ANTONIO PAGLIARO
Guanda Editore
Anno 2012
Pag. 207
Recensione di Ivo Tiberio
Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
La notte del gatto nero è un grande romanzo senza il bene e senza
eroi, scritto da un narratore con linguaggio lucido e universale. Uno scrittore
davvero bravo.
Avviso che questa recensione
contiene spoiler e soprattutto l’esortazione a leggere questo buon romanzo
italiano, a mio parere fra i migliori pubblicati negli ultimi due, tre anni e
allora…
In realtà Le notti sono due.
La prima cambia radicalmente
la vita.
Palermo. È notte fonda in casa
del professor Giovanni Ribaudo quando squilla il telefono. Sono le tre. Una
donna dall’altro capo dell’apparecchio cerca suo figlio. Giovanni, ancora
addormentato va in camera di Salvatore. Non lo trova. Non è ancora rincasato. Non
si preoccupa. Anche Vera, sua moglie, non si allarma. È normale per un ragazzo di vent’anni, pensano. Ma Salvatore quella
notte non tornerà, e neanche l’indomani. Non tornerà più. È in carcere per detenzione
di un ingente quantitativo di droga. La famiglia Ribaudo, una famiglia “normale”
come ce ne sono tante è stravolta. Però non è tutto. Salvatore è anche in
possesso di materiale pedopornografico. In una famiglia “normale” è cresciuto
un mostro. Lo sdegno del padre è immenso. La madre tace.
Il dramma interiore di Giovanni
Ribaudo è profondo, ma lui è una persona corretta, moralmente irreprensibile e
soprattutto fiduciosa nelle istituzioni, quindi non può far altro che lasciare il
figlio Salvatore al suo meritato destino di malvivente. Ma dopo un iniziale
smarrimento pieno di sconforto, incredulità, sdegno e infinita tristezza, la
voce del sangue prevale, così come la voce della ragione, perché non può essere
che un mostro di tal fatta sia cresciuto in quella famiglia “normale” con una
madre cattolica praticante e un padre professore di liceo, stimato e
integerrimo.
È tutto incomprensibile ma
Giovanni dopo avere metabolizzato il fatto si convince dell’innocenza del
figlio. Lui e sua moglie non possono aver cresciuto un mostro. Intanto la vita
del Professor Ribaldo oramai incanalata in un tunnel nero, si arricchisce del
famoso linguaggio “legalese” e al contempo s’impoverisce per l’ingordigia di
avvocati e banchieri sempre pronti a lucrare sulle disgrazie altrui. Alla fine
ottiene di incontrare suo figlio in carcere.
Salvatore è malconcio. L’hanno
preso a botte. Botte da orbi. Prega il padre di tirarlo fuori perché è
innocente, ma presto. Presto però. Il ragazzo sa che non c’è tempo da perdere.
E, infatti, un giorno a casa Ribaldo arriva la tragica notizia. Salvatore si è tolto la vita impiccandosi
nelle sbarre con un lenzuolo fatto a corda. Non crede sia possibile che il
figlio si sia tolto la vita, ma lui, Giovanni ha fiducia nella giustizia. È un
uomo retto lui. Sa che ci vorrà del tempo perché è una macchina lenta, ma alla
fine tutto seguirà il suo naturale corso. Lui ha una fiducia incrollabile nella
giustizia e nella legalità. Nel frattempo la vita del nucleo familiare si
stravolge ancora di più, perché Vera, sua moglie, trova conforto nella fede e,
lui, dopo essersi prosciugato economicamente, è in procinto di perdere anche il
lavoro. La sua fede è nell’innocenza di Giovanni. La fede civile: quella nella
giustizia statale con la “G” maiuscola, inizia a vacillare.
La seconda notte cambia ancora
radicalmente.
Siamo sempre a Palermo. In un
pub, "Il Gatto nero”. Giovanni è disperato. Beve. Perché oramai Giovanni beve.
È con il bicchiere in mano quando incontra Tony, un suo vecchio amico di
gioventù. Una frequentazione di quelle pericolose. Tony è un criminale. Lo è
sempre stato, ma ora lo è di più. Ora è un mafioso, “di quelli giusti”. È una
frase di Tony che gli fa cambiare ancora tutto: “Giovà, vuoi sapere qual è l’unico modo per avere giustizia? Ci devi
pensare da solo”.
Detto da un mafioso è lampante il
perché. Giustizia privata. Anzi, una sola parola: VENDETTA! D’altronde, non era
forse il Levitico dell’Antico Testamento del VI-V sec. A.C. a citare che: “Se uno farà una lesione al prossimo, si farà
a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio,
dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro”
e anche se ricorrere al male è sempre sbagliato cosa si deve fare quando non
c’è la giustizia o la stessa giustizia è marcia con tutte le sue istituzioni?
Anche se le vendette giuste non esistono
(Chervantes nel Don Chisciotte), con
l’avanzare dell’età, ci si rende conto che la vendetta è ancora la più sicura
forma di giustizia (Henry Becque). Giovanni di sicuro non avrà
filosofeggiato su questi concetti, ma è altrettanto sicuro che il dolore
irreparabile per la perdita del suo unico figlio, dopo averlo frustrato nelle
fauci di una tristezza infinita, sola e senza speranza, si sia trasformato in incubo
sordo e poi in rabbia sempre più forte fino a desiderare la vendetta come unico
scopo di vita, perché così e solo così, può essere fatta giustizia. Così possono
pagare i suoi assassini.
Il suo mondo etico è crollato. La
sua salda morale è andata a farsi fottere perché la sua certezza nella
giustizia dello stato; quella giustizia insegnata, desiderata, voluta e pretesa,
è solo una grande illusione e in ogni caso, se c’è, a lui non spetta! E se lo
stato non è in grado, di garantirgliela allora l’alternativa è l’antistato. La
mafia. E sarà proprio questa a dargliela, anche se nei fatti cosa nostra ha un
ruolo marginale, così come la stessa città di Palermo, per niente invasiva,
senza i suoi luoghi comuni e le ossessive indicazioni stradali di vie, piazze,
ponti e fontane che massacrano il lettore con percorsi obbligati di cui non
gliene frega niente.
Una volta ottenuta la sua
vendetta, Giovanni è assalito dalla tristezza. È morso, inaridito, dilaniato, da
un’infelicità immensa che ha occupato il posto vuoto della voglia di vendetta e
da quel momento la vita riprende il suo corso, ma a lui non interessa più niente
e così, fino all’epilogo inaspettato della storia.
La notte del gatto nero è un romanzo ben congegnato, convincente in
ogni sua parte, pieno di contenuti e riflessioni su alcuni aspetti estremi della
nostra Giusta Società amministrata dai forti poteri statali, come Magistrati,
Pubblici Ministeri, Tribunali, Poliziotti, Carceri, che non proteggono i
diritti individuali anche all’interno delle stesse istituzioni e strutture del
garantismo statale. I tristi casi di Cucchi, Uva, Aldrovandi sono purtroppo la
brutta conferma di una giustizia forte con i deboli e al contempo asservita ai
forti.
Antonio Pagliaro con lo stile dei
grandi narratori che riescono a scandagliare l’animo umano narra semplicemente di
cose “anormali” che potrebbero colpire una qualunque famiglia “normale”. Narra
di cose “anormali” come il male assoluto che da un momento all’altro potrebbe
distruggere ogni tuo sentimento, ogni tua granitica certezza, perché esso
esiste ed è appostato dietro l’angolo. Da grande scrittore dipinge con maestria
l’escalation psicologica di fatti e personaggi restando sempre un passo
indietro; facendo parlare solo i protagonisti, con le loro vicende, il loro
dolore, le loro scelte. Pagliaro, senza mai sposare il racconto, stravolge con disinvoltura
le certezze che certezze dovrebbero essere e non lo sono. Nel suo romanzo non
c’è il politicamente corretto, o il lieto fine d’obbligo, o la giusta morale.
C’è la fotografia di una certa Italia che non ci piace vedere, narrata con una prosa
secca, tagliente e lucida; fatta da brevi frasi, brevi periodi, dialoghi
serrati e verosimili, restando sempre fuori dalla scena. Senza mai criticare, o
schierarsi, o ironizzare. Senza essere buonista, possibilista, moralista o
assolutista. L’unico intento di Antonio Pagliaro è stato quello di dare al
lettore, ogni elemento utile per entrare nella storia, appiccicarsela addosso
come propria e verosimile, coinvolgerlo negli eventi e stimolarlo alla
riflessione senza dare mai il proprio pensiero, perché lo scrittore, anche se
presente in ogni passo dell’opera, non si coinvolge nel romanzo parteggiando
con i propri convincimenti. Questi sono dei lettori e sono personali, Pagliaro ha
dato con precisa maestria tutti quegli input necessari per una riflessione
sulla “giustizia”, perché il narrato è chiaro e si commenta da solo, e come i
grandi romanzieri ha scritto togliendo il fiato e senza lasciare nulla al caso.
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
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