venerdì 30 novembre 2012

L'Ammazzatore



L'AMMAZZATORE
Autore: Palazzolo Rosario
Editore Perdisa Pop (collana Babelesuite)
Anno:  2007
Pag. 111

TRAMA: "Certuni coi baffi dicono che da ammazzatore ad assassino il passo è breve, dicono che quando succede, la faccia si fa d'improvviso una maschera stipata di rughe e che se uno non ci sta attento, se non se la fida a distinguere, si ritrova con la coscienza nera come alla pece e non ci dorme la notte, loro che c'hanno i baffi dicono così e ci devo credere. Io, secondo me, penso che la stessa cosa precisa può capitare pure ai dottori, o a quelli che guidano gli aerei, mettiamo". Ci sono uomini costretti a vivere una vita che non gli appartiene, per scelte che non hanno fatto, per idee che non condividono. Ernesto Scossa, il protagonista de "L'ammazzatore", è uno di questi. Nato in una Palermo che non concede vie d'uscita, si trova a dover uccidere per mestiere, fino a quando la consapevolezza di una scelta non gli concederà un vago spiraglio di luce. E farà ciò che c'è da fare, costi quel che costi

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su thrillerpages.blogspot.com

Un buon libro non ha età e lo scorrere degli anni lo fa diventare ancora più buono. È un po’ come il vino, cambia solo il suo alloggio da botte di rovere a ripiano di una libreria, ma il sapore, quello di una buona bevuta, resta, eccome se resta.

Palazzolo a me fa quest’effetto. Ubriacante. Cento e rotti pagine di un vino d’annata rosso dal sapore corposo e complesso. Rosso, perché nelle sue storie c’è sempre il sangue, complesso perché evoca sapori dalle pulsioni ancestrali, corposo perché non può prescindere da un contesto sociale che si appiccica alla pelle diventando una sola unica cosa con il lettore.

Ne L’ammazzatore, così come nelle altre opere di Palazzolo, la prima cosa che colpisce è lo stile più che innovativo e personale del linguaggio, fatto da un uso scorretto della punteggiatura e delle maiuscole, al quale si devono sommare lunghi periodi che contengono spesso errori di sintassi o di grammatica. Non è un rimprovero, ma un paradossale complimento, perché con questo sgangherato modo di esprimersi ci si addentra all’interno della storia come se fosse stata scritta e narrata dal suo stesso protagonista. Rosario Palazzolo, lo scrittore, non interviene. È assente. È solo il suo personaggio che scrive, quindi c’è il libero sfogo ai suoi contorti pensieri trasmessi così come vengono, senza un rigore letterario. L’effetto, mi si consenta il termine meraviglioso, è quello di coinvolgere il lettore non solo nell’incedere in una lettura ricca di primordiale musicalità, ma di trascinarlo nell’intero mondo del protagonista incollandoti addosso i suoi luoghi e le sue cose. Pure i pensieri intimi e pensieri neanche pensati. Pure la miseria senza riscatto. È solo grazie a questo linguaggio colloquiale di un io narrante sgrammaticato e senza filtri che tutto prende un senso e diventa materia plasmata.

La storia è semplice. Ernesto Scossa è un giovane palermitano del popolare quartiere di Brancaccio. Ernesto ha addosso il degrado sociale e culturale della sua città. Non ha speranza, volontà e forza di uscire da questo ambiente, che accetta con disarmante ineluttabilità. Senza volere, sperare o semplicemente pensare ad un riscatto. Riscatto che gli è negato “a prescindere” da “u Ziu”. Dal potere mafioso. Quello terreno, che comanda e decide vite e destini degli uomini, come se fossero pertinenze del quartiere. Come oggetti che gli appartengono. È proprio “u Ziu” che lo vuole killer alle sue dipendenze. Per certuni un onore, per altri una maledizione, per Ernesto Scossa solo un lavoro da fare senza chiedersi il perché. E Scossa è bravo. Fa bene il suo lavoro. “u Ziu” è contento e inizia ad avere progetti migliori su lui, finché il meccanismo di ammazzare senza un perché si blocca in modo imprevisto e nell’unico possibile. Scossa s’innamora della sua vittima. Il finale è chiaro perché è scritto fin dall’inizio. Lo dice proprio Ernesto Scossa, L’Ammazzatore: “quando sono morto io si fece festa, una festa stramba e inutile, ridicola come le cose ridicole, una festa che ognuno se ne stava a casa propria a gioire in silenzio, una festa senza brindo, senza mani strette e sorrisi aperti, una festa muta, una festa che se mettiamo uno sarebbe passato di là non se ne accorgeva che c’era questa festa, era una festa a minchia, una festa senza cerimonie, una festa guasta….” Nonostante si conosce bene l’esito della storia, il finale è singolare e spiazzante, perché, ovviamente, “u Ziu” non gradisce l’alzata di testa e L’Ammazzatore muore ucciso dalla sua stessa coscienza e da quello che ha imparato nel suo essere L’Ammazzatore.

Tutto qua. Poca cosa. Il problema è che Palazzolo concentra in 111 pagine una quantità tale di riflessioni e contenuti da mandare in tilt anche il più incallito dei critici. Fare una sintesi, o peggio, esprimere, o peggio ancora, commentare le sue opere è una cosa che può e si deve lasciare soltanto ai professionisti, ai così chiamati addetti ai lavori. Io accecato dalla sua Arte posso dire solo poco e solo bene. Certo ho ben compreso il perché del titolo “L’Ammazzatore” e non “Il killer” o altro, e questo perché L’Ammazzatore è uno che semplicemente esegue. Non è un assassino che uccide. C’è una profonda differenza fra chi uccide senza chiedersi un perché, proprio perché rientra nel concetto di normalità e chi lo fa per una qualsiasi ragione. Uno ammazza, l’altro uccide. E non c’è neanche il classico rapporto fra causa ed effetto. C’è solo l’effetto. La morte. Se poi si deve proprio cercare una causa, allora questa non sta dentro Ernesto Scossa, ma solo dentro al concetto di materiale degrado socio culturale dove il protagonista è nato, vissuto e morto. Un ambiente dove la criminalità adesca, plagia o schiavizza i ragazzi facendoli crescere nel mito della delinquenza stessa. Un contesto mafioso, senza essere mai nominato anche una sola volta dallo scrittore, ma a ben guardare, quella di Scossa non è neanche una storia di mafia. È una storia di potere a prescindere dalla sua stessa matrice mafiosa. E a ben guardare non è neanche un potere, ma Il Potere, quello vero. Quello della spersonalizzazione dell’individualità ed a L’Ammazzatore, infatti, è anche negata la libertà, o meglio la stessa scelta di uccidere, perché è vittima lui stesso.

Adesso a Rosario mi rivolgo. Ora, tu che sei anche, attore regista e sovrintendi una compagnia teatrale, ascolta il mio desiderio: metti in scena L’Ammazzatore. È un testo che merita molto. Ne vale proprio la pena. È difficile, lo so bene, ma un personaggio come Ernesto Scossa credo proprio che ha diritto ad una sua vita sulle tavole di un palcoscenico pieno di Occhi, Baffi e Santa Rosalia.
Recensione a cura di Ivo Tiberio Ginevra

ROSARIO PALAZZOLO

È nato a Palermo, nel '72.
È drammaturgo, scrittore, regista e attore.
Nel 2002 ha fondato - con Anton Giulio Pandolfo - la Compagnia del Tratto, associazione che si occupa di nuove drammaturgie.
Per il teatro ha scritto: Ciò che accadde all'improvviso, I tempi stanno per cambiare (con Luigi Bernardi), Ouminicch', 'A Cirimonia, Manichìni.
E per la narrativa: L'ammazzatore (Perdisa Pop, 2007) e Concetto al buio (Perdisa Pop, 2010).
Solitamente, fa il regista di ciò che scrive.
E - quando non può farne a meno - l'attore.

martedì 20 novembre 2012

Il castigo di Attila


Autore: Paolo Foschi
Editore: E/O
Anno : 2012
Pag. 150

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
Gran bella scoperta, il commissario Ivan Attila, della sezione Crimini Sportivi sezione di Roma. Gran bella trovata. Un commissario che indaga su crimini legati al mondo dello sport, con una squadra composta da ex atleti “falliti” a partire da Attila stesso ex pugile, medaglia d’argento alle olimpiadi di Seul. Di questa squadra fanno parte Lillo Santoni, in arte fantino perché proveniente dal mondo dell’ippica e incappato in un giro di scommesse clandestine, Checco Rossi, il ciclista detto Farmacista con una brutta storia di doping alle spalle, e poi ancora Luchino de Medicei, il conte, ex tennista e Palmiro Giovannelli, Fiocco di neve, proveniente dal basket. Su tutti domina la figura del commissario Ivan Attila, ben caratterizzato da Paolo Foschi in sole 150 pagine circa di buona tensione investigativa.

Il commissario restò in silenzio. Sembrava la scena di un film. L’aria era carica di tensione e di attesa. Igor Attila socchiuse gli occhi. Si sentiva un po’ come Re Artù davanti ai suoi impavidi cavalieri. Gli eroici Cavalieri della Tavola Ikea.
“Le vacanze sono finite”.
Pausa.
I quattro poliziotti della squadra rimasero in silenzio.
Igor Attila non voleva creare suspense. Ma le parole proprio non riuscivano a venir fuori. Era ancora sconvolto per l’sms ricevuto la sera prima.
Non cercarmi più. Ho un altro. E sono felice. Cerca di rispettarmi almeno adesso.
Un colpo al cuore quelle parole.
Doveva immaginarlo e chissà da quanto tempo andava avanti questa storia. Forse anche prima che…
Sbattè con forza il pugno sul tavolo….

L’indagine lo vede alle prese con l’omicidio del portiere Rocco Graziano della Roma calcio, all’indomani della vittoria della squadra in Champions League, la più importante delle competizioni calcistiche per club. Tre colpi di pistola, per stroncare la vita di una giovane promessa dello sport italiano. Le indagini prendono piste diverse perché fin da subito si scopre che Rocco Graziano ha una doppia vita e molte possono essere le persone che hanno dei buoni motivi per ucciderlo in un mix di sporca politica, camorra, mondo dello spettacolo e storie sentimentali. Alla fine il commissario Attila verrà a capo di tutto donando al lettore una conclusione di Umana e Personale giustizia.

La personalità di Ivan Attila domina la storia, rispettando sempre la sua ambientazione romana che fa da sfondo alla vicenda senza massacrare il lettore con riferimenti di vie, luoghi, spazi ecc. Una Roma presente, ma non invadente, come la vita sentimentale del protagonista sempre viva e sempre relegata ai margini dell’indagine. I pensieri di Attila non sono mai espressi a parole, vivono nei suoi comportamenti e soprattutto nell’ossessivo rapporto con il corpo e la continua voglia di superarsi nella fatica e nell’esercizio fisico. Mentalità vincente la sua. Fatta di sacrificio, tenacia e tanta musica per vincere la rabbia:

Fu costretto ad attendere ancora un po’. Era nervoso. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Non si era sentito così emozionato nemmeno ai tempi delle olimpiadi. Adesso però era tutto diverso. All’epoca era pieno di sogni e speranze. Ora invece era pieno di rabbia.

Rabbia che sfoga con pericolose corse in moto e allenamenti ai limiti del collasso. Rabbia che cela un personaggio complesso:

La morte lo aveva proiettato al centro di un vortice. Era giustizia o vendetta quella che andava cercando? Forse era ancora in tempo per fermarsi.
Voglio ringraziare Paolo Foschi, scrittore, per aver creato un personaggio come il commissario Igor Attila completo e perfetto. Ironico e profondo. Malinconico al punto giusto e sbirro, anche se, asservito ad una giustizia non del tutto legale, ma indubbiamente giusta e condivisibile.

Una chicca Paolo Foschi la riserva al Sommo Maestro: “… Ma, dico, è impazzito dalla sera alla mattina? E perché non mi ha informato prima? Che si è messo in testa? Si crede di essere Montalbano? Qui non siamo in una fiction o in un romanzo di quattro soldi…”.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra



martedì 6 novembre 2012

Il fiuto dello squalo


Autore: Gianni Solla

Editore: Marsilio

Anno: 2012

Pag: 297

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

Sergio Scozzacane è un manager discografico, conosciuto nell’ambiente napoletano con il soprannome di “Squalo”. L’ingiuria la prende fin dalla nascita. È suo padre a dargliela. Ha una pinna al posto del naso. Da allora è sempre stato “lo Squalo” per tutti.

La prima volta che mio padre mi ha chiamato Squalo avevo tre settimane. Mi teneva avvolto in un plaid marrone a pochi centimetri dalla stufa a cherosene che accendeva bruciando un foglio di giornale infilato nel buco del serbatoio. Aveva paura: adesso che ero nato, era davvero costretto a tornare nel letto di mia madre tutte le notti? Continuava a guardarmi attraverso gli occhiali a goccia e non si spiegava quella cosa misteriosa che avevo sulla faccia.Mi chiamò squalo perché aveva il piacere che avessi il nome di una pianta carnivora o di un predatore. Doveva farlo sentire meno responsabile. Se ero nato con quella pinna al posto del naso, c’era da aspettarsi che mi sarebbero comparse le branchie e in bocca un centinaio di denti triangolari. Era convinto che per ognuno di noi esistesse un solo nome possibile, e lui aveva trovato il mio.
Quarant’anni dopo, sul mio biglietto da visita c’è scritto LO SQUALO.

Lo Squalo è un fallito. Uno spiantato. Uno che nella vita non ha combinato niente e niente ha capito della vita. Si è solo barcamenato nei vicoli di Napoli, vivendo alla giornata con un lavoro ereditato dal padre e da lui distrutto per la sua innata mancanza di fiuto negli affari. Ha una marea di debiti, di quelli grossi, ed è stato così pirla da averli contratti con la camorra; e con la camorra non si scherza. O paghi o muori.

“Ti devo tagliare un dito”… “ Parliamo seriamente, questa cosa fa schifo pure a me, mi sporco il vestito di sangue e mi tocca sentirti piangere, ma è lavoro, non posso affezionarmi ai miei clienti, quindi di meno parliamo meglio è. Lo dico anche per te, conserva le forze per guidare. Però mi hanno detto di farti scegliere quale dito vuoi che ti venga tagliato e non mi sembra poco”.
“Hai capito che devi scegliere un dito?”
“Se mi tagli il dito dopo devo pagare comunque oppure siamo pari?”
Quello si avvicina e mi da uno schiaffo. In realtà appoggia la sua mano carnosa e mi stringe la faccia, ma l’effetto è quello di uno schiaffo. Sento le guance comprimersi e un po’ di sangue in bocca.
“ Che ce ne facciamo del tuo dito. È un avvertimento, devi pagare, oggi ti tagliamo il dito, dopo ti ammazziamo è una specie di anticipo sulla tua morte”.

E proprio quando Lo Squalo ha progettato la sua uscita di scena, ecco che fiuta il primo vero affare della sua vita. L’affare si chiama Mattia. Un giovane cantante vincitore di un talent show televisivo e, ancora per due mesi,sotto contratto con la sua agenzia. Scozzacane, si getta a capofitto nell’avventura di portare il cantante della sua scalcinata casa discografica al festival di Sanremo, così con gli introiti potrà saldare i debiti, rifarsi una vita e magari uscire dal giogo della sua stupida esistenza. C’è anche un momento dove tutto sembra che si stia mettendo per il meglio, c’è pure una splendida ragazza innamorata di lui, ma poi ogni cosa ricomincia a girare male. A vuoto e stavolta Lo Squalo deve per forza uscire di scena se vuole vivere. Allora decide di andar via, ma alla grande, quindi progetta un finale inaspettato, struggente e senza dubbio geniale. Una soluzione ingegnosa che a ben vedere è l’unica possibile per uno squalo palombo.

Gianni Solla con scrittura leggera e incalzante, ma al contempo ironica, patetica, vivace e realistica, affresca il dramma del fallimento dell’essere umano e della sua incapacità di sottrarsi al proprio disastroso destino già segnato dalla nascita, donandoci un personaggio nuovo e indimenticabile nel moderno panorama letterario italiano: Sergio Scozzacane, Lo Squalo

La narrazione in prima persona procede sciolta e intrigante fin dalle prime pagine, captando l’attenzione del lettore su Lo Squalo, protagonista indiscusso di questo romanzo e dello spirito partenopeo dell’arrangiarsi indolente attraverso le continue vicissitudini con il suo carico d’amarezza per una vita spesa dietro al sogno di emergere dallo squallore dei rioni di una Napoli insensibile, che brama denaro e successo. Vittima e carnefice al tempo stesso delle esistenze che la compongono.

Nel romanzo ci sono anche altre figure minori tutte ben caratterizzate e perfette nel contesto dell’opera. Ognuna vuole qualcosa che cerca e non trova o che non cerca più. A Marcello Santamaria, boss della camorra, vero squalo di tutta la storia, manca il successo; a Teresa, sensibile, devota e sottovalutata collaboratrice dello Squalo manca l’amore; a Luisa, con la sua vita buttata in un triste hotel della vicina Sanremo manca qualsiasi possibilità di riscatto, e poi soprattutto c’è Sofia, bellissima, intelligente, sofisticata, forte, sensibile e innamorata di un fallito come Sergio Scozzacane. Una donna, alla quale manca molto in termini di salute (è cieca), e che al fianco dello Squalo, non fa altro che amplificare la natura drammatica del fallimento generale, togliendogli pure l’intimità della solitudine.

In conclusione fra sesso veloce consumato con indifferenza in luridi postacci, cantanti neomelodici napoletani allucinati dalla ricerca del successo, malavitosi e falliti vari, Lo Squalo è una figura vincente perché vive la sua esistenza in un mondo sbagliato e la saprà riscattare alla fine di un percorso d’autodistruzione personale.

“Cerchiamo di capirci, se hai una pinna di squalo sulla faccia allora diventi carnivoro”.

Il libro di Giovanni Solla è un gran bel libro che si fa amare per l’unicità del suo protagonista, Sergio Scozzacane detto Lo Squalo.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra