martedì 29 gennaio 2013

Il guardiano dei morti


Giuseppe Merico
Edito da Perdisa Pop
Anno 2012
Pag. 384

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it.

Mimino è un nome carino. Ti fa subito simpatia e quando sai che è il personaggio principale di un libro di 380 pagine, ti accosti alla lettura con più entusiasmo. T’immagini subito un ragazzino simpatico e vivace, oppure un adulto grassottello, chissà poi perché quando uno è sovrappeso, lo chiamano sempre con vezzeggiativi, vedi il mio amico Enzuccio 110 Kg, oppure Alfreduccio sui 130 e passa, invece Mimino è alto, magro, anzi è talmente magro da sembrare che stia per dare l’anima a Dio e per giunta lavora nel cimitero di un piccolo paese della Puglia. In poche parole, Mimino è un becchino.

Hodie mihi cras tibi (oggi a me domani a te). È questa la scritta che ogni mattina il protagonista del romanzo legge sul cancello del cimitero quando si reca al lavoro. “Vorrebbe spaventarmi, vorrebbe farmi stringere il manubrio della bicicletta o farmi stringere forte le chiappe, non ci riesce, non è cosa per lei, non adesso“. Mimino non s’impressiona. Sa bene che è dei vivi che deve aver paura. Sa bene che la morte è una condizione definitiva e non può farci niente. “Io taccio con i vivi, al massimo parlo con i morti“… “I morti ti sussurrano in un orecchio qualcosa che conosci bene ma preferisci non ricordare” ed in ogni caso “il trapano che uso per chiudere la bara fa un rumore che spazza via tutto“, anche i tremori, le incertezze, le preoccupazioni. Tutto in una parola. Solo una cosa Mimino non riesce a spazzare dalla mente: il ricordo di suo padre “Luce che va a spegnersi. Lo abbiamo portato a casa che era già in coma, con l’innocenza da coma, con la pelle che era la pelle di mio padre ma era pelle da coma, con l’innocenza da coma, pelle in transito. Luce che si spegne“. Mimino è distrutto dal dolore della perdita del padre, perché questa morte, questo distacco definitivo è purtroppo avvenuto quando il genitore a seguito della malattia si stava trasformando da padre padrone, despota e risoluto, in un genitore che tentava di uscire dalla sua anaffettività. Un rapporto dove ha sempre regnato l’indifferenza assoluta contrapposta al naturale desiderio del piccolo Mimino di avere l’amore del padre, e questo fino alla fine: “negli ultimi quattro giorni gliele ho tenute, quelle mani, le ho tenute per tutte le volte che avrei voluto farlo e non l’ho fatto“. Mimino non riesce ad elaborare il lutto per la perdita del padre. È semplicemente annientato da questa morte. È un peso che lo spinge fino a udirne la voce. Fino ad averne sviluppi macabri, come profanare i defunti, e questo senza un’apparente ragione se non quella di esorcizzare il fantasma di suo padre che gli parla.

Mimino è malato. Ha una profonda nevrosi depressiva. Può salvarlo solo l’amore e lui lo abbraccia. Ama. Ama la madre malata. Ama la giovane compagna Carmela bistratta e ripudiata dall’intero paese perché prostituta. Ama Mirko, un piccolo orfano con gravi problemi mentali. È solo con quest’amore. Con quest’immensa voglia d’amare che Mimino incollando pezzi di vite sfasciate, crea una famiglia ed è felice. Si cura da solo e solo con quest’amore dimostra al padre che lui, Mimino, il figlio scemo, non è una nullità. È riuscito dove non era riuscito il padre. Nell’avere una famiglia sulle basi dell’amore, della solidarietà e del rispetto reciproco.

Ma questo dura poco. Questo sogno ricco d’agognata armonia si spezza per i voleri di una terra forte, selvaggia, ancestrale nelle sue pulsioni di possesso e forza. La violenza del più forte. Ed è proprio la violenza del male, protagonista indiscusso del romanzo insieme al suo alter ego dell’amore, che sconfigge gli sforzi di Mimino di guarire la sua personalità. È il male che annienta irrimediabilmente tutto il buono che aveva fatto. Il buono. Quella strampalata famiglia dove regnava l’amore e il rispetto. E la felicità. “…papà li dovresti vedere, dovresti vedere quello che ho messo assieme, quasi una famiglia, saresti fiero di me, papà“.

Ne Il guardiano dei morti c’è anche un altro protagonista indiscusso e selvaggio: il Salento. Una terra ricca, forte, piena di pulsioni ataviche e violenta. Forte come il sole che la brucia e freddo come la brina del mare che la spazza. Un Salento sempre presente con i suoi uomini dominanti, capaci di togliere le speranze e svuotare la vita dai contenuti umani. Un Salento emblematico, arretrato, omertoso, desolante e senza speranza quello visto da Merico, ma al contempo ricco di una fame di vita che trova in Mimino un uomo coraggioso in grado di misurarsi contro l’ignoranza, la povertà e la delinquenza stessa. Un eroe non vinto, ma senza riscatto, che contro ogni logica sarà ingoiato da un finale imprevedibile, drammatico e poetico.

Il guardiano dei morti è senza dubbio un romanzo corale, ricco di comprimari numerosi tutti ben caratterizzati, dotati di straordinaria presenza scenica e soprattutto in movimento costante. Evoluzione che consiste nell’accettare o nel cercare se stessi. Capire e vivere la terra Salentina “Tengo il finestrino aperto e ho il braccio che sporge fuori e fuori c’è la notte del sud che sa di magia antica e di cipolle e di zucchine e di peperoni e di pesce e di melanzane al forno e di pelle dura e rossa o nera e di sudori cattivi e di gretto oscurantismo e di pistole nascoste in mezzo agli alberi di ulivo e di tangenti e di fianchi larghi di donne giovani e già vecchie e di cazzi duri dei loro mariti, di terra, umori, soldi rubati, ville abusive, sindaci collusi, preti, credenti, preghiere, maledizioni, parolacce, violenza, muscoli, spalle, lingue, e di forti, di più forti e di deboli, quelli che muoiono presto. La notte del posto dove sono nato“.

Personaggi come la mamma di Mimino, Carmela, il signor Salvatore, i tre poliziotti, restano nelle loro apparizioni scolpiti nel ricordo del lettore proprio per la loro precisa collocazione e completezza, come una storia nella storia.

Un discorso a parte merita Animà, l’animale. Un uomo gigantesco, deforme, cattivo, psicopatico con un occhio solo e ripugnante in tutto il suo insieme. Animà, l’animale. Non ha neanche un nome. È solo per tutti Animà. Ma l’animale riscatta se stesso. Riesce ad essere più umano di altri. È un Animà che come Quasimodo non sopporta l’ingiustizia. Un Merico, dunque, che strizza l’occhio a Victor Hugo. Che abbraccia il mito della bella e la bestia, con un romanzo breve all’interno dello stesso romanzo il tutto ricco di violenza, patos, saggezza, e poesia: “L’uomo ha la faccia sfinita, gli zigomi scavati e la bocca serrata per lo sforzo compiuto, accenna a un sorriso, Carmela lo apprezza, lo ricambia. Se ne stanno così, uno di fronte all’altra, lei seduta, lui in piedi e vicini dentro come due ventricoli di uno stesso cuore“.

Non manca pure una parte decisamente thriller, tipica del romanzo d’azione, e questo sempre all’interno de Il guardiano dei morti. Una scrittura ricca di tensione, perfetta nel suo equilibrio e nella costruzione che porta alla scena madre. Una ventina di pagine scritte con maestria da bere in un sorso.

In conclusione, e non sono pagato in alcun modo per scrivere questo, Il guardiano dei morti assurge ad opera letteraria perché la prosa di Giuseppe Merico è dotata di una completezza lirica di grande spessore che riesce a scavare nei meandri della psiche umana e nei suoi abissi con lucida visceralità. La sua scrittura è struggente e gradevole al tempo stesso e le profanazioni dei cadaveri, orribili nelle loro descrizioni, riescono bene a equilibrarsi all’interno di una narrazione, scarsa d’aggettivi, diventando strumentali alla tragedia psicologica di Mimino e mai semplici particolari pulp fini a se stessi. L’orrendo disgusto che il protagonista ci fa provare con il suo vilipendio sui defunti, scassina una porta che conduce alla riflessione introspettiva, quale allarme impazzito del disagio psichico dei rapporti umani spinti all’eccesso. Empietà come fobia per vincere il male eterno della morte. Per capire la morte come sviluppo dell’esistenza stessa.

Anche la scrittura che Merico usa in prima persona per Mimino, volutamente sgrammaticata, ma profonda, ricca e a volte goffa, conferisce maggiore incisività ai pensieri del protagonista e al suo travaglio interiore. Tutto questo contrasta meravigliosamente con la forma usata in terza persona per esprimere il disagio del poliziotto che viene da Roma, alle prese con la sua integrazione in una terra che non capisce, piena di gente ostile, ma che alla fine imparerà ad amare nei sapori e nelle genti. Questa del poliziotto che viene da Roma è un’incantevole figura, ne Il guardiano dei morti, perché descrive il travaglio di un uomo che vuole entrare nel tessuto sociale Salentino e che vuole capirlo fino ad amarlo, il tutto in netta contrapposizione a Mimino, vittima, invece, proprio di questo mondo enigmatico, violento e incomprensibile della sua terra.

I miei veri complimenti a Giuseppe Merico e alla Perdisa che oramai rappresenta una realtà sinonimo di coraggio e intelligenza nel panorama editoriale italiano, perché, sì, ci vuole proprio coraggio nel pubblicare un libro come questo. Un libro che a distanza di un mese ti risale prepotentemente dallo stomaco obbligandoti a riflettere e a dire che è bello.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra


martedì 15 gennaio 2013

Intervista a Sara Bilotti


Sara Bilotti autrice dell’apprezzatissimo Nella carne, è intervistata da Ivo Tiberio Ginevra e ci racconta del libro e di se stessa. Non ve la perdete…

[D]: Ciao Sara, amo il tuo modo di scrivere i tuoi racconti me li sono sentiti Nella carne. Siccome sono sicuro di non poter più fare a meno dei tuoi fantastici viaggi nella psiche umana la prima domanda è ti faccio è quanto tempo devo aspettare per leggere il tuo prossimo libro e di cosa tratterà.

[R]: Ciao, Ivo, e grazie! Il mio prossimo libro sarà un romanzo, un noir psicologico. Purtroppo ci sarà da aspettare un annetto...

[D]: Nella carne è fra i più bei libri che ho letto negli ultimi anni e ti faccio anche i miei complimenti per il coraggio che hai avuto a voler debuttare con un volume di racconti nel panorama letterario italiano, genere di per sé poco amato dai lettori. Come mai questa scelta?

[R]: E’ accaduto per caso. Ormai più di un anno fa, scrissi un pezzo per un sito piuttosto popolare. La persona che si occupava di selezionare i testi restò talmente colpita dal racconto da chiedermi di scrivere una raccolta. Era la curatrice della collana noir di Termidoro, che poi è diventata la mia casa editrice. Io amo molto i racconti, il modo in cui, nella migliore delle ipotesi, afferrano il lettore per i capelli e lo scaraventano in una trama. Non c’è il tempo necessario per affezionarsi ai personaggi, per entrare nelle atmosfere, ci devi cadere dentro.

[D]: Nei tuoi racconti c’è un mondo incredibile pieno di tutto. Alcune frasi e molti concetti sono pieni di contenuti. In Passo numero quattro c’è questa frase vuoi commentarla? “Poi sento quel lamento. È così debole che. Per un attimo, temo di averlo immaginato. Mi guardo intorno. È come se vedessi per la prima volta il nulla che mi circonda“. A te la parola Sara:

[R]: Ci sono momenti in cui la realtà ti appare nitida. Sono momenti in cui ti togli di dosso maschere e abiti costruiti negli anni, e riesci a vedere con chiarezza te stesso e gli altri. A volte vedi qualcosa, qualcuno. Molto più spesso, il nulla. E’ incredibile quante vite siano costruite sul nulla.

[D]: Continuo con altre frasi prese dai tuoi racconti. Credo che così ci conosceremo meglio. Adele e ChiaraSe Adele ama, ti vuole possedere. E se ti possiede, ti distrugge. La cosa veramente assurda, però, è che correrei volentieri il rischio di essere posseduta e distrutta, pur di avere il suo amore. Ma niente da fare“. Essere accettati. Voler essere accettati. Non credere di essere accettati. Cos’è l’altro per te?

[R]: Un’illusione. Cerchiamo conferme della nostra esistenza attraverso gli occhi degli altri, e spesso ci accontentiamo delle menzogne, pur di sapere di esistere. Certo, non è sempre così. Ci sono Altri che ci vedono per quello che siamo, e che arricchiscono le nostre vite con un confronto sincero, profondo. Ma è così raro trovarli. Questione di fortuna.

[D]: Nella carneMi innamoro ogni volta. E quando tutto finisce, penso che non potrò mai più farlo. Ne ho consapevolezza, eppure, ogni volta che l’amore nasce, lo stupore mi lascia senza fiato. Il pensiero dell’uomo di turno penetra nel mio cervello come un chiodo e resta piantato lì fino alla fine di tutto. Per tutto il tempo che lo amo, non c’è nulla che potrebbe distrarmi“. Amore che sembra, amore che è. Incapacità d’amare pur amando. Amore malato. Cos’è l’amore per te?

[R]: E’ una domanda difficile. L’amore è il motore di un sacco di azioni, ma anche il motivo per cui si compiono crimini, ingiustizie, delitti. Come la nostra anima, anche l’amore ha il suo lato oscuro, e ci tocca accettarlo e arginarlo, altrimenti si prenderà tutto lo spazio.

[D]: L’uomo neroI traumi mettono radici profonde e gli alberi che spuntano fuori dal terreno spargono semi ovunque. Chi subisce il Male deve condividerlo, da solo non riesce a sopportarne il peso. Anche a costo di scaricarlo sui propri figli“.

[R]: Il Male non è un’entità astratta, che vive al di fuori di noi. Cresce con noi, insieme al bene. Accade a volte che ci tocchi subire più dolore di quanto riusciamo a sopportare, e da questo dolore superfluo non impariamo nulla, neanche a difenderci. E così ci divora facilmente. Per questo succede tanto spesso che una persona che ha subito violenza diventi a sua volta violento; quando il male diventa troppo non abbiamo altra scelta che lasciarlo traboccare.

[D]: Nella carneLa vita scorre dentro il sangue. Per questo preferisco i cibi a base di carne: da qualche parte, tra un ossicino e un nervo, si rifugia l’anima“.

[R]: Preferisco pensare che ciò che siamo non sia racchiuso in un luogo evanescente, ma scorra nelle nostre vene insieme al sangue, respiri insieme ai polmoni, pulsi insieme al cuore. La mia carnalità tutta partenopea si esprime spesso con espressioni del genere: io sono nella carne, nel sangue, nelle viscere.

[D]: Passo numero quattroFare i primi tre passi è facile, è il quarto che non mi riesce mai….. ma mi fermai al terzo passo, e lei andò via“.

[R]: L’immobilità tipica di chi nega il lato oscuro della nostra anima si esprime proprio nell’incapacità di agire in modo tangibile sugli eventi. Ti capita poi di prendere tutto il coraggio che hai quell’unica volta in cui dovresti restare fermo al tuo posto. E’ l’ironia della vita.

[D]: La vera ossessione che ho scoperto e amato più d’ogni altra cosa nei tuoi racconti è quella per il numero tre. Così come la terra e tutti i suoi pianeti girano intorno al sole, tutto nei tuoi racconti ruota intorno al tre. Una trinità misteriosa e affascinante che regola il mondo, il pensiero. Il respiro. Mi è piaciuto da morire perdermi in questa matematica preordinata, ma adesso credo sia arrivato il momento di svelare questo mistero.

[R]: C’è poco da svelare: il tre è per me un’ossessione sin da quando ero bambina. Il dispari costituisce una costante, nei miei gesti e nei pensieri. Ho studiato con passione per anni tutti i linguaggi: la musica, la danza, le lingue, e il numero tre secondo me costituisce la perfezione nelle forme grammaticali, nel pentagramma, persino nelle figure di danza. Ad esempio, ho perso la testa sugli spartiti delle Invenzioni a tre voci di Bach: pur essendo una sorta di esercizio per affinare tecnica e disciplina, il numero tre le rende sublimi. Nonostante la struttura rigida, quasi didascalica, sono secondo me paragonabili alle Fughe, per tema e soggetto. A questi ultimi, si aggiunge la terza voce, un’armonia che rincorre, unisce, sublima.

[D]: Sara nei tuoi racconti c’è un’incantevole molteplicità di tutto con concetti profondi e sofferti fino a diventare ossessioni vere e proprie. Una di queste è l’indifferenza. A te la parola.

[R]: Pratico il distacco da anni, da quando il fatto di essere senza pelle mi ha costretta a rifugiarmi in una dimensione altra, da cui osservo il mondo dall’alto. Non sempre riesco nel mio intento, ma il tentativo di alienazione è costante e mi salva la vita.

[D]: Anche la metamorfosi ha un ruolo decisivo nei tuoi racconti. L’ho vista presente un po’ ovunque. Perche?

[R]: Ritengo il cambiamento l’unica via possibile, visto che restare fedeli a se stessi porta inevitabilmente a un vicolo cieco. E’ necessario cambiare punto di vista sulla realtà per risolvere i problemi, e sono convinta che la letteratura, l’Arte in generale, abbia un ruolo determinante nella costruzione di una realtà migliore. L’artista non ti spiega, l’artista ti fa sentire, ti mette nei panni e negli occhi degli altri, ti apre un mondo.

[D]: I tuoi racconti sono pieni di rancore. Con chi ce l’hai Sara?.

[R]: Con un’intera comunità che mi ha isolata, umiliata, colpita mentre ero già a terra. Una tribù ignorante e razzista che ha visto in me l’incarnazione del diverso e ha deciso di farmi fuori, prima che il virus di cui sono portatrice avesse colpito le loro donne sottomesse, i loro figli mai emancipati, le loro sorelle col capo chino e coperto. Shyamalan ne tirerebbe fuori una sceneggiatura niente male.

[D]: C’è anche molto rimpianto. Cosa rimpiangi Sara?

[R]: Per troppo tempo ho subito le scelte altrui. Rimpiango di non aver vissuto abbastanza, per il timore di ferire. Tutto inutile. Ma mi rifarò.

[D]: E c’è anche un mare di solitudine.

[R]: Tanta, tantissima. Ma quella non mi spaventa, né mi fa soffrire. La solitudine mi culla, mi dà sollievo.

[D]: E d’insoddisfazione.

[R]: Questa fa parte del passato.

[D]: Molte creature dei tuoi racconti sono insicure o insofferenti. Perché c’è spesso il tema dell’insicurezza o dell’insofferenza al centro del tuo mondo?

[R]: Durante la mia infanzia e parte della mia adolescenza ho avuto motivo di insicurezza e insofferenza. E certe cose te le porti dietro, almeno a livello inconscio. Le adatto ai miei personaggi, e le esorcizzo. La mia è una scrittura egoista.

[D]: Sara chi sei?

[R]: Lo sto scoprendo. Forse.

[D]: Grazie, Sara. Attendo con trepidazione di leggerti ancora.

[R]: Grazie a te, Ivo. E’ sorprendente sapere che hai letto tutte quelle cose nascoste tra un rigo e l’altro. Ho imparato molto di me, dalla tua lettura.

[D]: Touchè.

mercoledì 9 gennaio 2013

Fiume pagano



Autore: Laura Costantini 
        Loredana Falcone

Editore: Historica
Anno: 2010
Pag.:  240
recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillecafe.it

Ho letto questo romanzo con piacere, e una volta finito mi sono sorpreso a riflettere che il tempo era stato speso bene; insomma un buon libro. A distanza di qualche mese, tutti i suoi personaggi mi sono iniziati a mancare e l’ho ripreso. Sfogliandolo mi sono ricordato della gran quantità di storie ed argomenti che sono contenuti all’interno di solo 240 pagine, indubbiamente troppo poche per esprimere molti pensieri e tante storie. Alla fine l’ho riletto e credo proprio che Fiume pagano vada bene così. È perfetto. Caratterizzazione dei personaggi precisa e co-protagonisti tutti interessanti, così come le comparse. Ambientazione impeccabile. Stile originale e mai retorico.

Fra le cose maggiormente riuscite ci sono i dialoghi del tutto naturali e ricchi di una romanità popolare e non invasiva. Una popolarità al punto giusto, che s’interseca bene con le suggestioni che solo la città eterna può trasmettere. E proprio Roma, con i suoi ponti sul Tevere sono i veri protagonisti del romanzo. Ogni capitolo, infatti, porta il nome di un ponte della città. S’inizia da Ponte Suplicio per finire a Ponte Garibaldi. Undici ponti in tutto. Luoghi che diventano scene del crimine, perché proprio da questi ponti, dei barboni vestiti con tuniche bianche, pieni d’assenzio, con il petto marchiato e nello stomaco la mola salsa (rustica focaccia dell’antica Roma), si lanciano nel vuoto a morte sicura. Ad indagare c’è il luogotenente Quirino Vergassola, coadiuvato dall’amico Nemo Rossini, romano de Roma e “redattore anziano di un giornaletto da diecimila copie“, vero motore della storia insieme a Monica, toscana di ricca famiglia alla disperata ricerca del padre clochard che vive ai margini del Tevere ed in serio pericolo di vita. Monica è anche contesa da due uomini completamente diversi fra loro e verso i quali nutre una profonda attrazione. Dovrà fare una scelta difficile e sofferta, ma durante l’incedere della storia fra i misteri di un’associazione che vuole riportare Roma ai fasti imperiali e la miseria dei reietti della società ai margini del fiume, si dipana un giallo colto e garbato fino al suo inaspettato epilogo.

Il romanzo di Laura Costantini e Loredana Falcone è una buona combinazione fra diversi generi letterari dove il colore dominante del “giallo” è ben supportato dal rosa “sentimentale”, dal nero dell’”horror”, dal bianco del “romanzo storico” e dall’arcobaleno di colori che solo Roma riesce a dare con i suoi volti, le sue parlate, le sue irripetibili atmosfere mai abbassate al rango di macchiette folcloristiche per strappare due risate.

Degna di nota è la perfezione dei dettagli ambientali così come la ricerca storica che le due autrici hanno messo all’interno del romanzo, inoltre la scrittura scorre fluida come l’acqua del Tevere e così la lettura scorre fluida che è un piacere.

Quando uscirono dal tepore della pizzeria trovarono che Roma si era velata di nebbia. Una nebbia fitta, spumosa, che lucidava il selciato. I lampioni nei vicoli veleggiavano come meduse. Le automobili sulla strada erano bave di luce in movimento. Monica si strinse contro il braccio di Claudio. Il Tevere fumigava sospirando oltre i parapetti di Ponte Palatino…