domenica 28 novembre 2010

EVERYMAN

PHILIP ROTH

EINAUDI EDITORE

Recensione di Ivo Ginevra

Premetto subito che Everyman è un buon libro, che mi è piaciuto e che l’ho subito riletto;

che Roth è indubbiamente uno dei più grandi scrittori contemporanei;

che il dono di scrivere di Roth è fuori dal comune;

che Roth è insuperabile nel dosare il racconto e bilanciare tutti i rapporti fra il protagonista e gli altri personaggi;

che tutte le sue riflessioni sulla morte, la vecchiaia, la malattia resteranno indelebili nella mia memoria perché uscite fuori dall’intimo riflessivo di ogni uomo e narrate con una incisiva e disarmante semplicità;

che la narrazione è piuttosto originale e procede fluida nel difficile campo dei salti temporali;

che ho apprezzato molto l’autoironia, il nichilismo e la tragicomicità di Roth in questo racconto privo di qualsiasi metafora;

che la chiusa del racconto con il dialogo fra il becchino ed il protagonista è una pietra miliare della letteratura contemporanea, in grado di richiamare alla memoria l’autorevole figura di un grande metafisico come “Amleto”.

Tutto quanto premesso e considerato

mi autorizzo a criticare un papabile premio Nobel partendo dal titolo, perché non è azzeccato e non gli si addice per niente.

Io lo avrei chiamato “Morte, vecchia, malattia, pentimento di un pubblicitario di successo”, senz’altro il risultato sarebbe stato migliore. L’opera letteraria, infatti, parla proprio di un pubblicitario di successo in pensione, intento a fare i conti con la vita che gli è scivolata innanzi con tutti i suoi amori, e indugia sempre sulla continua demolizione del corpo da parte della vecchiaia e della malattia che lo porteranno inevitabilmente alla morte.

Il romanzo è un continuo fare i conti con la morte. Inizia con il funerale del protagonista, continua con la scoperta della morte degli estranei e delle persone care, finisce con la propria morte, dopo avere visto lo scadimento del corpo attaccato dai morsi di una vecchiaia tiranna che tutto sbriciola, che tutto demolisce.

Il nostro protagonista giunto alle soglie della senilità traccia il bilancio della sua vita, con la costante presenza delle malattie, ma non è un conto obiettivo che lo rende credibile, perché privo d’autocritica.

Mai il protagonista di questo romanzo ha pensato di essere stato un uomo “fortunato”, di avere vissuto fino a 75 anni con una gran reputazione, con successo, con soldi, con donne stupende, viaggiando da Parigi ai Caraibi e circondato da tante belle cose che un Everyman qualunque non può permettersi di sognare.

Sì, ha anche sofferto, ma le pessime relazioni matrimoniali sono il frutto del suo esacerbato egoismo.

Ha sofferto per la morte dei genitori e delle persone care, ma chi non soffre o soffrirebbe per questo.

Ha sofferto perché malato, infatti, ha subito diverse operazioni al cuore con la paura che la malattia vinca sulla vita, ma permettetemi di dire che non c’è niente d’incredibile in tutto questo. Milioni di persone nel mondo tirano avanti in questa maniera, basti pensare che pure il sottoscritto è un cardiopatico ed ha subito 3 interventi al cuore (a proposito, la descrizione delle angioplastiche rende bene l’idea dell’estraneità del corpo nel processo operativo di una sala chirurgica ed è ottimamente descritta, ma non vi è alcun accenno in tutta l’opera, alla schiavitù della pillola, vero incubo di chi deve fare i conti con la malattia che giornalmente ti ricorda di esserci). Proprio per tutto questo il protagonista mi sembra privo d’attendibilità ed il libro a tratti riesce a scadere nella mera contabilità degli acciacchi, come in una qualsiasi operazione di ragioneria, dove il risultato finale è purtroppo sempre lo stesso.

Anche un altro titolo si sarebbe addetto a questo lungo racconto, come ad esempio: “La solitudine di un uomo di successo”.

Questo perché il nostro acritico personaggio è solo nelle malattie, solo nella vecchiaia, solo nella morte stessa, ma non è quello che può definirsi un povero Cristo, un disgraziato segnato dalla vita, dal destino. È uno che ha dato, che ha preso anche molto, e che solo prima di morire, ha capito di avere bisogno degli altri.

È un uomo che alla fine della vita paga il suo sviscerato egoismo, frutto della civiltà del benessere e capisce gli sbagli.

Manca una critica seppure velata da parte dello scrittore, al personaggio che dalla vita ha saputo prendere solo l’effimero, fatto di fama, soldi, donne a scapito dei valori fondamentali dell’esistenza umana.

Per finire permettetemi una terza e ultima disapprovazine sul titolo.

Se Everyman prende il nome da un classico dell’antica drammaturgia inglese che metaforicamente ha in sostanza l’appello di tutti gli uomini innanzi alla morte, la sua traduzione letterale in “ogni uomo” ha la pretesa universale di accumulare, svilire, forfettizare e soprattutto spersonalizzare ogni essere umano solo perché nasce, vive e muore.

“Ogni uomo” non è uguale all’altro, perché vive in maniera diversa, perché affronta la vita, l’amore, la vecchiaia e la morte in maniera diversa dall’altro. L’assunto di Roth con la sua pretesa d’essere tutti uguali solo perché viviamo, amiamo e moriamo è troppo collettivo, comune, assolutista e cinico e non sposa il titolo del racconto, finendo per depistare il lettore che ovviamente non s’identifica.

Se è vero che tutti gli esseri umani hanno in comune una vita ed una morte, è anche vero che il percorso è sempre diverso per tutti, anche se porta allo stesso posto.

Proprio per questo ogni uomo non ha niente di comune con gli altri. Perché ogni uomo è diverso. Perché ogni uomo è arbitro del proprio destino.

Ivo Tiberio Ginevra

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