domenica 17 novembre 2013

La notte del gatto nero


ANTONIO PAGLIARO
Guanda Editore
Anno 2012
Pag. 207

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

La notte del gatto nero è un grande romanzo senza il bene e senza eroi, scritto da un narratore con linguaggio lucido e universale. Uno scrittore davvero bravo.
 
Avviso che questa recensione contiene spoiler e soprattutto l’esortazione a leggere questo buon romanzo italiano, a mio parere fra i migliori pubblicati negli ultimi due, tre anni e allora…
In realtà Le notti sono due.
La prima cambia radicalmente la vita.
Palermo. È notte fonda in casa del professor Giovanni Ribaudo quando squilla il telefono. Sono le tre. Una donna dall’altro capo dell’apparecchio cerca suo figlio. Giovanni, ancora addormentato va in camera di Salvatore. Non lo trova. Non è ancora rincasato. Non si preoccupa. Anche Vera, sua moglie, non si allarma. È normale per un ragazzo di vent’anni, pensano. Ma Salvatore quella notte non tornerà, e neanche l’indomani. Non tornerà più. È in carcere per detenzione di un ingente quantitativo di droga. La famiglia Ribaudo, una famiglia “normale” come ce ne sono tante è stravolta. Però non è tutto. Salvatore è anche in possesso di materiale pedopornografico. In una famiglia “normale” è cresciuto un mostro. Lo sdegno del padre è immenso. La madre tace. 
Il dramma interiore di Giovanni Ribaudo è profondo, ma lui è una persona corretta, moralmente irreprensibile e soprattutto fiduciosa nelle istituzioni, quindi non può far altro che lasciare il figlio Salvatore al suo meritato destino di malvivente. Ma dopo un iniziale smarrimento pieno di sconforto, incredulità, sdegno e infinita tristezza, la voce del sangue prevale, così come la voce della ragione, perché non può essere che un mostro di tal fatta sia cresciuto in quella famiglia “normale” con una madre cattolica praticante e un padre professore di liceo, stimato e integerrimo.
È tutto incomprensibile ma Giovanni dopo avere metabolizzato il fatto si convince dell’innocenza del figlio. Lui e sua moglie non possono aver cresciuto un mostro. Intanto la vita del Professor Ribaldo oramai incanalata in un tunnel nero, si arricchisce del famoso linguaggio “legalese” e al contempo s’impoverisce per l’ingordigia di avvocati e banchieri sempre pronti a lucrare sulle disgrazie altrui. Alla fine ottiene di incontrare suo figlio in carcere.
Salvatore è malconcio. L’hanno preso a botte. Botte da orbi. Prega il padre di tirarlo fuori perché è innocente, ma presto. Presto però. Il ragazzo sa che non c’è tempo da perdere. E, infatti, un giorno a casa Ribaldo arriva la tragica notizia.  Salvatore si è tolto la vita impiccandosi nelle sbarre con un lenzuolo fatto a corda. Non crede sia possibile che il figlio si sia tolto la vita, ma lui, Giovanni ha fiducia nella giustizia. È un uomo retto lui. Sa che ci vorrà del tempo perché è una macchina lenta, ma alla fine tutto seguirà il suo naturale corso. Lui ha una fiducia incrollabile nella giustizia e nella legalità. Nel frattempo la vita del nucleo familiare si stravolge ancora di più, perché Vera, sua moglie, trova conforto nella fede e, lui, dopo essersi prosciugato economicamente, è in procinto di perdere anche il lavoro. La sua fede è nell’innocenza di Giovanni. La fede civile: quella nella giustizia statale con la “G” maiuscola, inizia a vacillare.
La seconda notte cambia ancora radicalmente.
Siamo sempre a Palermo. In un pub, "Il Gatto nero”. Giovanni è disperato. Beve. Perché oramai Giovanni beve. È con il bicchiere in mano quando incontra Tony, un suo vecchio amico di gioventù. Una frequentazione di quelle pericolose. Tony è un criminale. Lo è sempre stato, ma ora lo è di più. Ora è un mafioso, “di quelli giusti”. È una frase di Tony che gli fa cambiare ancora tutto: “Giovà, vuoi sapere qual è l’unico modo per avere giustizia? Ci devi pensare da solo”.
Detto da un mafioso è lampante il perché. Giustizia privata. Anzi, una sola parola: VENDETTA! D’altronde, non era forse il Levitico dell’Antico Testamento del VI-V sec. A.C. a citare che: “Se uno farà una lesione al prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro” e anche se ricorrere al male è sempre sbagliato cosa si deve fare quando non c’è la giustizia o la stessa giustizia è marcia con tutte le sue istituzioni? Anche se le vendette giuste non esistono (Chervantes nel Don Chisciotte), con l’avanzare dell’età, ci si rende conto che la vendetta è ancora la più sicura forma di giustizia (Henry Becque). Giovanni di sicuro non avrà filosofeggiato su questi concetti, ma è altrettanto sicuro che il dolore irreparabile per la perdita del suo unico figlio, dopo averlo frustrato nelle fauci di una tristezza infinita, sola e senza speranza, si sia trasformato in incubo sordo e poi in rabbia sempre più forte fino a desiderare la vendetta come unico scopo di vita, perché così e solo così, può essere fatta giustizia. Così possono pagare i suoi assassini.
Il suo mondo etico è crollato. La sua salda morale è andata a farsi fottere perché la sua certezza nella giustizia dello stato; quella giustizia insegnata, desiderata, voluta e pretesa, è solo una grande illusione e in ogni caso, se c’è, a lui non spetta! E se lo stato non è in grado, di garantirgliela allora l’alternativa è l’antistato. La mafia. E sarà proprio questa a dargliela, anche se nei fatti cosa nostra ha un ruolo marginale, così come la stessa città di Palermo, per niente invasiva, senza i suoi luoghi comuni e le ossessive indicazioni stradali di vie, piazze, ponti e fontane che massacrano il lettore con percorsi obbligati di cui non gliene frega niente.
Una volta ottenuta la sua vendetta, Giovanni è assalito dalla tristezza. È morso, inaridito, dilaniato, da un’infelicità immensa che ha occupato il posto vuoto della voglia di vendetta e da quel momento la vita riprende il suo corso, ma a lui non interessa più niente e così, fino all’epilogo inaspettato della storia.
La notte del gatto nero è un romanzo ben congegnato, convincente in ogni sua parte, pieno di contenuti e riflessioni su alcuni aspetti estremi della nostra Giusta Società amministrata dai forti poteri statali, come Magistrati, Pubblici Ministeri, Tribunali, Poliziotti, Carceri, che non proteggono i diritti individuali anche all’interno delle stesse istituzioni e strutture del garantismo statale. I tristi casi di Cucchi, Uva, Aldrovandi sono purtroppo la brutta conferma di una giustizia forte con i deboli e al contempo asservita ai forti.
Antonio Pagliaro con lo stile dei grandi narratori che riescono a scandagliare l’animo umano narra semplicemente di cose “anormali” che potrebbero colpire una qualunque famiglia “normale”. Narra di cose “anormali” come il male assoluto che da un momento all’altro potrebbe distruggere ogni tuo sentimento, ogni tua granitica certezza, perché esso esiste ed è appostato dietro l’angolo. Da grande scrittore dipinge con maestria l’escalation psicologica di fatti e personaggi restando sempre un passo indietro; facendo parlare solo i protagonisti, con le loro vicende, il loro dolore, le loro scelte. Pagliaro, senza mai sposare il racconto, stravolge con disinvoltura le certezze che certezze dovrebbero essere e non lo sono. Nel suo romanzo non c’è il politicamente corretto, o il lieto fine d’obbligo, o la giusta morale. C’è la fotografia di una certa Italia che non ci piace vedere, narrata con una prosa secca, tagliente e lucida; fatta da brevi frasi, brevi periodi, dialoghi serrati e verosimili, restando sempre fuori dalla scena. Senza mai criticare, o schierarsi, o ironizzare. Senza essere buonista, possibilista, moralista o assolutista. L’unico intento di Antonio Pagliaro è stato quello di dare al lettore, ogni elemento utile per entrare nella storia, appiccicarsela addosso come propria e verosimile, coinvolgerlo negli eventi e stimolarlo alla riflessione senza dare mai il proprio pensiero, perché lo scrittore, anche se presente in ogni passo dell’opera, non si coinvolge nel romanzo parteggiando con i propri convincimenti. Questi sono dei lettori e sono personali, Pagliaro ha dato con precisa maestria tutti quegli input necessari per una riflessione sulla “giustizia”, perché il narrato è chiaro e si commenta da solo, e come i grandi romanzieri ha scritto togliendo il fiato e senza lasciare nulla al caso.
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra

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