martedì 20 dicembre 2011

Ucciderò Mefisto


Autore: Valter Binaghi
Anno: 2010
Editore: PerdisaPop


Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
publicata su www.thrillercafe.it

Il caso è semplice per il commissario di polizia Leonetti. Fausto Blangè è reo confesso. Ha ucciso il suo analista, il dottor Giacomo Collinaro con un colpo di pistola in faccia. “L’uomo ha una bella voce, il tono affabile, privo d’inflessioni, l’espressione impostata senza risultare contraffatta, come di uno per cui parlare è un talento naturale più che una professione”, ma oltre ad ammettere l’omicidio, Blangè non dice altro di sensato. “Chiamava il suo custode: l’airone. L’airone, capisce? Un uccello e poi parlava di Faust, e Margherita, e Mefistotele”.

Il caso per il commissario Leonetti è già chiuso in partenza, e chiuso rimane, però nella natura del tutore dell’ordine c’è un tarlo. Vuole capire il perché di questo delitto efferato. Blangè ha tutto, nessun problema economico, una carriera universitaria avviata. È uno scrittore di best seller, ricercato dalle televisioni e dalla stampa come opinionista. Vince premi letterari. Ha un promoter che gli ha dato credibilità nell’ambiente culturale, una produttrice televisiva che cura la sua immagine ed anche una bella studentessa come amante. Licia.

L’intuizione di Leonetti sta tutta nell’aver capito cos’è che manca all’assassino, e non cos’è che possiede. Fausto Blengè, infatti, non ha più una famiglia, non ha più l’amore della sua l’adorata moglie Margherita, perché è morta e con lei il suo universo di valori positivi, ma non si tratta solo di una semplice morte per malattia o altra causa naturale, si tratta di suicidio e di suicidio estremo. Margherita si è fatta dilaniare sulle rotaie da un treno della metro, a Milano, fra l’indifferenza e le maledizioni dei pendolari.

Il movente dell’omicidio è trovato da Leonetti nell’identificazione della vittima in Mefisto, perché è indubbio che il successo, la carriera e anche le amanti sono arrivati a Blangè tardi, e solo dopo l’inizio della terapia da Collinaro. Prima di allora, mai un editore, una televisione, o uno studente si era interessato a quel professore di lettere nei licei, oppure ad uno solo dei suoi romanzi. Leonetti capisce che il prezzo dell’agognato successo è frutto di una terapia condizionante e plasmatrice che ha come effetto collaterale quello di subordinare la vita di Margherita al successo di Blangè, però tutto regge fino al giorno del suicidio della donna. Dopo quel gesto insano, la mente dell’omicida prenderà coscienza dell’immane perdita. Sarà scarnificata dal dolore, dal pentimento, dalla voglia di vendetta fino ad essere governata da un solo pensiero: “Ucciderò Mefisto”, allora và da Collinaro, gli spara in faccia e confessa l’omicidio.

Il caso è chiuso. È sempre stato chiuso. Questa la storia.

Valter Binaghi è un pazzo e mi sentirei di dire, anche da catena, perché con questo breve romanzo si è andato ad infilare nei terreni sacri della letteratura mondiale, dove il vecchio dilemma di avere ed essere è stato degnamente trattato attraverso i secoli, da tanti scrittori famosi, vedi per tutti Ghoethe con il Faust. Ucciderò Mefisto è un ripercorrere allusivo del dramma. Anche i nomi dei personaggi sono gli stessi. Faust sta a Fausto, e da anonimo professore di liceo e mediocre scrittore diventa professore universitario e scrittore di successo. Margherita sta a Margherita come una donna innamorata sta ad una donna innamorata che perde il suo amore. E Collinaro, lo psicanalista, sta a Mefisto come solo un diavolo sa fare con la sua vittima. Lui dona l’effimero per togliere l’essenziale. E proprio la vita, l’amore, è il prezzo da pagare a Mefisto. Solo che la vittima lo capisce. Rompe il teorema e anche se tardi, non ci sta più. Ha rimorso, si vendica e uccide il diavolo.

Tutto a prima lettura sembra una cosa scontata e per niente originale, ma alla prima lettura! Alla seconda ti accorgi del vero talento di Binaghi, anzi arrivi a paragonarlo a un genio scatenato. A mente fredda ti rendi conto che “Ucciderò Mefisto” è un bel concentrato d’illuminate pagine e di un grande esercizio stilistico.

Il contrasto fra i fogli scritti in corsivo (che a prima lettura disturbano perché distraggono dalla storia) con quelli che narrano dell’indagine del commissario Leonetti, lo afferri solo dopo perché non c’è alcuna trama gialla da seguire. Solo dopo capisci che il corsivo è il legittimo ed indispensabile scandagliare dell’animo umano e afferri (e apprezzi) il suo contrasto con il quotidiano concreto e semplice.

Cento pagine dove c’è un grande amore finito male. La tragedia della gelosia, del tradimento, della solitudine. Dove c’è l’ossessiva ricerca dell’ambizione, del successo, della notorietà e soprattutto un’analisi impietosa e critica dell’ambiente editoriale e televisivo nei confronti di scrittori giovani e meno giovani disposti a tutto pur di essere pubblicati da un editore che non ha alcun interesse nell’opera letteraria.

Cento pagine così ricche di spunti e contenuti, che probabilmente in mano ad un altro scrittore sarebbero diventate, quattrocento, seicento e forse anche di più, e che invece Binaghi riesce a concentrare in poco spazio, con la forza di un cazzotto in bocca che per giorni farà sentire il suo malessere.

Ucciderò Mefisto è un romanzo intriso da sensi di colpa, incomprensioni, solitudine. Apologia del consumismo, narrato con semplicità apparente, grande stile letterario e senza alcun moralismo, vera prova di forza dello scrittore.

Ucciderò Mefisto è un gran libro. Da leggere e soprattutto da rileggere.
recensione di Ivo Tiberio Ginevra

mercoledì 14 dicembre 2011

Quattro e quattro otto

Claudio Arbib e Rodolfo Rossi
Todaro Editore
Anno 2011


Trama in sintesi

Roma. Il “solito” commissario svolge la “solita” indagine sul “solito” omicidio senza un nome e senza un perché. Man mano che la vicenda si dipana però il commissario Corvino scopre inaspettate e insospettabili relazioni tra la carriera ecclesiastica di un alto prelato, la morte prematura di un giovanissimo orfano e gli impicci di delinquenza piccola e grande.
Le cose poi si complicano.
Il tutto in una partita dove perfino la pittura manierista e i Cavalieri di Malta giocano un ruolo cruciale. E il più ovvio dei commissari precipita nel gorgo della meno ovvia delle storie…

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra pubblicata su www.thrillercafe.it

Questo è un romanzo poliziesco scritto a quattro mani da un musicista (Rodolfo Rossi) e un ingegnere (Claudio Arbib). Entrambi prima di iniziare la storia si sono posti una domanda essenziale: quale tratteggio psicologico dare al protagonista della storia, il commissario di Polizia Corvino?

La risposta è tutta nella postprefazione scritta alla fine del libro.

Se uno vi dicesse che ci sono molti commissari di Polizia che amano cucinare o che sono appassionati di pesce, perché non dovreste crederci? In fin dei conti il nostro è un Paese bagnato da tre mari e con tradizioni culinarie nobili e varie. Ora nella storia che vi abbiamo raccontato si parla di un commissario di polizia non di primo pelo, patito della cucina di mare che pratica tra le mura di casa con una certa abilità. Però i commissariati italiani sono migliaia (cinquantuno solo quelli che dipendono dalla questura di Roma, e di questure in Italia ce ne sono 103) e fra tutti questi servitori dello stato non era in fondo altrettanto plausibile, almeno per cambiare, che il nostro fosse uno di quelli che detestano le spine e sono incapaci di cuocersi un uovo?

In effetti si può ben supporre che la maggior parte dei commissari abbia vizi e virtù degli italiani ritenuti normali: fuma qualche sigaretta, o beve con moderazione, ama la famiglia, guarda la TV, frequenta centri commerciali, evada qualche piccolo balzello e, considerando i politici indistintamente dei ladri, non si fa problemi a votare all’occorrenza il più ladro di tutti. I tempi che corrono autorizzano a immaginare alcuni, pochi, che condividano perfino qualcuna delle abitudini degli italiani a ragione o a torto ritenuti meno normali, per esempio il gioco d’azzardo, le puttane o qualche droga cosiddetta leggera. Ma allora perché parlare di commissari amanti del pesce o della cucina?

Il fatto è che presentare un commissario con i difetti che abbiamo elencato incontrerebbe ostacoli di vario tipo: i governi europei stanno facendo grandi sforzi per prevenire le malattie derivate dall’alcol, dal fumo e da altri eccessi, e ci mancherebbe solo un messaggio positivo sul versante della droga. Per quanto riguarda le abitudini alimentari, l’alta incidenza di malattie cardiovascolari che ci ritroviamo qui da noi, sconsiglia di fare troppa pubblicità a cibi come la carne, per tacere delle sterili polemiche che potrebbero sorgere con vegetariani e animalisti. Il pesce è una buona via di mezzo: anche se si tratta pur sempre di animali, le sue virtù nutritive – fosforo, pochi grassi, omega-3 – e ne fanno un soggetto senza dubbio adatto alla mensa di un tutore dell’ordine, o almeno di un avversario del disordine alimentare. A tutto questo si aggiunga che un uomo in cucina attira sempre la simpatia delle massaie, le quali, statistiche alla mano, risultano tra le più appassionate lettrici di storie poliziesche.

Tirando le somme, prima di scrivere questa storia abbiamo verificato se il commissario che ce l’ha raccontata ricadesse o no in una categoria spendibile in un giallo per famiglie e politicamente corretto. Siamo stati pure troppo fortunati.

In caso contrario, avremmo dovuto scrivere un noir o uno splatter e consigliarvi di tenerlo lontano dai bambini e adolescenti.

Il risultato alla fine è quello di avere creato un personaggio ordinario, con le intrinseche contraddizioni dell’uomo moderno, che si muove all’interno di una trama gialla colta e garbata, dove è proprio la trama in se stessa, la parte godibile del romanzo. I personaggi del commissariato, dottor Corvino in primis, fanno solo da contorno, o meglio, servono diligentemente l’opera narrativa.

L’indagine in sé è molto originale, intercalata da ottimi déjà-vu che hanno il sapore di storia, con rimandi ad antiche memorie all’interno di un mondo, da sempre in mano al potere e ai potenti.

Quattro e quattro otto è una lettura diversa, lontana dai soliti stereotipi americani tutto sangue e tormento, tecnologia e volgarità. È una lettura moderna e raffinata al tempo stesso. Forse un po’ più di mordente, o qualche battuta di spirito avrebbe dato al libro un maggiore godibilità, ma come ho detto all’inizio, i personaggi sono del tutto comuni e proprio per questo, credibili.

Credo proprio che possiamo dare la nostra fiducia al commissario Corvino.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

Salto d'ottava


Autore: Antonio Paolacci
Editore: Perdisa Pop
Anno: 2010

Trama:

È la parodia di un ragazzo. Fantoccio deforme, sporco di se stesso, adagiato nella polvere bagnata, ma soprattutto immobile, e questo sì che è strano: Chiunque sia, non muoverà più un dito, mai più, ha finito di svegliarsi la mattina, ha finito di allacciarsi le scarpe. E siccome gli somiglia – stessa taglia, stesso modo di vestire – allora ecco cosa fa la paura più del sangue e delle altre schifezze: l’identità del morto.

Un uomo e un ragazzo. Ventiquattro ore per entrambi. Un cadavere di adolescente in una fabbrica abbandonata.

L’uomo è un produttore cinematografico preda di una strana forma di smarrimento. È un uomo che ha atteso, che attenderà fino all’ultimo istante.

Il ragazzo è un sedicenne affascinato dalla cultura dello skateboard. Quando s’imbatterà nel cadavere di un suo coetaneo, sarà l’inizio delle domande. Omicidio? Incidente? E scoprirlo, importa davvero? Sullo sfondo, una sessualità vissuta di nascosto: incontri anonimi, trasgressione e prostituzione s’incrociano a un’eloquente poetica delle persone qualunque.

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra pubblicata su www.thrillercafe.it

Un Matteo. Adolescente, benestante, apatico, e solo.
Un Matteo. Adulto, benestante, apatico e solo.
Un unico Met che per 24 ore rivive dentro i due Matteo, con la forza di un ricordo incancellabile, che ha per sempre segnato il destino del Matteo ragazzo e del Matteo uomo.

Tutto nasce al “Rottame”, un vecchio capannone industriale in rovina che avvolge nelle sue spire l’omologato anticonformista Met (Matteo), sedicenne, Skateboader, figlio di papà e della sua ricca civiltà del benessere. Che sa esagerare bene nella sua protesta esteriore contro una società che gli consente di vivere senza problemi e avendo tutto.

Matteo. Met. Spinello e Skate ieri, oggi peercing e tatuaggio. Jeans a zampa di leone, occhiali da vista rotondi e barba incolta ieri, oggi jeans col culo di fuori, occhiali da killer e capello rigorosamente rasato, o colorato o gellato. Omologato! Met. Matteo. Come uno di oggi.

Al rottame, in mezzo al lerciume, all’odore di acre dell’abbandono, immerso “nel vento che s’infila in quelle zanne di finestre rotte”, Met scopre un: “fantoccio deforme, sporco di se stesso, adagiato nella polvere bagnata, ma soprattutto immobile”. Met al rottame, scopre come si è senza vita. Il fantoccio gli somiglia, ha la sua stessa età e perfino i vestiti simili ai suoi, allora scopre quello che potrebbe diventare. Ha paura. Fugge. Si rintana nella sua anticonformista cameretta di una casa agiata e piange, forse no, non piange. Non sa cosa fare, o meglio, il suo IO lo sa benissimo, ma preferisce fare l’unica cosa che gli hanno insegnato: NIENTE, e NIENTE è l’unica cosa che ha imparato bene da mamma e papà, dalla sua società e dal suo tempo, perché di sicuro NIENTE è l’unica cosa sicura, e lui si omologa volentieri obbedendo ai dettami invisibili della sua sterile coscienza con un’alzata di spalle. Solo il travaglio di una notte, una notte soltanto dove muore Met, e poi l’indomani, tutto va al suo posto fino al giorno in cui Met ricompare a Matteo il giorno del suo compleanno con una torta con “non so quante candeline” ci sono. Fatto sta che Matteo adesso è un uomo, non ha più lo skate, ma una bella macchina che prima di montare accarezza il cofano. Non ha più ai piedi le mitiche All Star, oppure i jeans sgualciti di una nota casa americana, ma semplicemente “una camicia da duecentonovantanove euro, calzoni e giacca che superano i mille” e con le scarpe “si porta addosso il budget mensile di una famiglia”. Certo, ha anche un matrimonio naufragato con una figlia che vede poco e niente, un lavoro prestigioso di produttore cinematografico che lo arricchisce e che non gli piace. Certo Matteo ha anche altre cose che mezzo mondo gli invidia, ma a lui interessano quel tanto, perché da dopo quel dannato giorno al rottame è divenuto un nichilista sarcastico e solo, che cerca l’amore mercenario che paga per un sesso inutile, che paga per parlare e sentire parlare.

La colpa del risveglio di Met è tutta del regista Campestri, che ha proposto a “Matteo Qualcosa”di girare un video alternativo, un omologato video documentary/convenzional al rottame. A Matteo quel video importa. Non sappiamo perché gli importa così tanto, ma gli importa veramente. C’è però un ostacolo, il “fagotto”. Deve rimuoverlo per non ostacolare le riprese. E lo fa. Deve fare i conti con la sua memoria. I conti con se stesso e con quella “cosuccia irreversibile” che gli riecheggia nella memoria. E li fa.

Salto d’ottava è un piccolo libro di un centinaio di pagine. Una gemma. Un capolavoro stilistico. Un gran saggio sulla crisi d’identità dell’uomo moderno che vive solo nel consumismo, nell’indifferenza, nella solitudine, nell’apatia, nell’individualismo, senza ambizioni, valori o prospettive di crescita. È un romanzo denuncia, feroce e critico verso le debolezze dell’uomo contemporaneo, raccontato come una metafora dove, e spesso, siamo costretti ad identificarci.

La narrazione a prima lettura è complessa, ma rileggendola si capisce appieno che non poteva essere scritta in altro modo se non questo. Un linguaggio unico, pregnante, veloce e asciutto, con salti di tempo di vent’anni e passa, nell’arco delle ventiquatt’ore; con salti di stile dalla prima persona narrante alla terza. Con riflessioni di gran pregio: “La memoria è immagine…. La memoria è montaggio….La memoria è collegamento….La memoria è conforto…. La memoria è collisione…. La memoria è salto….

Salto d’ottava di Antonio Paolacci, è un gran bel libro.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra