto il tempo perso, fino a strapparlo con i denti, fino alla vita stessa.

Un tipo tranquillo è un gran bel romanzo e Marco Vichi è uno scrittore sensazionale, un narratore del nostro tempo, maestro nel descrivere la psiche dell’italiano medio, che vive le angosce e le solitudini in una gabbia sicura dalle fondamenta standard, piatte, monotone, abitudinarie.

Mario Rossi è un tipo insoddisfatto e domato. Desideroso e appagato dal “nulla” comune. Vestito di una personalità insignificante, sicura e mediocre.

La struttura del romanzo ha una costruzione naturale, intelligente e soprattutto perfetta a livello psicologico, con un’alternanza di personaggi semplici e complessi allo stesso tempo, affogati nella mediocrità borghese, dove alla fine, risalta solo la felicità illusoria data dal modello negativo.

Quando si sveglierà la bestia dentro al tipo tranquillo, e sarà libera di fiutare il limite delle convenzioni, allora sarà facile per lei avere la meglio sul mediocre domatore e trascinarlo nel baratro della sua autoconsapevolezza dei desideri insani.

Il finale del libro è imprevedibile.

Deve essere assolutamente metabolizzato prima di esprimere un qualsiasi giudizio, perché ha la forza potente di sprigionare elementi contrastanti fra loro, scuotendo i limiti della fantasia del lettore che ha dovuto aspettare la fino alla fine il compimento della metamorfosi del protagonista.

Un tipo tranquillo è indubbiamente un romanzo degno di stare in libreria accanto al “Fu Mattia Pascal” e “Lo strano caso del dottor Jekyll e del sig. Hyde”.

Ogni secolo ha la sua bestia.

Ivo Tiberio Ginevra

Qui si fanno miracoli


Qui si fanno miracoli era la scritta pubblicitaria esposta da una bottega palermitana specializzata nel dipingere ex-voto.

Il devoto si recava alla bottega, raccontava l’episodio, il pittore prendeva qualche appunto o direttamente faceva uno schizzo sulla latta e pattuiva il prezzo. Il pittore poi completava il disegno con una certa libertà, attendendosi ai criteri generali ed allo stile pittorico della propria bottega.

Atto di devozione e di gratitudine personale, l’ex-voto dipinto, oltre che per sciogliere un’obbligazione, viene offerto come esigenza di comunicazione per affermare la potenza miracolosa della Madonna, che si venera nel Santuario della Madonna della Milicia, ed in questo modo la gratitudine personale diventa comunitaria.

Gli ex-voto del Santuario a pochi chilometri da Palermo, legati al culto della Madonna della Milicia, sono stati accuratamente restaurati e raccolti in un Museo.

I pezzi sono circa quattrocento, esposti in uno spazio che li mostra in successione temporale, come una processione di eventi drammatici umani che soltanto l’intervento della Madonna ha trasformato in eventi meravigliosi.

La collezione costituisce una fotografia pittorica della vita, usi, costumi e credenze della società palermitana dal 1842 ad oggi.

Quest’arte massicciamente diffusa a livello popolare, si divide anche per aree geografiche, aventi alla base la natura economica.

Si usava la latta, perché il poco costo del materiale facilmente reperibile e riciclato, si ricavava dalle scatole di sardine che i droghieri vendevano al dettaglio.

Molti sono i temi sviluppati nella collezione. Alcuni ex-voto richiamano episodi della storia siciliana, l’impresa dei Mille, le rivolte di contadini, la battaglia di Dogali, ma sono le malattie, gli interventi chirurgici, gli incidenti sul lavoro, ed i salvataggi miracolosi dei pescatori sorpresi dalle tempeste, che fanno la parte rilevante negli ex-voto.

Caratteristica degli ex-voto dipinti è che essi non venivano firmati: il pittore con questo gesto di umiltà, partecipava all’atto di devozione del miracolato.

A completare la formalizzazione pittorica c’è sempre la rappresentazione in alto a destra della Madonna della Milicia , di S. Francesco in ginocchio nell’atto di adorarla e quasi sempre la sigla “V.F.G.A.” che significa “Votum Fecit Gratiam Accepit” (voto fatto per grazia avuta).

Con profonda convinzione l’Amministrazione Provinciale di Palermo ha voluto promuovere e sostenere la pubblicazione di un volume sugli ex-voto del Santuario della Madonna della Milicia, a pochi chilometri da Palermo, in una elegante e raffinata veste grafica, interamente a colori ed in carta patinata.

Autore del volume è padre Giuseppe Bucaro, che ha condotto i suoi studi e le sue ricerche sugli ex-voto, riuscendo a dare all’opera un alto valore culturale e storico che unisce gli aspetti fondamentali del rigore dell’analisi storica e dei simboli della fede assunta a devozione con illuminante valore scientifico.

Ivo Ginevra e alcuni brani trascritti dal libro di padre Giuseppe Bucaro

Si fosse n’auciello

Si fosse n’auciello, ogne matina
vurria cantà ‘ncoppa ‘a fenesta toja:
“Bongiorno, ammore mio, bongiorno, ammore!”
E po’ vurria zumpà ‘ncoppa ‘e capille
e chianu chiano, comme a na carezza
cu stu beccuccio accussì piccerillo,
mme te mangiasse ‘e vase a pezzechillo…
si fosse nu canario o no cardillo

Totò (Antonio De Curtis)

Concorso nazionale di narrativa “Caffè Letterario Moak” 2011


Se vi piace scrivere storie e vi piace il caffè, vi segnalo l’undicesima edizione del premio letterario Moak.

Lo stile è libero, ma il tema è obbligatorio sul caffè.

La giuria è fatta da scrittori e critici più che competenti, il premio per i tre vincitori è in denaro, e c’è tempo fino al 21 Aprile 2011 per inviare gli elaborati.

Questa volta il caffè non lo bevete, ma scrivetelo.

Vi trascrivo il bando del premio.

Art.1

L’azienda Caffè Moak ed l’Associazione Culturale Kronos indicono per l’anno 2011 la 10° edizione del concorso di narrativa Caffè Letterario Moak.

Art.2

Si concorre inviando un solo racconto inedito in lingua italiana sul caffè (tema da intendere nella sua accezione più ampia, come luogo di incontro, bevanda, chicco, pianta, etc.).

La lunghezza del racconto va da un minimo di 5 ad un massimo di 20 cartelle.

Per cartella si intende una pagina dattiloscritta di 30 righe, pari a 1800 caratteri, spazi inclusi. (Per eventuali chiarimenti si consulti la pagina faq del concorso.)

Art.3
Il racconto va inviato in numero di 6 copie, di cui 5 anonime ed una sola firmata a conclusione del racconto.

Insieme al racconto va inviata la scheda tecnica con i dati, le generalità e una breve presentazione dell’autore. La scheda è scaricabile dal sito del concorso.

Il racconto e la scheda vanno inviati anche in copia digitale in formato Word, tramite cd da allegare alle copie cartacee, o via e-mail all’indirizzo del concorso.

Art.4

Gli elaborati vanno spediti entro e non oltre il 21 aprile 2011 al seguente indirizzo: Associazione Culturale Kronos, via Risorgimento 10/B, 97015, Modica (RG).

Farà fede il timbro postale.

Art.5

La quota di partecipazione al concorso è fissata in € 17,00, da versare sul C/C Postale n° 57725301, intestato a: Centro di Formazione e di Iniziative Culturali ed Ambientali, via Risorgimento 10/B, 97015, Modica (RG). La ricevuta di versamento va allegata alle copie del racconto.

È possibile pagare la quota tramite assegno o in contanti, da inserire nella busta con le copie del racconto; oppure on-line tramite le Poste Italiane, utilizzando il codice IBAN del conto corrente del Centro di Formazione: IT36 X076 0117 0000 0005 7725 301.

Art.6

In occasione della 10° edizione del concorso la giuria è composta dai presidenti che si sono susseguiti in questi anni.

È presieduta da Walter Pedullà (critico letterario) e costituita da:

■Roberto Alajmo (scrittore)

■Guido Conti (scrittore)

■Salvatore Ferlita (critico letterario)

■Raffaele Nigro (scrittore)

■Massimo Onofri (critico letterario)

La Giuria d’onore è composta dai seguenti membri dell’azienda Moak:

■Giovanni Spadola (Presidente);

■Sandro Spadola (Direttore generale);

■Annalisa Spadola (Direttore marketing).

e dai seguenti rappresentati delle istituzioni pubbliche:

■Presidente della Provincia Regionale di Ragusa;

■Assessore alla Cultura del Comune di Modica.

Art.7

La Giuria, secondo giudizio insindacabile, indicherà, tra tutti gli elaborati:

■i racconti segnalati (i racconti ritenuti più meritevoli);

■i racconti vincitori (i primi tre racconti tra quelli segnalati).

Art.8

Saranno premiati i primi tre racconti:

■1° classificato: € 1.500,00.

■2° classificato: € 1.000,00.

■3° classificato: € 500,00.

Gli autori vincitori sono tenuti a presenziare alla cerimonia di premiazione.

Art.9

I racconti finalisti e vincitori saranno pubblicati sul volume del Concorso “I racconti sul caffè”, edizione 2011.

Art.10

L’organizzazione del Concorso, se necessario, si riserva la facoltà di apportare modifiche al regolamento.

La partecipazione al Concorso implica l’accettazione del presente regolamento.

Ai sensi della Legge 196/2003 si informa che i dati personali relativi ai partecipanti saranno utilizzati unicamente ai fini del Concorso.

Per ogni altro aspetto non contemplato nel presente bando fanno fede e ragione le vigenti norme di legge. Per ogni controversia legale è competente il Foro di Modica (RG).

PER INFORMAZIONI

Pagina faq del sito ufficiale del concorso
Associazione Culturale Kronos – Sara Giunta
tel.: 0932.763940; 0932.906607 – cell.: 339.3350886
web: www.caffe-letterario.it
email: info@caffe-letterario.it

Accade davvero


Il fatto:

Martedì 1 marzo 2011 ore 19.00 – Canale 5, trasmissione “Chi vuol essere milionario”.

Il Presentatore Gerry Scotti ad un concorrente legge per un valore di 1.500 euro, la seguente domanda (una di quelle facilitate per rompere il ghiaccio):

Chi elegge il Presidente della Repubblica Italiana?

a) Il Consiglio dei Ministri;

b) Il Senato;

c) Il Presidente del Consiglio;

d) Il Parlamento.

Il concorrente entra in palese difficoltà e ritenendo la cosa “una roba per anziani”, ritiene che sia eletto dai senatori.

Il presentatore, anche se organo neutrale per istituzione televisiva, insinua il dubbio e consiglia di usare uno dei tre aiuti a disposizione.

Il concorrente accetta il suggerimento e siccome ritiene la domanda di carattere nazional-popolare decide di ricorre all’aiuto del pubblico presente in sala.

Il pubblico interpellato si divide in un verdetto paritario, infatti, metà ritengono che Presidente della Repubblica sia eletto dal parlamento e l’altra metà, dai senatori.

A questo punto il concorrente obbligato a decidere, sceglie di fidarsi di quella metà di pubblico che ha indicato i soli senatori e ovviamente sbaglia perché il Capo dello Stato è eletto dal parlamento in seduta comune, ed è eliminato dal gioco.

Le considerazioni:

Un volta qualcuno disse: “Qui o si fa l’Italia o si muore” e qualcun altro disse ancora: “Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani” e adesso, a 150 anni dall’unità d’Italia ed a 63 anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, mi domando: come dobbiamo reagire quando in un programma televisivo assistiamo a questo incredibile sfoggio d’ignoranza, o meglio con chi dobbiamo incazzarci? Forse con Garibaldi? O con Enrico De Nicola che firmò la nostra Costituzione? Oppure con il nostro sistema scolastico, o la nostra società usa e getta, o con i nostri governanti che hanno permesso degli attacchi d’ignoranza di tale proporzione, oppure con questo o con quello. Io me la prendo solo con i curatori del programma di Gerry Scotti che si sono permessi di fare una domanda così stupida a scapito dello spettacolo, quando il nostro concorrente e tutto il pubblico in sala avrebbe potuto applicarsi e dare soddisfazioni con qualche bella domanda di gossip magari su chi ha il culo più a mandolino fra la Belen o la Canalis?

Volevo commentare il fatto, ma mi mancano le parole, o meglio, mi viene da dire solo Povera Italia ed ho la voglia di prendermela con tutti.

Ivo Tiberio Ginevra

La storia della bambola


Giampaolo, il mio amico di Fb, mi ha inviato questo racconto di Paul Auster tratto dalle “Follie di Brooklin”.

È la storia di Kafka e la Bambola. Pare che sia vera. Alcuni critici ne parlano. Se vi piace recentemente è uscito un libro di Jordi Sierra I Fabra Jordi “Kafka e la bambola viaggiatrice” edito da Salani.

“Una lettura obbligata per chi ama le belle storie e indispensabile per coloro che non smetteranno mai di leggere Franz Kafka.”


 
La storia della bambola

E’ l’ultimo anno della vita di Kafka, il quale si è innamorato di Dora Diamant, una ragazza di diciannove o vent’anni che è fuggita dalla Polonia lasciando la sua famiglia di ebrei chassidici e ora vive a Berlino. Ha la metà dei suoi anni, ma è lei che gli dà il coraggio di andarsene da Praga … una cosa che lui desiderava da tempo … e diventa la prima e unica donna con cui Kafka abbia convissuto. Arriva a Berlino nell’autunno del 1923, e la primavera dopo muore, però quei pochi mesi sono probabilmente i più felici della sua vita. Malgrado il deperimento della salute. Malgrado i problemi sociali di Berlino: scarsità di generi alimentari, violenza politica, l’inflazione più alta della storia tedesca. Malgrado la certezza di avere ancora poco da vivere.

Tutti i pomeriggi Kafka va a fare una passeggiata nel parco. Generalmente lo accompagna Dora. Un giorno incontrano una bambina in lacrime, che singhiozza da farsi scoppiare il petto. Kafka le chiede cosa c’è che non va e la bambina risponde che ha perso la sua bambola. Lui subito comincia a inventare una storia per spiegarle l’accaduto. «La tua bambola è andata a fare un giro», le dice. Lei gli chiede: «E tu come lo sai?» «Perché mi ha scritto una lettera», le risponde Kafka. La bambina sembra sospettosa. «Ce l’hai qui?» gli domanda. «No, mi spiace, – fa lui. – L’ho lasciata a casa per sbaglio, ma domani la porterò con me». E’ cosi convincente che la bambina non sa più cosa pensare. Possibile che quell’uomo misterioso stia dicendo la verità?

Kafka torna subito a casa per scrivere la lettera. Si siede a tavolino e Dora, osservandolo mentre scrive, nota la stessa serietà, la stessa tensione che mostra quando sta componendo una sua opera. Non vuole prendere in giro la bambina. Questa è una vera fatica letteraria, e lui è ben deciso a compierla nel migliore dei modi. Se riuscirà a presentare alla bambina una bugia bellissima, e convincente, sostituirà la bambola perduta con una realtà diversa: falsa, forse, ma veritiera e credibile secondo le leggi della narrativa.

L’indomani Kafka si precipita al parco con la lettera. La bambina lo sta aspettando, e dato che non ha ancora imparato a leggere gliela legge lui ad alta voce. La bambola è molto spiacente, ma si è stancata di vivere sempre con le stesse persone. Ha bisogno di muoversi e di vedere il mondo, di fare nuove amicizie. Non è che non voglia bene alla bambina, però desidera cambiare aria, perciò dovranno separarsi per qualche tempo. Infine la bambola promette che scriverà alla bambina ogni giorno e la terrà al corrente di quello che sta facendo.

Già è incredibile che Kafka si sia preso il disturbo di scrivere quella prima lettera, ma ora si dedica al progetto di scriverne una nuova ogni giorno … al solo scopo di consolare la bambina, che fra l’altro per lui è una perfetta estranea, un esserino incontrato per caso un pomeriggio in un parco. Che tipo di uomo fa una cosa simile! E’ andato avanti per tre settimane. Tre settimane. Uno degli scrittori più geniali che siano mai vissuti ha sacrificato il suo tempo … un tempo sempre più scarso e prezioso … per comporre le lettere immaginarie di una bambola smarrita. Secondo la testimonianza di Dora scriveva ogni frase con una cura maniacale del dettaglio, e la sua prosa era precisa, spiritosa e avvincente. In parole povere, era la prosa di Kafka, e lui per tre settimane andò tutti i giorni al parco e scrisse ogni volta una nuova lettera alla bambina. La bambola diventa grande, va a scuola, conosce altre persone. Continua a ripetere alla bambina che le vuole bene, ma allude a certe complicazioni che le rendono impossibile il ritorno. A poco a poco Kafka prepara la bambina per il momento in cui la bambola sparirà dalla sua vita per sempre. Si spreme per creare un finale soddisfacente temendo che se non lo troverà si possa rompere l’incantesimo. Dopo aver vagliato alcune ipotesi, alla fine decide di far sposare la bambola. Descrive il giovanotto di cui lei si innamora, la festa di fidanzamento, le nozze in campagna, perfino la casa dove ora abitano la bambola e suo marito. E poi, nell’ultima riga, la bambola dice addio alla sua vecchia e affezionata amica.

Ma a questo punto naturalmente la bambina non sente più la mancanza della bambola. Kafka le ha dato in cambio qualcos’altro, e alla fine delle tre settimane le lettere l’hanno guarita dal suo cruccio. Lei ha la storia, e quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all’interno di una storia, da vivere in un mondo immaginario, i dolori di questo mondo svaniscono. Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più.

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