martedì 25 marzo 2014

S'i fosse Rosario Palazzolo

 
Intervista a Rosario Palazzolo
di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
 
Ritengo che intervistare Rosario Palazzolo sia una cosa particolarmente complessa, perché complesso è l’uomo con tutta la sua opera letteraria (L’ammazzatoreConcetto al buioCattiverìa pubblicati tutti con Perdisa Pop) e la sua opera teatrale di attore, regista e drammaturgo (I tempi stanno per cambiare – “Trilugia dell'impossibilità Ouminicch'  'A CirimoniaLetizia forever e Dittico Del DisincantoVisita guidata e Tauromachia).
Ma io che lo conosco e posso parlare di lui, dico che è una persona brava, stramba e generosa. E in ogni caso è un uomo geniale. E a una persona così, che intervista si può mai fare? Una di quelle classiche sui suoi libri? Una di quelle stupide sui suoi gusti? Oppure una a metà fra le due e chiedergli pure alla fine che cosa farà, o quali sono i suoi progetti futuri ecc. ecc.. No! A Rosario Palazzolo facciamo solo un’intervista singolare, perché Lui, da Singolare, sa bene cosa rispondere, così conoscete meglio l’uomo e il genio.
E mi permetto pure di far incavolare Cecco Angiolieri massacrandogli la sua S'i fosse foco
D - S'i fosse foco?
RDirei cose infuocate, sempre, e con una lingua assai biforcuta, pure, e smetterei di starmene per i fatti miei e soprattutto smetterei di dirmi che in fondo stare per i fatti miei è la cosa che preferisco ché in realtà non la preferisco proprio, come cosa, o perlomeno non più e non meno delle altre cose che preferisco ché se proprio dovessi ammetterlo direi che di cose che preferisco ce ne sono parecchie ma da un po’ è come se tutti pensassero che mi piace stare per i fatti miei e Lasciatelo perdere quello, dicono, Perché è uno a cui piace stare per i fatti suoi, e invece, se fossi fuoco, ecco se fossi fuoco, mi piacerebbe starmene a lungo nei fatti degli altri, e bruciare tutte le idiozie dei fatti degli altri, specie di alcuni altri, i quali vivono come se la vita li riguardasse più di ogni altro e politicano e s’azzuffano e sermonano e se è il caso urlano che il mondo non li vuole ché il mondo è troppo cattivo, il mondo, e non li accetta così come sono e invece il mio fuoco li farebbe proprio così come sono, niente.
D - S'i fosse vento
R – Volerei da tutte le parti e guarderei da tutte le parti, in tutte le parti di tutte le parti, e in tutte le parti, certamente, scorgerei qualcosa d’interessante e di nuovo ma pure di vecchio, soprattutto di vecchio, scorgerei, quasi da tutte le parti, e perciò mi convincerei che in fondo volare da tutte le parti non è poi quella gran cosa che ci figuriamo quando sospiriamo Oh se potessi volare da tutte le parti, e che volare da tutte le parti non è altro che volare da tutte le parti, mi direi, solo una risposta banale alla necessità che proviamo di volare da qualche altra parte, una necessità definita, voglio dire, che immediatamente ingigantiamo perché è l’indefinito il luogo che davvero agogniamo, il maledetto luogo agognato, ecco perché è da un po’ che tengo le finestre chiuse, io.
D - S'i fosse acqua?
R – Mi racchiuderei, mi delimiterei, mi farei acquitrino o stagno al massimo palude ché se uno è acqua mica può urlare al mondo intero Io sono acqua, e fare le cose tipiche da acqua come esondare e distruggere ché la natura già ti ha fatto acqua e questo dovrebbe bastarti e avresti solo l’obbligo di ringraziare la natura che ti ha fatto acqua, e per niente al mondo dovresti permetterti tutta la tracotanza tipica dell’acqua come esondare e distruggere, anche perché già ce ne stanno parecchi che pur non essendo acqua lo stesso esondano e distruggono e si comportano da acqua e sussurrano Io sono acqua con una supponenza talmente ruffiana e una ostentazione talmente volgare e una ritrosia talmente sciocca che a te che non sei acqua ti viene voglia di deumidificarti continuamente, per precauzione.
D - S'i fosse Dio?
R – Godrei moltissimo nel moltiplicare i pani e i pesci e i vini e amerei soltanto le moltiplicazioni e sopprimerei le divisioni e le addizioni e le sottrazioni perché non servono un granché a volerci riflettere nella vita di un dio ché nessuno s’impressiona col due più due oggidì, e me ne starei seduto a sghignazzare delle reazioni umane ché farei piangere tutte le madonne, ridere i cherubini e dall’alto dei cieli tuonerei una volta ogni tanto In verità in verità vi dico e sarei un professionista dell’invenzione, creando sempre frasi molto sibilline e fulminerei a campione l’umanità un poco qui e un poco là come una sorta di tiro a segno ché oggi morirebbe un buono e domani un cattivo o viceversa, stando attento a non fornire elementi per eventuali misurazioni morali perché in definitiva sarebbero ugualmente tutti buoni e tutti cattivi, per me, gli uomini, e perfino i cattivissimi e i buonissimi non sarebbero differenti davanti ai miei occhi, che poi sarebbe grazioso averceli, gli occhi, ora che ci penso, se fossi dio.
D - S'i fosse papa?
RMi abolirei.
D - S'i fosse imperator?
R – Farei sempre la guerra, solo la guerra, e direi al popolo Popolo occorre amare la guerra, e il popolo amerebbe la guerra, sicuramente, ché solitamente il popolo ama la guerra, sempre, anche se urla pubblicamente Io odio la guerra, lui, il popolo, la ama, forse perché è l’unico modo, la guerra, per essere popolo fino in fondo, veramente, testa e piedi, e difatti quando non c’è una guerra il popolo non fa per niente il popolo o almeno fa il popolo come se non esistesse alcuna popolazione e pensa a se stesso come se fosse il solo essere in vita, come se fosse il popolo di se stesso, come se la sua casa fosse l’unico regno possibile, l’ascensore un luogo per negoziare l’appartenenza a un condominio di cui si è gli unici apportatori di grazia e educazione e intelligenza e Finché ci sono io questo sarà un luogo migliore, difatti, pensa, il popolo individuale, e si batte per tutte le cause che lo riguardano, e certe volte si spinge persino fuori regno, sentendosi popolo con qualcun altro solo dopo i dovuti accertamenti, e grida e si dimena e piange la disperazione del mancato raggiungimento di un sogno, del mancato appagamento, del mancato riconoscimento, e insomma se ci fate caso il popolo si fa popolo solo quando gli manca qualcosa, e ecco che io, se fossi imperatore, gli darei la guerra, ogni santo giorno, al popolo, solo per il suo bene, naturalmente.
D -  S'i fosse morte?
RNon mi sentirei morte, a onor del vero, ma ideatrice di stratagemmi, organizzatrice di diversivi, e farei le cose che fa la morte con estrema precisione, scindendo l’etica dall’estetica, e ogni morte sarebbe un artifizio incredibile, porterebbe il segno della mia creatività, e studierei nuovi modi, nuove opportunità, e comprerei molto spesso la settimana enigmistica, probabilmente, leggendo e rileggendo la rubrica “Forse non tutti sanno che” alla ricerca di una qualche ispirazione, e non sarebbero certo i pianti di chi resta a offendermi, ma la mancanza di sportività di chi parte.
D - S'i fosse vita?
RFarei tale e quale alla morte, solo con qualche scongiuro in più.
D – S’i fosse Rosario Palazzolo
R – Direi sì e poi no e poi forse e amerei e odierei alla stessa maniera le stesse persone e non mi sentirei di appartenere a nessun ideale e non tanto per un fatto morale, semplicemente per pigrizia ché appartenere a fatti ideali comporta una fatica e una pazienza e un tradimento che non saprei tollerare, e mi dimenerei soltanto per le cause perse ché tanto sono già perse e non dovrei metterci nulla di mio e per lo più starei zitto e mi occuperei delle cose che più detesto e soffrirei di una gastrite incurabile, perciò, che nessun omeoprazolo potrebbe curare e ogni cosa mi sembrerebbe solo una maledetta perdita di tempo e perderei tutto il mio tempo, dunque, per ogni cosa, ché il tempo è l’unica cosa che ci è dato perdere, tolte le chiavi, e soprattutto, se fossi rosario palazzolo, accetterei di rispondere a interviste come questa, e lo farei di domenica pomeriggio, probabilmente.
Intervista di Ivo Tiberio Ginevra

Il brigante e la mondina

 
UMBERTO DE AGOSTINO
Fratelli Frilli Editori
Anno : 2013
 
Recensione di IVO TIBERIO GINEVRA
Pubblicata su www.thrillercafe.it
 
Giallo storico dal carattere originale al sapore di riso.

 È il 1902. Il brigantaggio è ancora presente in tutta la nostra penisola. Anche la Lomellina non fa eccezione. Uno dei suoi personaggi di spicco è Francesco De Michelis detto “Biundèn”, nato in provincia di Alessandria (Villania Monferrato il 16 marzo 1871) da padre fornaio e madre mondina. È proprio lui, Biundèn, il brigante realmente esistito, che rivive nelle pagine del romanzo di Umberto De Agostino come co-protagonista insieme alla mondina Gina Provera.
Francesco De Michelis inizia giovanissimo una vita di duro lavoro come conduttore di carri, per poi darsi alla macchia a causa di un duplice omicidio che lo vede coinvolto. Successivamente entra a far parte della banda di Luigi Fiando, noto col soprannome “Moretto” diventando il suo braccio destro. Dopo l’uccisione di quest’ultimo, segue la sua condanna all’ergastolo in un processo che lo vede contumace e la fuga in Emilia, per poi tornare nelle sue terre e riprendere il brigantaggio con una nuova banda. Muore nel giugno del 1905, ucciso in un conflitto a fuoco da un carabiniere che non l’aveva riconosciuto come il Biundèn, ma scambiato per un semplice ladruncolo in una cascina in occasione di una festa fra mondine.

 De Michelis, però, non è un bandito nel senso classico del termine. È piuttosto cortese di modi e d’aspetto, anzi bello e vestito elegantemente. Questo gli vale anche il soprannome di Passator delle risaie, ad imitazione del più famoso Passator Cortese dell’Emilia. La sua capacità di saper scappare dagli arresti prendendosi gioco dei carabinieri, contribuisce ancor di più ad accrescere il mito e il suo fascino, che egli sa alimentare amando molto la vita delle grandi città, le feste e soprattutto le belle donne; l’ultima di queste avventure con una giovane mondina, è la cagione della sua morte.
L’altro protagonista del romanzo, così come dice lo stesso titolo, è la mondina, Gina Provera “la pasionaria”, che contrariamente al Biundèn, è un personaggio di fantasia, ma che racchiude in sè tutte le qualità caratteriali della mondina dell’epoca. Testarda, sognatrice, e al contempo rassegnata e guerriera. Gina in poche parole è tutto questo, e anche più. Gina è un capopopolo che odia i padroni e il loro sferzante potere del lavoro che esercitano in modo disumano. Lei, infatti, lavora tutto il giorno, dalle prime luci dell’alba fino al tramonto e senza pause, senza distrazioni. Come un mulo. Come tutte le mondine di allora.
 Entrambi i protagonisti di questo romanzo vivono e operano nelle campagne della Lomellina, tra Novara, Vercelli, Pavia, Robbio, Vigevano; nella cosiddetta Risaia d’Italia proprio nel periodo in cui si costituiscono spontaneamente i primi sindacati dei lavoratori (Federazione Proletaria Lomellina affidata a Pietro Corti). Nascono anche le prime agitazioni sfocianti in scioperi organizzati che, stranamente non repressi dal governo di Giolitti, sono con forza contrastate dai padroni e dai fittabili, e sfociano in una lotta di classe, ben documentata dai primi articoli sul settimanale di Pavia “La plebe”. Sono queste le prime rivendicazioni sindacali dell’epoca e sono ancora uguali allora come adesso: orario di lavoro non eccedente le otto ore lavorative e commisurate al giusto salario; sicurezza sul posto di lavoro (e all’epoca si stava immersi un’intera giornata chinati nell’acqua infestata da sanguisughe, bisce e zanzare).
In quest’ambiente il brigadiere dei carabinieri Angelo Pesenti svolge le sue indagini sull’omicidio del fittabile Pietro Gusmani (fra un movente politico ed uno passionale) che involontariamente lo porterà sulle tracce dell’odiato Biundèn.
La bellezza di questo libro è tutta nell’accurata ricostruzione di questo clima politico, rurale, tradizionale, impastato da un folklore vivo e quotidiano, ben reso dalla parlata dialettale o dalle canzoni delle mondine che facilitano ancor di più il lettore a compenetrarsi nel periodo storico ed a comprendere le stesse vicende dei protagonisti.
A Umberto De
Agostino va il plauso per questa precisa ricostruzione storica che è un incontrovertibile atto d’amore al suo territorio, nonché il merito di aver saputo miscelare alla perfezione fantasia e realtà, trasportando il lettore in un perfetto clima noir dal sapore rurale.

IL gioco delle sette pietre

ALBERTO MINNELLA
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

“I lividi hanno una memoria tutta loro, pensò Portanova”Da Siracusa si affaccia sul panorama giallistico italiano il commissario di PS Paolo Portanova. Il suo Demiurgo è Alberto Minnella, classe ’85, siciliano di Agrigento e giovane, anzi, straordinariamente giovane per aver scritto un romanzo così ricco di personalità da lasciare  meravigliato il lettore sia per la padronanza del linguaggio, sia per l’originale costruzione stilistica della storia, sia per la profonda caratterizzazione del personaggio di Paolo Portanova e del luogo dove è ambientato  il romanzo: Siracusa.
La città Aretusea, insieme al commissario Portanova è la coprotagonista di questa breve opera narrativa. Indubbiamente amata alla follia dal Minnella è sempre partecipe in ogni momento dell’azione, a volte come una bella donna matura, o ricca, ora piena di fascino o selvaggia, malinconica compagna sempre dotata di una personalità meditabonda dalle mille sfaccettature ereditate in millenni di storia e tutte riflesse su Paolo Portanova, siciliano da sempre, nel midollo, nel capello, nel pensiero, nell’anima. In tutto.
L’inizio del romanzo è lento. È dovutamente lento, perché solo in questo modo Siracusa e il suo commissario possono entrare nel corpo del lettore e incuriosire al prosieguo di una storia senza cadavere, ma con un mare di sangue, in una notte piovosa di capodanno, in un susseguirsi di facce allegre, facce assassine, facce innamorate e belle. Brutte facce e doppie facce. Facce invisibili che sparano. Che ammazzano.

Una vita ricca di routine quella di Portanova. Abitudini coprenti atte a scandire i ritmi di una esistenza monotona, nei rapporti, nei sentimenti, nel mangiare, nelle pietre. Nel tempo. Routine consumata oramai solennemente con il sigaro nella mano destra, o nell’attesa della nuova pietanza del giorno, ma tutto sempre in un pugno. Nei pugni serrati dentro le tasche. Impotenza e routine anche questa. Malinconia di gesti in fugaci pensieri armonici con il luogo e con il tempo. Tempo variabile, tempo cattivo. Cattivo tempo, come cattiva è questa storia. Intrisa di pioggia e sangue. Di pensieri e azioni che vengono giù come l’acqua di un temporale pronta a lavare via tutto. Ma è pioggia amara che ingoia ogni cosa. Gesti e pensieri. Abitudini e speranze. Sangue. Finché l’azione giunge all’apice di una storia intricata e nera. Oppressa dal cielo nero, carico e denso. Una cappa che incombe e scoppia in acqua di sangue. Sangue improvviso che sveglia, sgorga, pulsa. Travolge e stravolge, uomini e cose, fino a quando ogni cosa, ogni pietra non verrà lestamente rimessa a posto su una colonna traballante, ma che darà significato a tutto, al suo inizio lento, al suo flash-forward, alla stessa citazione del Levitano di Hobbes Auctoritas non veritas facit legem (l’autorità non la verità, fa la legge). Inspiegabile all’inizio, ma che alla fine è il grande senso di questo romanzo.

Il gioco delle sette pietre di Alberto Minnella è una lettura che mi sento di consigliare a tutti.
I miei complimenti a Alberto Minnella e alla Frilli Editori che inizia a scendere verso il Sud.