martedì 20 marzo 2012

Intervista a Ivo Tiberio Ginevra su Letteratitudine new di Massimo Maugeri

Posto fedelmente l'intervista che Massimo Maugeri mi ha fatto per letteratitudine il 12 marzo 2012

 
Ivo Tiberio Ginevra ha pubblicato di recente il romanzo “Gli assassini di Cristo” (Robin, 2011).




Questa, la scheda del libro…

Un grande crocefisso, capolavoro del barocco siciliano, è stato distrutto a colpi di mazza. Al commissariato di Scrafani arriva la rivendicazione di un gruppo estremista islamico. Il fatto innesca una forte tensione tra gli scrafanesi e i mussulmani che vivono in città. Il nervosismo raggiunge il culmine quando si diffonde la notizia di un nuovo atto blasfemo ai danni di un’opera sacra custodita nella chiesa di Sant’Elena. Stavolta la notizia scatena in città una vera e propria caccia all’extracomunitario. Si innesca così un processo di omicidi, atti vandalici e ritorsioni che getta Scrafani nel caos più totale. Il commissario Falzone, il vice questore Bertolazzi e il medico legale Di Pasquale, già uniti da una lunga e profonda amicizia, si trovano costretti a fare fronte comune per risolvere un caso che sembra mettere a rischio l’integrità dell’intera città.

Ne abbiamo discusso nell’ambito di questa chiacchierata…

- Ivo, collabori a diversi siti di letteratura e a magazine letterari. Come definiresti il tuo rapporto con i libri?


Da feticista. Io i libri li tocco, li accarezzo, li sogno, li vivo, li sottolineo fino a farli diventare un campo di battaglia, li strappo, li regalo, li colleziono, li butto, li amo e soprattutto li annuso. Li annuso spesso. Mi piace aprirli, ficcarci dentro il naso, respirarli. Alle volte scelgo un libro al posto di un altro, solo perché all’annusata è risultato migliore. Ma, forse più che feticista devo essere un sommelier del libro.

- Quali sono i tre libri di cui non riusciresti a fare a meno?

Bella domanda, ma mi trovi preparato. Me la pongo spesso quando la sera sono a letto e non riesco a prendere sonno, quindi te li sparo subito e nel seguente ordine

Il primo per motivi affettivi è Il Barone rampante di Italo Calvino perché è stato il primo libro che ho letto e mi ha consacrato alla lettura e all’amore per il volo della fantasia, poi mi ricorda lo zio Ciccino che me l’ha regalato dicendomi: “Ora che sei grande e sai leggere non ti racconto più delle favole, fai da solo e vedrai che è ancora più bello”. Aveva ragione.

Il secondo è il libro che sto leggendo e questo varia sempre al momento della domanda.

Il terzo è senza dubbio l'Ulisse di Joyce. Mi serve quando non riesco a prendere sonno. Generalmente da tempo immemore non supero le 15/20 pagine a volta e per giunta sono sempre costretto a rileggere le precedenti perché le scordo. Libro consigliato per tutti gli insonni.

- Tra le altre cose ti interessi di ornitologia… mi viene in mente il romanzo “Freedom” di Franzen. L’hai letto?

No, lo sto andando a comprare, in compenso ho letto centinaia di pubblicazioni ornitologiche e sono abbonato a tutte le riviste del settore. Un libro che associo agli uccelli fin dalla mia infanzia è Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, perché Jonathan non è un uccello comune, di una semplice razza comune. Jonothan è un uccello che ama volare e aspira ad un ideale perfetto di libertà. Per quello in cui crede è disposto a sacrificarsi e ci riesce. Il gabbiano Jonathan Livingston mi piace perché è un uomo perfetto.

- Hai pubblicato il romanzo “Gli assassini di Cristo”. Come nasce? Quale, la fonte di ispirazione (ammesso che ci sia stata)?

C’è stato un periodo che ovunque volgessi lo sguardo trovavo nelle chiese sempre un Cristo insanguinato, o una Madonna addolorata con i suoi bei pugnali piantati nel petto, o qualche santo decollato, o senza occhi, o semplicemente pieno di frecce. Solo e sempre dipinti o statue in policromia di un Cristo rappresentato nella più misera umiliazione e sofferenza. Insomma una pacchiana spettacolarizzazione del dolore spesso rappresentato in forme artistiche piuttosto scadenti … e io da cristiano mi trovavo abbastanza a disagio. Allora mi domandai: “E un islamico, come vivrebbe tutto questo?” Da quel momento in poi cominciarono le mie elucubrazioni mentali fino ad arrivare alla prima stesura del libro.

- Come descriveresti il commissario Falzone a un potenziale lettore del tuo libro?

Falzone è un uomo comune. Un uomo che vive nel suo tempo con tutte le necessità e contraddizioni del giorno d’oggi. È solo, è divorziato. Vive il dramma dei padri separati che non possono veder crescere i figli ogni giorno. Vive in un ambiente di lavoro realistico con colleghi normali e situazioni reali. Nessun supereroe, ma gente concreta, che magari non arriva a fine mese con il suo stipendio, che rischia la vita per 1.300 euro al mese, che non viene mai meno al suo dovere. Vive nella gioia e nel dolore. Semplicemente vive.

- La Sicilia ha una storia di grandi confluenze culturali, anche per via delle dominazioni che si sono avvicendate. Uno dei temi del tuo romanzo riguarda la convivenza delle comunità islamiche nel nostro territorio. Cosa pensi a riguardo?

La nostra società, oramai anche nelle sue realtà periferiche, deve iniziare a risolvere i problemi dovuti all’integrazione razziale e religiosa. I problemi sono oramai sotto gli occhi di tutti e ripeto, devono essere risolti, perché il malessere vissuto da entrambe le parti, porta soltanto al rifiuto del nuovo e dell’altro. E bisogna far presto per evitare che una crescente intolleranza, l’ottusa preconcettualità, l’arroganza e la miseria umana, possano tradursi in una sola parola: Odio. Odio in tutte le forme, ma soprattutto in ciò che è diverso da noi. Non scordiamo che dall’odio, nasce solo l’odio (pertanto credo che le stesse tragiche paradossali situazioni che tratto nel mio libro, alla fine potrebbero anche avverarsi). Io credo solo che è necessario risolvere il problema al più presto favorendo l’integrazione, ma a patto che si operi con la certezza assoluta che la vita merita il dovuto rispetto e che tutti devono essere trattati con dignità indipendentemente dalla religione e dal colore della pelle.

L’anno scorso ho letto un libro di Alessandro Perissinotto dal titolo Semina il vento. Se avete a cuore questo problema, vi consiglio di leggerlo perché tratta il tema dell’integrazione religiosa fino ad elevarlo a memorabile lezione di vita.

- Hai altri libri nel cassetto?

Per giugno pubblicheranno un mio racconto in una antologia insieme a scrittori di razza, veri e tosti, mentre a novembre uscirà in libreria Sicily crime, il secondo episodio della serie Falzone & C. dove ho voluto prendere in giro tutti i poliziotti patinati e perfetti che sono importati dall’America con un conio dozzinale e lussuosamente confezionati per essere serviti nei supermercati della cultura. Mi è piaciuto contrapporre alla loro tecnologia all’avanguardia, quella classica e reale di un qualunque commissariato di Sicilia. Contrapporre al loro modo accademico e perfetto di esprimersi, quello tipico da caserma farcito di parolacce ed al contempo reale, insomma, ho voluto contrapporre ai super esperti poliziotti americani, belli, tipici, colti e fighi, quattro coscienziosi sbirri pieni dei problemi reali di uomini comuni, con nevrosi dettate da trasferimento, divorzio, malattie ecc. Ero rapito dall’idea di ridicolizzare il perfetto modo d’indagine supertecnologico alla CSI fatto di torce, pennellini, computer, polverine ecc. ecc. e al contempo volevo deridere quello arruffone e lontanamente scientifico che in realtà vige in casa nostra, cercando di non far capire che si trattava di una presa in giro per tutti, e in particolar modo per i serial killer e per gli stessi accaniti lettori americanizzati, sempre alla ricerca di truci smembramenti di cadaveri ed assassini alla Hannibal Lecter…. , ma tutto sembra serio, anzi è serio, quasi credibile. Credibilissimo. (però fa ridere) e sinceramente spero di strappare qualche sorriso con questo gialletto senza pretese.



GLI ASSASSINI DI CRISTO
 di Ivo Tiberio Ginevra

UNDICESIMO COMANDAMENTO (Uccidi chi non ti ama)

Autore: Elena Mearini
Editore: Perdisa Pop editore
Anno: 2011

La tramaSerena è una giovane donna che conosce il dolore e la solitudine. A soli cinque anni ha perso entrambi i genitori ed è stata cresciuta da Rinaldo, uno zio costretto ad abbandonare la carriera di pugile per occuparsi di lei. Allevata in un clima di amarezza e disperazione, Serena sposa un uomo violento, di cui subisce i maltrattamenti senza battere ciglio, perché ha deciso di portare una croce, di replicare il cammino di Cristo, le stazioni della Passione, convinta che per ogni pena subita le verrà data in premio una dose di affetto. Così Serena sopporta come un Cristo al femminile, fino a quando si accorge che la storia della croce è difettosa, che il mondo reale non concede premi e che lei ha il dovere di reagire.

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Quando leggo un romanzo ho sempre una penna e sottolineo spesso le frasi che mi colpiscono particolarmente, inoltre a margine annoto diversi appunti, insomma, vivo il libro come una palestra e non come un santuario. Ieri ho fatto la stessa cosa con Undicesimo comandamento di Elena Mearini. Alla fine della lettura, avendo usato per giunta un colore rosso, mi sono accorto di averlo trasformato in un campo di battaglia. Ho praticamente segnato tutto. La conclusione per me è una sola, Undicesimo comandamento è davvero un ottimo libro. Non solo per la costruzione psicologica in se stessa, sempre accurata e precisa, ma anche e soprattutto per il suo linguaggio al singolare, conciso, pulsante, sempre poetico, di rara forza espressiva, del tutto introvabile nell’attuale panorama letterario italiano. Un esempio: “La bocca si allena a chiedere aiuto. Ma è parola troppo grande, ci sta scomoda nel palato, soffoca contro le gengive. E muore prima di essere voce.”

E così è per tutto il romanzo fin dall’incipit dotato di una gran forza drammatica, coinvolgente e sorda, che in poche righe riesce a creare un misero scenario di disarmante abbandono che inchioda alla sedia, facendo entrare il lettore nel debole cuore di una donna succube della violenza fisica e psicologica perpetrata dal marito all’interno delle sue mura domestiche: “Quando lui entra in casa io ricevo lo sfratto. Incute il timore dell’ufficiale giudiziario venuto a strapparti il tetto da sopra la testa. Il pavimento da sotto i piedi. La sua presenza mi schiaccia contro la parete. Riduce il mio corpo allo spessore dell’intonaco bianco. Mi ritrovo donna da un millimetro, spalmata alle mura e confusa al cemento. Perdo la libertà del cammino.”

La disarmante rappresentazione della violenza perpetuata ogni giorno sul fisico e sulla coscienza della povera protagonista del dramma, è descritta dalla Mearini con sconsolata forza espressiva. Il lettore è obbligato a partecipare alla tragedia domestica con l’impotenza dei deboli che oramai sono abbandonati al loro ineluttabile destino, soggiogati dal male, senza un minimo d’autostima: “Mi spoglio. Assecondo la sua convinzione come una parete fa con il suolo. Fedele al comando di non prendere iniziativa che non sia volere di fondamenta. La camicia mi cade ai piedi. È pezzo d’intonaco crollato a terra. Perdo un secondo strato con i calzoni. Cade anche l’ultimo rivestimento. Con le mutande e il reggiseno.”

La giovane Serena sottomessa ad un destino infame che l’ha privata dei suoi genitori quando era ancora una bambina, cresce con lo zio Ronaldo che per il dovere morale di farsi carico della piccola, rinunzia alla sua vita privata perdendo la donna che amava e abbandonando la carriera di pugile. L’unica conseguenza è quella di educare una sventurata bambina nell’indifferenza, nel rimpianto, e nell’alcool della sua frustrazione. E Serena cresce con un gran senso di colpa. Cresce senza un minimo d’autostima con l’inevitabile conseguenza di avere un carattere debole e sottomesso. Per questo suo marito Diego, un giovane legale sadico e deviato, la maltratta fino a renderla inerte al dolore. E lei sopporta tutto questo come un Cristo femminile, come se tutto fosse dovuto, ineluttabile e giusto per espiare quel senso di colpa di essere sopravvissuta e rimasta sola al mondo. Ma questo finché non accade un fatto straordinario. Una nuova vita sta per crescere dentro di lei. Allora una forza. Una nuova forza esclusivamente femminile, riesce a farla combattere. E quella forza di nome maternità, riesce ad operare il riscatto per il bene della giovane vita che porta in grembo. Serena reagirà, obbedendo all’undicesimo comandamento: uccidi chi non ti ama.

Questa storia triste, mirabilmente descritta con linguaggio poetico e sincopato da Elena Mearini si traduce in fine in un messaggio di speranza per tutte quelle donne vittime di violenza, e dona loro quella consapevolezza di combattere contro tutto e tutti per il diritto di una esistenza pacifica, normale e piena d’amore. Amore vero. Quello di una madre al figlio.
recensione di Ivo Tiberio Ginevra

LA TROMBA


Autore: Walter De La Mare

Editore Sellerio Editore Palermo (collana La memoria)
Anno 1993, 80 p.


Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su thrillerpages.blogspot.com

Parliamo di Walter De la Mare e in particolare di un suo piccolo racconto, La tromba (pubblicato nel 1936) di appena 50 pagine iniziando proprio dal suo esergo: Ed egli rispose… Son forse io il custode di mio fratello? (Genesi, 4, 9).

Bello, forte e soprattutto azzeccato come miglior preludio possibile per parlare dell’emblematico rapporto fra due fratellastri che finisce in tragedia.

Philip e Dick. Il primo è il figlio del pastore di una chiesa ed è legato al piccolo Dick da un fascino che lo irretisce nel bene e nel male, mirabilmente descritto in poche battute da De la Mare:

“Era una compagnia che lo irritava, a volte in modo quasi insopportabile, ma dalla quale non riusciva a svincolarsi…. … In qualche occasione, persino la vista di quel volto assorto dal naso esiguo, e dei neri occhi ora dardeggianti di vita e di ardore, ora oppressi da una imperturbabile malinconia, di quelle stesse manine leste e e di quelle minuscole orecchie aguzza, riempiva Philip di una profonda avversione. Ciò nondimeno la sua compagnia aveva un fascino singolare e imperituro… … Philip lo ammirava, lo disprezzava, ne era geloso e talvolta lo odiava con tutta l’anima.”

De la Mare, maestro nello scandagliare la psiche dei fanciulli (li troveremo, infatti, sempre fra i protagonisti delle sue opere), pagina dopo pagina inizia a coltivare l’odio e l’invidia di Philip nei confronti del fratellastro:

“Era un mistero. Se mai, in qualche rara festa o celebrazione, si doveva cantare un a solo nel minuscolo coro del paese, era Dick che lo cantava … … sebbene fosse risaputo che il pastore si vantava del valore del suo coro, Philip non riusciva a ricordarsi di una sola parola di elogio da parte di suo padre a funzione finita, nemmeno di un piccolo, enfatico colpetto sulla testa. Per quanto riguardava lui, Dick avrebbe potuto essere un sordomuto.”

L’autore inglese costruisce un efficace movente, inserendo nei meccanismi dell’odio l’inspiegabile preferenza del padre verso Dick, e lo fa per l’appunto in maniera fanciullesca, entrando nella psiche del giovanetto che non capisce perché il suo arcigno padre ha la tendenza nei confronti del fratellastro a perdonare tutto, oppure a minimizzare, quando in altri casi avrebbe fatto una tragedia. Il quadro finale ci propone un fratello maggiore, orgoglioso al punto “che neanche per un attimo riesce a dissimulare il suo senso di superiorità”, ma nel suo animo vive il rapporto con Dick sempre nel perpetuo conflitto iniziale “fra affetto, gelosia e spregio”.

Il risultato di De la Mare è quello di aver creato solo dopo poche pagine un eccellente personaggio complesso, controverso e arguto, dal quale si attende nel prosieguo della storia, un qualcosa d’indefinito che presagisce alla tragedia.

La costruzione letteraria, oramai improntata verso la rivisitazione in chiave moderna del mito di Caino e Abele, in ossequio alla migliore tradizione narrante, non tralascia ad arte, d’incanalare le simpatie del lettore sul piccolo Dick. Scavezzacollo, simpatico, intelligente, vivace, curioso, spaccone e coraggioso al tempo stesso, ma soprattutto buono e indifeso:

“…E Dick coglieva quei segreti sentimenti, espressi soltanto nel volto e nelle azioni di Philip, con la destrezza e rapidità con cui un pettirosso becca le briciole. Eppure non vi faceva mai riferimento, né sembrava ne risentisse per più di un minuto o due.”

Completata la costruzione psicologica dei due protagonisti, De la Mare non tralascia di descrivere in maniera perfetta il luogo dove si svolge l’azione, caricandolo di quella dovuta tensione ricca di mistero e suspance.

Il luogo è nell’incipit:

“La minuscola chiesa, oscuramente illuminata da una luna piena che non aveva ancora trovata una vetrata attraverso la quale i suoi raggi diretti potessero penetrare le tenebre, era deserta e silente.”

Luogo insolito. Orario inverosimile. Mezzanotte. Timori e presagi. Rabbia e terrore. Misticismo e realismo. Tranquillità da accapponare la pelle. E dentro il tempio due fanciulli. Philip e Dick, in una prova di coraggio:

"Sono venuto soltanto per gioco, e perché mi hai sfidato a farlo. La ragione per cui mi hai chiesto di venire è in realtà che tu avevi paura di stare qui da solo”.

Atmosfera e tensione descritti con il tocco del maestro:

“…e nel silenzio che, appena le loro lingue ebbero cessato di ciarlare, sommerse completamente la chiesa, stettero in ascolto, i sensi avidi del più debole sussurro. Ma la notte era senza vento e la terra gelidamente quieta nel funereo fulgore lunare.”

L’ambientazione misteriosa e mistica, dove anche gli angeli di marmo sembrano vigili nel loro letargo, con l’incalzare della storia che si dipana fra rinvii fatti ad arte e tensione accumulata, alla fine confluisce nell’irreparabile. Dick abbocca al sacrilego temerario invito di Philip di soffiare nella tromba dell’angelo al soffitto perché resusciterà i morti, e nel tentativo trova la morte schiantandosi al suolo. L’ordine naturale delle cose sembra ristabilito nella tetra chiesa dallo stesso angelo vendicatore che ha ritenuto opportuno intervenire per riportare l’edificio nella sua santità. L’istigazione cattiva di Philip, che vive con incanto il mistero religioso, invece, si è coronata con la morte del fratellastro, ma il rimorso, la colpa, iniziano fin da subito a dilaniare l’animo e la coscienza del sopravvissuto riproponendo nel rimorso, il mito di Caino e Abele:

“Dick! Dick!... Io non volevo questo. Ti giuro che non volevo questo. Non mi abbandonare…”

In conclusione leggendo il racconto “La tromba” di Walter De la Mare, da lui stesso inserito nella raccolta dei suoi racconti più belli, si resta fortemente colpiti dalla capacità dello scrittore inglese di creare con stile raffinato e poetico, una tensione crescente perfetta ed essenziale, frutto di una accentuazione del pathos fatto di rimandi, e divagazioni ricche di descrizioni accurate degli ambienti, senza tralasciare un profondo scandaglio psicologico dei personaggi. Forse in questo racconto manca una vera e propria suspence nel senso stretto del termine, come lo intendiamo noi uomini del 2012, ma la padronanza di uno stile letterario del tutto unico e irripetibile, lo collocano senza dubbio fra i migliori testi di genere del secolo scorso; indubbiamente ideale per dedicarsi all’apprendimento di quei meccanismi di perfetta narrazione da parte di chi ha deciso di intraprendere l’arte della scrittura.
recensione di Ivo Tiberio Ginevra