domenica 17 novembre 2013

Una posizione scomoda


FRANCESCO MUZZOPAPPA
Fazi Editore
Anno 2013
Pag. 223

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.letteratitudine.it

 Obporno collo.

Fabio Loriero è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. È una giovane promessa. È l’allievo preferito di registi del calibro di Gianni Amelio e Sorrentino. La stampa lo indica come l’erede di Rulli e Petraglia. Appena uscito dal Centro lo cercano tutti, ma lui rifiuta di lavorare alla sceneggiatura di “Un medico in famiglia”, sbatte il telefono in faccia ai produttori di “Un posto al sole” e addirittura brucia il biglietto da visita del produttore della nota serie televisiva “Don Matteo”. Questo perché Lui, è orgoglioso. Lui è migliore del corso, l’erede dei grandi sceneggiatori italiani e non può abbassarsi a scrivere per le fiction. Ma Fabio Loriero commette l’errore di perseverare e continua rifiutando tutto finché, un giorno il suo telefono non squilla più e lui cade in depressione e senza soldi. Vede i suoi colleghi di corso lavorare con Verdone, Archibugi e anche all’estero, ma soprattutto vede l’ascesa del suo amico Giovanni Settemacchie alle vette del cinema che conta. Giovanni, infatti, lavora con Bertolucci. Sì proprio Giovanni. Il più cretino del corso, e lui? La grande promessa, che fa? Fa cose incredibili! Fa sceneggiature a base di “OOO”, e spesso litiga con il suo produttore che le vuole a base di “AAA”. Sissignore, è pazzesco, ma Fabio Loriero per vivere fa lo sceneggiatore di film porno. Così mentre i suoi colleghi fanno carriera e scrivono per grandi registi, lui sprofonda negli abissi del cinema porno scrivendo sceneggiature-parodie di film o romanzi di successo come: “Il profumo del maschio selvatico”, “Dorian Gay”, “Analcord”, “Erezioni di piano” ecc.. Fabio fa questo lavoro senza un minimo di passione, nascondendosi da tutti, costretto a celare e mentire per salvarsi dall’umiliazione di lavorare nel porno. Ma nonostante tutto il nostro “Fabius” è sempre un artista di qualità e alla fine riesce pure a vincere il premio come miglior sceneggiatore all’XXX Festival del cinema porno a Cannes con “L’importanza di chiavarsi Ernesto”, parodia del capolavoro di Oscar Wilde (non oso immaginare cosa succede alla giovane Cecily e Miss Prism, anche se appare ovvio).

Altro ancora riserva la vita al nostro eroe, ma per non togliervi il piacere della lettura mi astengo dal raccontare il seguito, anche se volendo potrei farlo, perché il fascino di questo libro, non sta soltanto  nella freschezza e strampalatura della trama, ma soprattutto in quell’umorismo amaro, costellato da fallimenti e speranze infrante, che grazie alla grande auto ironia del narratore si trasforma in un piccolo capolavoro d’assoluta comicità, dove spesso ci si sorprende a ridere di gusto in un momento topico: “Indossava un cappellino che definire eccessivo è riduttivo. Corrisponde esattamente a ciò che sceglierebbe la Regina Elisabetta nel caso decidesse di sfilare nel carro inaugurale del gay pride.” Battute come questa si susseguono per tutta la durata del libro, ma senza strafare. Messe sempre al momento e al posto giusto. Senza far diventare l’opera il monologo di un comico strappa applausi, mantenendo sempre il sottile equilibrio fatto d’auto ironia, comicità e irriverenza, senza scendere mai nel volgare, restando per giunta in una tematica che di per se è piuttosto triviale. Il porno, infatti, non disturba affatto il lettore restando un argomento incidentale, inoltre il linguaggio di Muzzopappa è sempre piacevole, fatto da lunghi monologhi a frasi brevi.

La caratterizzazione del personaggio è ottima e Fabio suscita subito le nostre simpatie proprio per quella sfortuna che lo perseguita, dato che oramai si è epurato dall’orgoglio dei sogni di gloria dell’Accademia e da tempo si sbatte come migliaia di giovani d’oggi alla ricerca di un lavoro, sapendosi adattare anche a cose che mai si sarebbe immaginato di fare pur di risolvere le proprie necessità economiche. Si vergogna, certo! E vive in Una posizione scomoda fatta di segreti, imbarazzi e doppi sensi, ma è tenace, tosto, e non si abbatte nella ricerca di realizzare il suo sogno.

In conclusione il libro di Francesco Muzzopappa è molto gradevole. Fa ridere per la quantità impressionante di battute comiche e situazioni sui generis lanciando il messaggio ai giovani di non mollare e credere nei sogni anche se nel suo caso il protagonista per affermarsi, Obporno collo, si è trovato spesso in Una posizione scomoda.

Operazione Madonnina

 
R. Besola – A. Ferrari – F. Gallone
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013
Pag. 220
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
Ho letto di furti audaci, strampalati e religiosi, su tutti D. Westlake con “Meglio non chiedere”, dove una banda d’affermati professionisti del crimine diretta da Dortumunder ruba la reliquia miracolosa di Santa Fergana.
Ho visto film di furti audaci, strampalati e religiosi, su tutti “Operazione San Gennaro” con il grande Nino Manfredi nella parte di Armanduccio Girasole detto Dudù e con nel mirino l’inestimabile valore del tesoro del patrono di Napoli.
Oggi ho letto di un furto audace, strampalato e religioso fatto da Angelo (il Cencio), Osvaldo (il Gigante), Lorenzo (il Gagà). Una banda improvvisata, alter ego dei tre scrittori italiani che nella vita fanno proprio gli stessi mestieri dei nostri raffazzonati furfanti, e infatti, Riccardo Besola è un pubblicitario (il Gagà e mente del gruppo), Andrea Ferrari dirige una comunità per anziani con balera e bocciofila (il Gigante) e Francesco Gallone vende fiori artificiali al mercato (il Cencio).
Il furto è fra i più incredibili che una banda abbia mai pensato di effettuare. Si tratta di rubare  un’enorme statua tutta d’oro. 500 chili d’oro, alta più di 4,00 metri, posta a circa 100 metri d’altezza, nel posto più in vista della città di Milano e in quello più arduo da raggiungere. E sì, l’avete intuito. Si tratta proprio della Bella Madonina che te brilet de luntàn tutta d’oro e… Tutta d’oro? D’oro un cavolo. Quella è la leggenda. Nei fatti è semplice rame dorato, ma i tre invece la credono veramente d’oro e non devono far altro che rubarla con l’aiuto di un elicottero, poi una volta ridotta a pezzi, ricavarci più soldi possibili per risolvere ognuno i sui problemi, perché la nostra banda è decisamente ridotta alla canna del gas in una Milano del 1973, dove trionfa l’edilizia selvaggia (l’Osvaldo rischia di perdere il suo ristorante con bocciofila se non lo riscatta a danno di un costruendo orribile stabile in via Ripamonti), dove proliferano bande criminali che tengono sotto scacco la polizia (il Gagà per qualche prestito in più rischia di essere ammazzato dagli strozzini) e dove si vede per la prima volta l’affacciarsi in quella realtà dello spettro della disoccupazione (il Cencio ha perso il suo lavoro da fioraio e deve mandare avanti la numerosa famiglia).
Rispetto ai citati Dortumunder e Dudù che rubano solo per denaro, per il nostro trio far sparire la Madonnina non è solo risolvere i rispettivi problemi economici, ma qualcosa di più, è quello che “mai nessuno, prima d’ora ha osato fare: profanare il simbolo stesso della città di Milano. La città che ha generato il loro bisogno ha generato anche la loro necessità. E la loro necessità è tremenda, in tutta la sua disperazione”. Oltre ai soldi c’è di più, molto più della rivalsa di gente disperata che in questa città ha visto il pane “Milan gh’è il pan”. In questo gesto disperato c’è “il significato simbolico, la metafora di rubare ciò che di più prezioso e rappresentativo possiede chi ti ha tolto tutto. Tutto….. e Osvaldo per la prima volta prova un odio profondo per quel catino di menzogne di cemento e menzogne che è diventata la sua città. Milano che oramai è amara come un bicchiere di olio di ricino”.
Il piano è semplice da attuare. Basta un elicottero, imbracare la statua e via, ma se il pilota è un reduce americano della seconda guerra mondiale che ogni volta attacca la solfa di: “Eravamo io, Johnny Michigan, Karl e Lenny Malone”, allora le cose si complicano.
Operazione Madonnina oltre a Angelo, Osvaldo e Lorenzo ha altri due protagonisti minori altrettanto completi e ben caratterizzati: l’ispettore di PS Benito Malaspina (chissà se i tre scrittori sono a conoscenza che il carcere di Caltanissetta si chiama proprio con il cognome del poliziotto) ossessionato dall’essere al centro dei pensieri del boss Ugo Piazza che vuole ucciderlo per vendetta e Dino Lazzati detto Fernet, superstizioso e valido giornalista di cronaca nera. Ma tutti i personaggi di quest’opera sono ideati nel modo migliore. Sono completi, psicologicamente trattati, perfetti e socialmente inseriti in quella Milano del 1973, così ben ricreata anche nei dettagli politico sociali.
La narrazione in terza persona è bella, lucida, serrata, efficace, diretta, ironica quanto basta e intercalata da dialoghi in dialetto milanese piacevoli e caratteristici, che fanno vivere perfettamente l’ambientazione, l’epoca dei fatti, le miserie e i tradimenti del dopo boom economico della nostra Italietta.
Questa impeccabile dimensione storico-sociologica, la stessa trama di per sé originale, l’ottima caratterizzazione dei personaggi tutti, e il brillante stile narrativo, collocano l’opera del trio Besola – Ferrari – Gallone fuori dal romanzetto e la fanno meritevole di un posto di considerazione nella moderna narrativa italiana, più che capace di confrontarsi con quella d’oltre oceano, e di fronteggiare a testa alta i colossi dell’editoria commerciale.
recensione di Ivo Tiberio Ginevra

La notte del gatto nero


ANTONIO PAGLIARO
Guanda Editore
Anno 2012
Pag. 207

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

La notte del gatto nero è un grande romanzo senza il bene e senza eroi, scritto da un narratore con linguaggio lucido e universale. Uno scrittore davvero bravo.
 
Avviso che questa recensione contiene spoiler e soprattutto l’esortazione a leggere questo buon romanzo italiano, a mio parere fra i migliori pubblicati negli ultimi due, tre anni e allora…
In realtà Le notti sono due.
La prima cambia radicalmente la vita.
Palermo. È notte fonda in casa del professor Giovanni Ribaudo quando squilla il telefono. Sono le tre. Una donna dall’altro capo dell’apparecchio cerca suo figlio. Giovanni, ancora addormentato va in camera di Salvatore. Non lo trova. Non è ancora rincasato. Non si preoccupa. Anche Vera, sua moglie, non si allarma. È normale per un ragazzo di vent’anni, pensano. Ma Salvatore quella notte non tornerà, e neanche l’indomani. Non tornerà più. È in carcere per detenzione di un ingente quantitativo di droga. La famiglia Ribaudo, una famiglia “normale” come ce ne sono tante è stravolta. Però non è tutto. Salvatore è anche in possesso di materiale pedopornografico. In una famiglia “normale” è cresciuto un mostro. Lo sdegno del padre è immenso. La madre tace. 
Il dramma interiore di Giovanni Ribaudo è profondo, ma lui è una persona corretta, moralmente irreprensibile e soprattutto fiduciosa nelle istituzioni, quindi non può far altro che lasciare il figlio Salvatore al suo meritato destino di malvivente. Ma dopo un iniziale smarrimento pieno di sconforto, incredulità, sdegno e infinita tristezza, la voce del sangue prevale, così come la voce della ragione, perché non può essere che un mostro di tal fatta sia cresciuto in quella famiglia “normale” con una madre cattolica praticante e un padre professore di liceo, stimato e integerrimo.
È tutto incomprensibile ma Giovanni dopo avere metabolizzato il fatto si convince dell’innocenza del figlio. Lui e sua moglie non possono aver cresciuto un mostro. Intanto la vita del Professor Ribaldo oramai incanalata in un tunnel nero, si arricchisce del famoso linguaggio “legalese” e al contempo s’impoverisce per l’ingordigia di avvocati e banchieri sempre pronti a lucrare sulle disgrazie altrui. Alla fine ottiene di incontrare suo figlio in carcere.
Salvatore è malconcio. L’hanno preso a botte. Botte da orbi. Prega il padre di tirarlo fuori perché è innocente, ma presto. Presto però. Il ragazzo sa che non c’è tempo da perdere. E, infatti, un giorno a casa Ribaldo arriva la tragica notizia.  Salvatore si è tolto la vita impiccandosi nelle sbarre con un lenzuolo fatto a corda. Non crede sia possibile che il figlio si sia tolto la vita, ma lui, Giovanni ha fiducia nella giustizia. È un uomo retto lui. Sa che ci vorrà del tempo perché è una macchina lenta, ma alla fine tutto seguirà il suo naturale corso. Lui ha una fiducia incrollabile nella giustizia e nella legalità. Nel frattempo la vita del nucleo familiare si stravolge ancora di più, perché Vera, sua moglie, trova conforto nella fede e, lui, dopo essersi prosciugato economicamente, è in procinto di perdere anche il lavoro. La sua fede è nell’innocenza di Giovanni. La fede civile: quella nella giustizia statale con la “G” maiuscola, inizia a vacillare.
La seconda notte cambia ancora radicalmente.
Siamo sempre a Palermo. In un pub, "Il Gatto nero”. Giovanni è disperato. Beve. Perché oramai Giovanni beve. È con il bicchiere in mano quando incontra Tony, un suo vecchio amico di gioventù. Una frequentazione di quelle pericolose. Tony è un criminale. Lo è sempre stato, ma ora lo è di più. Ora è un mafioso, “di quelli giusti”. È una frase di Tony che gli fa cambiare ancora tutto: “Giovà, vuoi sapere qual è l’unico modo per avere giustizia? Ci devi pensare da solo”.
Detto da un mafioso è lampante il perché. Giustizia privata. Anzi, una sola parola: VENDETTA! D’altronde, non era forse il Levitico dell’Antico Testamento del VI-V sec. A.C. a citare che: “Se uno farà una lesione al prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro” e anche se ricorrere al male è sempre sbagliato cosa si deve fare quando non c’è la giustizia o la stessa giustizia è marcia con tutte le sue istituzioni? Anche se le vendette giuste non esistono (Chervantes nel Don Chisciotte), con l’avanzare dell’età, ci si rende conto che la vendetta è ancora la più sicura forma di giustizia (Henry Becque). Giovanni di sicuro non avrà filosofeggiato su questi concetti, ma è altrettanto sicuro che il dolore irreparabile per la perdita del suo unico figlio, dopo averlo frustrato nelle fauci di una tristezza infinita, sola e senza speranza, si sia trasformato in incubo sordo e poi in rabbia sempre più forte fino a desiderare la vendetta come unico scopo di vita, perché così e solo così, può essere fatta giustizia. Così possono pagare i suoi assassini.
Il suo mondo etico è crollato. La sua salda morale è andata a farsi fottere perché la sua certezza nella giustizia dello stato; quella giustizia insegnata, desiderata, voluta e pretesa, è solo una grande illusione e in ogni caso, se c’è, a lui non spetta! E se lo stato non è in grado, di garantirgliela allora l’alternativa è l’antistato. La mafia. E sarà proprio questa a dargliela, anche se nei fatti cosa nostra ha un ruolo marginale, così come la stessa città di Palermo, per niente invasiva, senza i suoi luoghi comuni e le ossessive indicazioni stradali di vie, piazze, ponti e fontane che massacrano il lettore con percorsi obbligati di cui non gliene frega niente.
Una volta ottenuta la sua vendetta, Giovanni è assalito dalla tristezza. È morso, inaridito, dilaniato, da un’infelicità immensa che ha occupato il posto vuoto della voglia di vendetta e da quel momento la vita riprende il suo corso, ma a lui non interessa più niente e così, fino all’epilogo inaspettato della storia.
La notte del gatto nero è un romanzo ben congegnato, convincente in ogni sua parte, pieno di contenuti e riflessioni su alcuni aspetti estremi della nostra Giusta Società amministrata dai forti poteri statali, come Magistrati, Pubblici Ministeri, Tribunali, Poliziotti, Carceri, che non proteggono i diritti individuali anche all’interno delle stesse istituzioni e strutture del garantismo statale. I tristi casi di Cucchi, Uva, Aldrovandi sono purtroppo la brutta conferma di una giustizia forte con i deboli e al contempo asservita ai forti.
Antonio Pagliaro con lo stile dei grandi narratori che riescono a scandagliare l’animo umano narra semplicemente di cose “anormali” che potrebbero colpire una qualunque famiglia “normale”. Narra di cose “anormali” come il male assoluto che da un momento all’altro potrebbe distruggere ogni tuo sentimento, ogni tua granitica certezza, perché esso esiste ed è appostato dietro l’angolo. Da grande scrittore dipinge con maestria l’escalation psicologica di fatti e personaggi restando sempre un passo indietro; facendo parlare solo i protagonisti, con le loro vicende, il loro dolore, le loro scelte. Pagliaro, senza mai sposare il racconto, stravolge con disinvoltura le certezze che certezze dovrebbero essere e non lo sono. Nel suo romanzo non c’è il politicamente corretto, o il lieto fine d’obbligo, o la giusta morale. C’è la fotografia di una certa Italia che non ci piace vedere, narrata con una prosa secca, tagliente e lucida; fatta da brevi frasi, brevi periodi, dialoghi serrati e verosimili, restando sempre fuori dalla scena. Senza mai criticare, o schierarsi, o ironizzare. Senza essere buonista, possibilista, moralista o assolutista. L’unico intento di Antonio Pagliaro è stato quello di dare al lettore, ogni elemento utile per entrare nella storia, appiccicarsela addosso come propria e verosimile, coinvolgerlo negli eventi e stimolarlo alla riflessione senza dare mai il proprio pensiero, perché lo scrittore, anche se presente in ogni passo dell’opera, non si coinvolge nel romanzo parteggiando con i propri convincimenti. Questi sono dei lettori e sono personali, Pagliaro ha dato con precisa maestria tutti quegli input necessari per una riflessione sulla “giustizia”, perché il narrato è chiaro e si commenta da solo, e come i grandi romanzieri ha scritto togliendo il fiato e senza lasciare nulla al caso.
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra

L'ultima esecuzione


ROBERTO GANDUS
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013
Pag. 139

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Questo Romanzo ha due grandi protagonisti: La miseria e l’innocenza, e inoltre fornisce lo stimolo per una riflessione sul tema sempre attuale dell’istituto della pena di morte.
La prima protagonista, la miseria, è strettamente legata alla storia che si svolge nel 1945 a Villarbasse, un piccolo paese in provincia di Torino, proprio all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, scelto dall’autore quale specchio fedele di un’Italia uscita in ginocchio e malconcia dal conflitto bellico. Un’Italia bisognevole di tutto e, in particolare, dei cosiddetti “Bisogni primari” che arrivano anche a decuplicarsi nelle zone rurali, storicamente depresse al sud come al nord del paese. Bisogni essenziali, dunque, che scandiscono i ritmi della sopravvivenza stessa d’intere comunità contadine. Bisogni basilari, forse oggi desueti, come pane e lavoro, ma fondamentali per uscire dalla miseria in una nazione ancora governata dal patriarcato e dai pregiudizi. La famiglia degli Odasso di Villarbasse, protagonista del romanzo ad iniziare dal suo patriarca, racchiude in sé tutte le caratteristiche socio-ambientali e psicologiche sopra spiegate che sono il teatro dove Roberto Gandus ambienta il suo romanzo, riuscendo a rappresentarle così bene e ad incollarle addosso al lettore, soffocandolo con quella aria di miseria e di rassegnata devastante desolazione, fino a dare l’impressione di sentire con mano il degrado morale e culturale che non è solo di Villarbasse, o di un pezzo di Piemonte, ma storicamente è di tutta un’Italia contadina, unita e cementata dalla miseria. Una miseria senza speranza, grottesca e realistica al tempo stesso, dalle antiche pulsioni Verghiane.
Miseria, dunque, contrapposta all’altra protagonista del romanzo: L’innocenza. Innocenza nella sua più grande accezione del termine e violata senza alcuno scrupolo, sia se questa è fresca e pura come quella di una giovinetta, o libera di spirito come quella di una madre, o peggio ancora inconsapevole come quella di un ragazzo malato di mente. In questo climax perfetto, Gandus costruisce personaggi psicologicamente compiuti e in piena sintonia con il luogo, il contesto storico e il degrado culturale, giocando molto su figure contrapposte, opponendo personaggi, gretti, meschini e bigotti a personaggi, semplici, sinceri e soprattutto puri. Dove, sotto la brace di pulsioni ancestrali e ataviche cova una violenza sorda alimentata dalla miseria umana. Il risultato finale è indubbiamente ottimo.
Infine la condanna a morte di un innocente innesca la riflessione sull’opportunità o meno della pena capitale in tema di grandi delitti. Considerazione lasciata al libero discernimento del lettore, perché Roberto Gandus fornisce solo i giusti stimoli per un dibattito, narrando con distacco sempre scevro da un suo qualsiasi pensiero, soprattutto innanzi alla possibilità, seppur remota, di essere applicata su un innocente. In genere questo lo fanno il grandi narratori.
Concludendo, ed a mio avviso, “L’ultima esecuzione” è un gran bel romanzo che gode di una perfetta ambientazione storico culturale e di un altrettanto perfetta costruzione psicologica dei suoi personaggi, in grado di sollevare discussioni su tematiche sempre attuali.