lunedì 12 maggio 2014

Acque torbide per l'investigatore Astengo

 A. Novelli - G. Zarini
Fratelli Frilli Editori
Anno 2012
Pagine 166
 
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
 
Leggo da un’intervista fatta al duo Andrea Novelli e Gianpaolo Zarini, che nel loro ultimo romanzo Acque torbide per l’investigatore Astengo hanno voluto sperimentare il genere hard-boiled perché “ci mancava“, perché a loro “piacciono le sfide e provare a cimentarsi in diversi tipi di scrittura“, e perché per la prima volta ambientano un loro romanzo in Italia dato che tutti i precedenti hanno avuto una ambientazione all’estero.
Insomma una sfida tutta italiana al genere tipicamente americano dell’hard-boiled. Una sfida tosta, cazzuta direi restando in tema, perché questa tipologia di romanzi oltre a un linguaggio in prima persona difficile da sviluppare ha degli stereotipi, o meglio delle regole, alle quali bisogna necessariamente ubbidire per rientrare nel genere. Badate che si parla di personaggi come Marlowe o Sam Spade, creati da maestri incontrastati, del calibro di Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Un confronto non da poco.
Per scrupolo, prima di leggere il libro, mi sono rispolverato le regole dei romanzi hard-boiled senza scordarmi che l’unica cosa diversa che avrei trovato fin dall’inizio sarebbe stata l’ambientazione, ovviamente non americana ma Italiana.
La scelta del duo letterario è caduta su Genova. Città inusuale nei nostri romanzi di genere. Con i suoi carruggi, la zona del porto e quella residenziale è di sicuro un punto a favore. “Ottima per un noir”, mi sono detto: “Generalmente abbiamo una stragrande maggioranza d’ambientazioni a Bologna che quasi quasi mi dovrebbero dare la cittadinanza onoraria”.
Ok, Fortuna audax eccetera eccetera, quindi ho iniziato la lettura.
Le prime quattro righe sono del tutto inequivocabili su quello che hanno voluto fare i due scrittori: “La maggior parte dei clienti comincia con l’inondarmi la camicia di lacrime o con il ringhiarmi in faccia perché io capisca subito chi comanda, ma di solito finiscono con il diventare ragionevoli, se sopravvivono.
Parole di Phlip Marlowe. Parole di Raymond Chandler.
E poi: “Me ne stavo appoggiato ad una colonna con quel libro in mano, Il grande sonno di Chandler. L’avevo da anni nella libreria del mio ufficio senza averlo mai letto. Lo tenevo per fare bella impressione sui clienti. Quel giorno lo avevo preso come involucro per metterci….

Il protagonista.
Dopo poche pagine gli ingredienti dell’hard-boiled americano compaiono tutti, dalle tonnellate di sigarette fumate una di seguito all’altra, ad una pessima dieta alimentare che farebbe inorridire il migliore degli igienisti.
Astengo è un investigatore privato. È un ex sbirro. Ha un rapporto conflittuale con la polizia, collaborativo, ma non molto perché il suo carattere schivo, disilluso, ironico, cocciuto, cinico ed egoista lo porta ad agire da solo, pertanto è abbastanza antipatico a molti.
Astengo è uno che se ne frega del giudizio degli altri, dell’umanità intera. Lui è un lupo solitario, vive da solo, non ha amici, e anche se i suoi creatori non lo scrivono, Astengo non è in grado di cucinarsi neanche un uovo fritto.
Astengo non è quello che si può definire un buon partito perché è totalmente inadatto alla vita matrimoniale, genitore, poi, neanche a parlarne.
Astengo è interessato solo a belle donne; bionde fatali, dark lady, meglio se clienti della sua agenzia d’investigazioni.
Astengo odia le relazioni sentimentali, per scelta perché è un disilluso.
Astengo lavora all’ultimo piano del lussuoso palazzo Doria-Danovaro (eredità di un lontano parente) ed ha una sventola di segretaria.
Astengo ha un’attività che va male; non che desideri o mai abbia desiderato incarichi gloriosi, ma oramai si è ridotta a semplici operazioni di “annusapatte”. Documentare l’attività amatoria del coniuge infedele. Cash e via! Ma gli girano sempre pochi soldi per le mani.
Astengo ha un linguaggio gergale che si esprime soprattutto quando interagisce con il suo principale collaboratore/informatore.
Astengo ha tutti i requisiti di un dannato detective privato dell’hard-boiled americano.
 
L’indagine.
Il copione da rispettare per far parte del genere è quello tipico di un semplice incarico per tirare a campare che nel prosieguo della storia s’ingarbuglia maledettamente riservando, oltre al classico morto non previsto, un finale del tutto inaspettato. E, infatti, l’indagine di Astengo parte da un banale compito alla ricerca del partner fedifrago, col susseguirsi della monotonia di appostamenti dietro le porte di villette di periferia, con la relativa consegna delle fotografie del tradimento al
coniuge/cliente, eccetera, eccetera, ma finisce alla ricerca dell’assassino proprio del coniuge che l’investigatore andava tampinando, con dentro il calderone, belle donne, sesso, soldi, e ricatti in un susseguirsi di colpi di scena finali.
Ok! Ingredienti e modalità di cottura ci sono tutti e in perfetto stile hard-boiled!
La scrittura.
Andiamo ora alla mano del cuoco, o meglio dei cuochi. Vediamo com’è scritto.
Prima persona d’obbligo, e trattasi di una gran bella prima persona. Ritmo serrato, intimista e moderato, pathos, atmosfere ben definite, dialoghi diretti, accurati e verosimili. Menzogne, dubbi. Amarezza. Buono il rapporto con il lettore. Ottimo lo stile. Lettura veloce. Perfetto. Cotto e mangiato in due giorni.
Conclusioni.
Sì, Acque torbide per l’investigatore Astengo è di sicuro un hard-boiled. Stile, trama e personaggi sono all’altezza. Se gli autori avevano concepito il romanzo come una sfida, l’hanno vinta di sicuro, ma detto così sembrerebbe che il duo Novelli Zarini si sia limitato ad una scopiazzatura dei copioni americani, e invece, No. Non è così e non fraintendiamo assolutamente. I due scrittori liguri hanno solo obbedito alle regole fondamentali e obbligatorie del genere, ma il nostro Astengo a ben guardare è proprio nostro. È Italico. Unico. Unico perché alla fine, non è un vero duro. Non è un macho e spara poco, o meglio, non spara affatto perché spesso non ha neanche il revolver. Lo dimentica in un cassetto o non lo vuole portare affatto, anche quando in ballo c’è il rischio della vita. Però con se porta sempre un’arma, efficace e tagliente come una lama: “L’ironia”. Quella forte ironia mischiata al senso dell’umorismo spiccato in qualsiasi occasione. Astengo ha un alto senso della giustizia ed è un antieroe verosimile, immerso in storie altrettanto credibili prive di serial killer o descrizioni cruente. Immerso nell’italica speculazione edilizia, nello storico inquinamento delle coste più belle del mondo, nella malsana ragione degli interessi politico-criminali.
Astengo non vuole piacere. Non ci tiene. È sincero. È leale e anche se cerca di passare per un duro alla fine è tradito dal suo buonismo e dalla sua simpatia, e poi è un personaggio moderno, ricco delle contraddizioni dell’uomo d’oggi e soprattutto è perfettamente integrato nella sua Genova che vive in ogni dove e in ogni poro della pelle, e Genova è il vero co-protagonista alla pari del romanzo. E non ci sarebbe Astengo, o meglio, un Astengo credibile senza la sua Genova. Questa Genova. Misteriosa e vera. Ecco! Sì. Ho capito perché mi è piaciuto: Astengo è italico.
Acque torbide per l’investigatore Astengo è un bel libro. Ve lo consiglio e soprattutto leggete italiano. Noi sappiamo fare anche un buon hard-boiled. Provare per credere.

Alcazar ultimo spettacolo

STEFANIA NARDINI
Edizioni e/o Collezione Sabot/age
Anno 2013
Pagine 255
 
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
 
Alcazar, di Stefania Nardini, è un gran bel romanzo sospeso fra finzione e realtà.
Una realtà storica inusuale per un’opera narrativa italiana, ma così ben documentata da potersi considerare come un romanzo storico del tutto riuscito. È inusuale perché l’azione si svolge nel 1939, anno diciottesimo dell’era fascista, tra Roma, Napoli e Marsiglia e in particolare studia a fondo la città francese di quegli anni con tutte le sue profonde contraddizioni, in una bailamme storica scandita dagli avvenimenti che a breve precipiteranno nel buio della seconda guerra mondiale.
Leggere questo libro è stato per me un vero arricchimento culturale perché sconoscevo (come la maggior parte degli italiani) molti degli avvenimenti storico/politici della Francia del ’39, in particolare di Marsiglia, peraltro messi in rapporto con la situazione evolutiva italiana dell’epoca. La scrittrice, è stata molto brava nel narrare gli eventi con naturalezza, senza affannarsi in particolari spiegazioni, o in forbite ricostruzioni storiche, dando al lettore solo gli stimoli per poter arricchire il suo bagaglio culturale con delle ricerche da sviluppare a parte (e che sinceramente consiglio, per meglio gustarsi il romanzo e soprattutto, capire il gran lavoro di meticolosa ricostruzione storica svolto da Stefania Nardini). Grazie a Lei, oggi conosco l’OVRA con le sue nefandezze, Philippe Pétain e il governo di Vichy con il sogno di “deportare tutti gli ebrei dell’Europa occupata sull’isola del Madagascar, colonia francese, per farne una riserva giudea”, la resistenza dei marsigliesi all’occupazione nazista, e il clima di tensione fratricida che ha regnato in quel tempo.
Grazie a Stefania Nardini conosco, anche e soprattutto, Marsiglia come una “città italiana” popolata da esuli laziali, campani e piemontesi, fuggiti dalla patria fascista regolata da insulse leggi razziali, e dalla miseria più nera, posti innanzi al difficile obbligo di scegliere fra la doppia cittadinanza quella alla quale appartenere per sempre innanzi all’immediatezza della guerra. Scelta ridotta in seguito al semplice sottoscrivere una “dichiarazione di fedeltà” alla Francia benevola che li ha ospitati e che, dati gli avvenimenti, li vede come potenziali nemici.
Grazie a Stefania Nardini, conosco meglio Marsiglia con il suo Mistral, il suo porto, i suoi boulevards e Notre Dame du Mont. Il suo sfregio dovuto ai bombardamenti tedeschi e la balorderia dei gruppi criminali italo/francesi, i “caids”, che governano la città con le loro attività illecite del traffico d’armi, e della prostituzione, con i relativi regolamenti di conti, e che tramite il porto gestiscono ogni tipologia d’affare illecito, da quello romantico dell’olio e del parmigiano, a quello della droga che poi diventerà il business del secolo.
Ma non solo. Sempre grazie alla scrittrice romana ho conosciuto meglio una realtà artistica/culturale tipica dell’epoca, come quella del teatro d’avanspettacolo. Con i suoi lustrini, e i suoi spettacoli di magia e trasformismo. Ne ho respirato l’aria frivola delle sue ballerine, o quella furba dei suoi impresari, o quella divorata dal fuoco dell’arte dei veri artisti.
E soprattutto grazie a Stefania Nardini ho letto un bel romanzo corale con protagonisti dai tratti psicologici completi e ben delineati, immersi in una storia fresca e del tutto credibile, narrata con sapiente e rara sensibilità, del tutto umana, senza mai usare parole fuori luogo. Senza alcuna sbavatura o volgarità, a tratti poetica ed emozionante. Su tutti il capitolo “Tritolo” degno di far parte di una antologia per studenti delle scuole superiori.
Alcazar è la storia di una travolgente incondizionata passione amorosa, di una smisurata e nobile amicizia, di un amore filiale e coniugale sconfinato. Alcazar è un romanzo di valori e grandi sentimenti sempre narrati con semplicità, moderazione e tanta classe stilistica. E poi, ancora, Alcazar tratta alcuni temi sgradevoli come l’omofobia e l’antisemitismo, attuali oggi come allora, e sui quali è importante insistere per sviluppare meglio le coscienze di pacifica condivisione.
Cos’è Alcazar, cosa rappresenta e rappresenterà nella sua trasformazione, mi si passi il vezzo di non spiegarlo al solo scopo di costringervi a questa lettura che consiglio vivamente, ma prima, per meglio penetrare lo spirito, respirare il tempo e girare la chiave che apre la porta attraverso la quale si torna indietro di settant’anni, ascoltate alcuni brani musicali citati dall’autrice, che delineano il contesto storico dell’epoca. Canzoni come “Non dimenticar le mie parole” o “Parlami d’amore Mariù”. Così, immersi nell’odore della brillantina Linetti e delle alici fritte, sferzati dal Mistral o cosparsi dalle nuvole di fumo emesse da grandi e lunghi bocchini, gusterete ancor di più “Amapola”, la canzone d’epoca e colonna sonora dell’intero romanzo, che sicuramente vi accompagnerà per tutto il tempo della lettura, e che partirà in automatico nelle vostre menti, ogni volta che vedrete il viola della copertina. Allora un sorriso di piacere vi prenderà il cuore. Il sorriso del ricordo di aver letto un buon libro.

martedì 25 marzo 2014

S'i fosse Rosario Palazzolo

 
Intervista a Rosario Palazzolo
di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
 
Ritengo che intervistare Rosario Palazzolo sia una cosa particolarmente complessa, perché complesso è l’uomo con tutta la sua opera letteraria (L’ammazzatoreConcetto al buioCattiverìa pubblicati tutti con Perdisa Pop) e la sua opera teatrale di attore, regista e drammaturgo (I tempi stanno per cambiare – “Trilugia dell'impossibilità Ouminicch'  'A CirimoniaLetizia forever e Dittico Del DisincantoVisita guidata e Tauromachia).
Ma io che lo conosco e posso parlare di lui, dico che è una persona brava, stramba e generosa. E in ogni caso è un uomo geniale. E a una persona così, che intervista si può mai fare? Una di quelle classiche sui suoi libri? Una di quelle stupide sui suoi gusti? Oppure una a metà fra le due e chiedergli pure alla fine che cosa farà, o quali sono i suoi progetti futuri ecc. ecc.. No! A Rosario Palazzolo facciamo solo un’intervista singolare, perché Lui, da Singolare, sa bene cosa rispondere, così conoscete meglio l’uomo e il genio.
E mi permetto pure di far incavolare Cecco Angiolieri massacrandogli la sua S'i fosse foco
D - S'i fosse foco?
RDirei cose infuocate, sempre, e con una lingua assai biforcuta, pure, e smetterei di starmene per i fatti miei e soprattutto smetterei di dirmi che in fondo stare per i fatti miei è la cosa che preferisco ché in realtà non la preferisco proprio, come cosa, o perlomeno non più e non meno delle altre cose che preferisco ché se proprio dovessi ammetterlo direi che di cose che preferisco ce ne sono parecchie ma da un po’ è come se tutti pensassero che mi piace stare per i fatti miei e Lasciatelo perdere quello, dicono, Perché è uno a cui piace stare per i fatti suoi, e invece, se fossi fuoco, ecco se fossi fuoco, mi piacerebbe starmene a lungo nei fatti degli altri, e bruciare tutte le idiozie dei fatti degli altri, specie di alcuni altri, i quali vivono come se la vita li riguardasse più di ogni altro e politicano e s’azzuffano e sermonano e se è il caso urlano che il mondo non li vuole ché il mondo è troppo cattivo, il mondo, e non li accetta così come sono e invece il mio fuoco li farebbe proprio così come sono, niente.
D - S'i fosse vento
R – Volerei da tutte le parti e guarderei da tutte le parti, in tutte le parti di tutte le parti, e in tutte le parti, certamente, scorgerei qualcosa d’interessante e di nuovo ma pure di vecchio, soprattutto di vecchio, scorgerei, quasi da tutte le parti, e perciò mi convincerei che in fondo volare da tutte le parti non è poi quella gran cosa che ci figuriamo quando sospiriamo Oh se potessi volare da tutte le parti, e che volare da tutte le parti non è altro che volare da tutte le parti, mi direi, solo una risposta banale alla necessità che proviamo di volare da qualche altra parte, una necessità definita, voglio dire, che immediatamente ingigantiamo perché è l’indefinito il luogo che davvero agogniamo, il maledetto luogo agognato, ecco perché è da un po’ che tengo le finestre chiuse, io.
D - S'i fosse acqua?
R – Mi racchiuderei, mi delimiterei, mi farei acquitrino o stagno al massimo palude ché se uno è acqua mica può urlare al mondo intero Io sono acqua, e fare le cose tipiche da acqua come esondare e distruggere ché la natura già ti ha fatto acqua e questo dovrebbe bastarti e avresti solo l’obbligo di ringraziare la natura che ti ha fatto acqua, e per niente al mondo dovresti permetterti tutta la tracotanza tipica dell’acqua come esondare e distruggere, anche perché già ce ne stanno parecchi che pur non essendo acqua lo stesso esondano e distruggono e si comportano da acqua e sussurrano Io sono acqua con una supponenza talmente ruffiana e una ostentazione talmente volgare e una ritrosia talmente sciocca che a te che non sei acqua ti viene voglia di deumidificarti continuamente, per precauzione.
D - S'i fosse Dio?
R – Godrei moltissimo nel moltiplicare i pani e i pesci e i vini e amerei soltanto le moltiplicazioni e sopprimerei le divisioni e le addizioni e le sottrazioni perché non servono un granché a volerci riflettere nella vita di un dio ché nessuno s’impressiona col due più due oggidì, e me ne starei seduto a sghignazzare delle reazioni umane ché farei piangere tutte le madonne, ridere i cherubini e dall’alto dei cieli tuonerei una volta ogni tanto In verità in verità vi dico e sarei un professionista dell’invenzione, creando sempre frasi molto sibilline e fulminerei a campione l’umanità un poco qui e un poco là come una sorta di tiro a segno ché oggi morirebbe un buono e domani un cattivo o viceversa, stando attento a non fornire elementi per eventuali misurazioni morali perché in definitiva sarebbero ugualmente tutti buoni e tutti cattivi, per me, gli uomini, e perfino i cattivissimi e i buonissimi non sarebbero differenti davanti ai miei occhi, che poi sarebbe grazioso averceli, gli occhi, ora che ci penso, se fossi dio.
D - S'i fosse papa?
RMi abolirei.
D - S'i fosse imperator?
R – Farei sempre la guerra, solo la guerra, e direi al popolo Popolo occorre amare la guerra, e il popolo amerebbe la guerra, sicuramente, ché solitamente il popolo ama la guerra, sempre, anche se urla pubblicamente Io odio la guerra, lui, il popolo, la ama, forse perché è l’unico modo, la guerra, per essere popolo fino in fondo, veramente, testa e piedi, e difatti quando non c’è una guerra il popolo non fa per niente il popolo o almeno fa il popolo come se non esistesse alcuna popolazione e pensa a se stesso come se fosse il solo essere in vita, come se fosse il popolo di se stesso, come se la sua casa fosse l’unico regno possibile, l’ascensore un luogo per negoziare l’appartenenza a un condominio di cui si è gli unici apportatori di grazia e educazione e intelligenza e Finché ci sono io questo sarà un luogo migliore, difatti, pensa, il popolo individuale, e si batte per tutte le cause che lo riguardano, e certe volte si spinge persino fuori regno, sentendosi popolo con qualcun altro solo dopo i dovuti accertamenti, e grida e si dimena e piange la disperazione del mancato raggiungimento di un sogno, del mancato appagamento, del mancato riconoscimento, e insomma se ci fate caso il popolo si fa popolo solo quando gli manca qualcosa, e ecco che io, se fossi imperatore, gli darei la guerra, ogni santo giorno, al popolo, solo per il suo bene, naturalmente.
D -  S'i fosse morte?
RNon mi sentirei morte, a onor del vero, ma ideatrice di stratagemmi, organizzatrice di diversivi, e farei le cose che fa la morte con estrema precisione, scindendo l’etica dall’estetica, e ogni morte sarebbe un artifizio incredibile, porterebbe il segno della mia creatività, e studierei nuovi modi, nuove opportunità, e comprerei molto spesso la settimana enigmistica, probabilmente, leggendo e rileggendo la rubrica “Forse non tutti sanno che” alla ricerca di una qualche ispirazione, e non sarebbero certo i pianti di chi resta a offendermi, ma la mancanza di sportività di chi parte.
D - S'i fosse vita?
RFarei tale e quale alla morte, solo con qualche scongiuro in più.
D – S’i fosse Rosario Palazzolo
R – Direi sì e poi no e poi forse e amerei e odierei alla stessa maniera le stesse persone e non mi sentirei di appartenere a nessun ideale e non tanto per un fatto morale, semplicemente per pigrizia ché appartenere a fatti ideali comporta una fatica e una pazienza e un tradimento che non saprei tollerare, e mi dimenerei soltanto per le cause perse ché tanto sono già perse e non dovrei metterci nulla di mio e per lo più starei zitto e mi occuperei delle cose che più detesto e soffrirei di una gastrite incurabile, perciò, che nessun omeoprazolo potrebbe curare e ogni cosa mi sembrerebbe solo una maledetta perdita di tempo e perderei tutto il mio tempo, dunque, per ogni cosa, ché il tempo è l’unica cosa che ci è dato perdere, tolte le chiavi, e soprattutto, se fossi rosario palazzolo, accetterei di rispondere a interviste come questa, e lo farei di domenica pomeriggio, probabilmente.
Intervista di Ivo Tiberio Ginevra

Il brigante e la mondina

 
UMBERTO DE AGOSTINO
Fratelli Frilli Editori
Anno : 2013
 
Recensione di IVO TIBERIO GINEVRA
Pubblicata su www.thrillercafe.it
 
Giallo storico dal carattere originale al sapore di riso.

 È il 1902. Il brigantaggio è ancora presente in tutta la nostra penisola. Anche la Lomellina non fa eccezione. Uno dei suoi personaggi di spicco è Francesco De Michelis detto “Biundèn”, nato in provincia di Alessandria (Villania Monferrato il 16 marzo 1871) da padre fornaio e madre mondina. È proprio lui, Biundèn, il brigante realmente esistito, che rivive nelle pagine del romanzo di Umberto De Agostino come co-protagonista insieme alla mondina Gina Provera.
Francesco De Michelis inizia giovanissimo una vita di duro lavoro come conduttore di carri, per poi darsi alla macchia a causa di un duplice omicidio che lo vede coinvolto. Successivamente entra a far parte della banda di Luigi Fiando, noto col soprannome “Moretto” diventando il suo braccio destro. Dopo l’uccisione di quest’ultimo, segue la sua condanna all’ergastolo in un processo che lo vede contumace e la fuga in Emilia, per poi tornare nelle sue terre e riprendere il brigantaggio con una nuova banda. Muore nel giugno del 1905, ucciso in un conflitto a fuoco da un carabiniere che non l’aveva riconosciuto come il Biundèn, ma scambiato per un semplice ladruncolo in una cascina in occasione di una festa fra mondine.

 De Michelis, però, non è un bandito nel senso classico del termine. È piuttosto cortese di modi e d’aspetto, anzi bello e vestito elegantemente. Questo gli vale anche il soprannome di Passator delle risaie, ad imitazione del più famoso Passator Cortese dell’Emilia. La sua capacità di saper scappare dagli arresti prendendosi gioco dei carabinieri, contribuisce ancor di più ad accrescere il mito e il suo fascino, che egli sa alimentare amando molto la vita delle grandi città, le feste e soprattutto le belle donne; l’ultima di queste avventure con una giovane mondina, è la cagione della sua morte.
L’altro protagonista del romanzo, così come dice lo stesso titolo, è la mondina, Gina Provera “la pasionaria”, che contrariamente al Biundèn, è un personaggio di fantasia, ma che racchiude in sè tutte le qualità caratteriali della mondina dell’epoca. Testarda, sognatrice, e al contempo rassegnata e guerriera. Gina in poche parole è tutto questo, e anche più. Gina è un capopopolo che odia i padroni e il loro sferzante potere del lavoro che esercitano in modo disumano. Lei, infatti, lavora tutto il giorno, dalle prime luci dell’alba fino al tramonto e senza pause, senza distrazioni. Come un mulo. Come tutte le mondine di allora.
 Entrambi i protagonisti di questo romanzo vivono e operano nelle campagne della Lomellina, tra Novara, Vercelli, Pavia, Robbio, Vigevano; nella cosiddetta Risaia d’Italia proprio nel periodo in cui si costituiscono spontaneamente i primi sindacati dei lavoratori (Federazione Proletaria Lomellina affidata a Pietro Corti). Nascono anche le prime agitazioni sfocianti in scioperi organizzati che, stranamente non repressi dal governo di Giolitti, sono con forza contrastate dai padroni e dai fittabili, e sfociano in una lotta di classe, ben documentata dai primi articoli sul settimanale di Pavia “La plebe”. Sono queste le prime rivendicazioni sindacali dell’epoca e sono ancora uguali allora come adesso: orario di lavoro non eccedente le otto ore lavorative e commisurate al giusto salario; sicurezza sul posto di lavoro (e all’epoca si stava immersi un’intera giornata chinati nell’acqua infestata da sanguisughe, bisce e zanzare).
In quest’ambiente il brigadiere dei carabinieri Angelo Pesenti svolge le sue indagini sull’omicidio del fittabile Pietro Gusmani (fra un movente politico ed uno passionale) che involontariamente lo porterà sulle tracce dell’odiato Biundèn.
La bellezza di questo libro è tutta nell’accurata ricostruzione di questo clima politico, rurale, tradizionale, impastato da un folklore vivo e quotidiano, ben reso dalla parlata dialettale o dalle canzoni delle mondine che facilitano ancor di più il lettore a compenetrarsi nel periodo storico ed a comprendere le stesse vicende dei protagonisti.
A Umberto De
Agostino va il plauso per questa precisa ricostruzione storica che è un incontrovertibile atto d’amore al suo territorio, nonché il merito di aver saputo miscelare alla perfezione fantasia e realtà, trasportando il lettore in un perfetto clima noir dal sapore rurale.

IL gioco delle sette pietre

ALBERTO MINNELLA
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

“I lividi hanno una memoria tutta loro, pensò Portanova”Da Siracusa si affaccia sul panorama giallistico italiano il commissario di PS Paolo Portanova. Il suo Demiurgo è Alberto Minnella, classe ’85, siciliano di Agrigento e giovane, anzi, straordinariamente giovane per aver scritto un romanzo così ricco di personalità da lasciare  meravigliato il lettore sia per la padronanza del linguaggio, sia per l’originale costruzione stilistica della storia, sia per la profonda caratterizzazione del personaggio di Paolo Portanova e del luogo dove è ambientato  il romanzo: Siracusa.
La città Aretusea, insieme al commissario Portanova è la coprotagonista di questa breve opera narrativa. Indubbiamente amata alla follia dal Minnella è sempre partecipe in ogni momento dell’azione, a volte come una bella donna matura, o ricca, ora piena di fascino o selvaggia, malinconica compagna sempre dotata di una personalità meditabonda dalle mille sfaccettature ereditate in millenni di storia e tutte riflesse su Paolo Portanova, siciliano da sempre, nel midollo, nel capello, nel pensiero, nell’anima. In tutto.
L’inizio del romanzo è lento. È dovutamente lento, perché solo in questo modo Siracusa e il suo commissario possono entrare nel corpo del lettore e incuriosire al prosieguo di una storia senza cadavere, ma con un mare di sangue, in una notte piovosa di capodanno, in un susseguirsi di facce allegre, facce assassine, facce innamorate e belle. Brutte facce e doppie facce. Facce invisibili che sparano. Che ammazzano.

Una vita ricca di routine quella di Portanova. Abitudini coprenti atte a scandire i ritmi di una esistenza monotona, nei rapporti, nei sentimenti, nel mangiare, nelle pietre. Nel tempo. Routine consumata oramai solennemente con il sigaro nella mano destra, o nell’attesa della nuova pietanza del giorno, ma tutto sempre in un pugno. Nei pugni serrati dentro le tasche. Impotenza e routine anche questa. Malinconia di gesti in fugaci pensieri armonici con il luogo e con il tempo. Tempo variabile, tempo cattivo. Cattivo tempo, come cattiva è questa storia. Intrisa di pioggia e sangue. Di pensieri e azioni che vengono giù come l’acqua di un temporale pronta a lavare via tutto. Ma è pioggia amara che ingoia ogni cosa. Gesti e pensieri. Abitudini e speranze. Sangue. Finché l’azione giunge all’apice di una storia intricata e nera. Oppressa dal cielo nero, carico e denso. Una cappa che incombe e scoppia in acqua di sangue. Sangue improvviso che sveglia, sgorga, pulsa. Travolge e stravolge, uomini e cose, fino a quando ogni cosa, ogni pietra non verrà lestamente rimessa a posto su una colonna traballante, ma che darà significato a tutto, al suo inizio lento, al suo flash-forward, alla stessa citazione del Levitano di Hobbes Auctoritas non veritas facit legem (l’autorità non la verità, fa la legge). Inspiegabile all’inizio, ma che alla fine è il grande senso di questo romanzo.

Il gioco delle sette pietre di Alberto Minnella è una lettura che mi sento di consigliare a tutti.
I miei complimenti a Alberto Minnella e alla Frilli Editori che inizia a scendere verso il Sud.

giovedì 30 gennaio 2014


Il Commissario Cazzavillani "Lo scuorno della giustizia"

Oreste Patrone

Lo trovate su Amazon
 
Recensione di   pubblicata su www.thrillercafe.it
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Recensisco volentieri “Lo scuorno della giustizia” di Oreste Patrone e per mia onestà intellettuale e per il rispetto di chi legge, premetto:
che io sono amico dello scrittore;
che Oreste Patrone è un collaboratore di Thrillercafè;
che questo è un libro autopubblicato;
e che io non ho alcun pregiudizio per i libri autopubblicati perché se uno scritto è buono, a me non importa altro.
Detto questo, lo recensisco con piacere dato che questo è un buon libro, rifuggendo da ogni polemica e trattandolo solo per quello che è, e ripeto: un buon libro.
Lo scuorno della giustizia di Oreste Patrone è la pubblicazione dei racconti del Commissario Cazzavillani. Lo so. Avete ragione. Cazzavillani non si può dire, suona proprio male, è un’indecenza, poi nome e cognome messi insieme sono un disastro: Evaristo Cazzavillani. Eppure il Cazza, come lo chiamo io affettuosamente, ha un qualcosa che ti piglia subito. Ti affascina, ti graffia, ti centra dritto al cuore creando una sana dipendenza, e per di più ti affezioni sul serio a quest’atipico personaggio, perché il Cazza è unico ed è tutti noi, così come alle volte, o almeno una volta sola nella nostra vita vorremmo essere.
Il personaggio nasce sul blog di Oreste Patrone, dove l’autore per diversi mesi ha postato quasi ogni giorno i racconti del commissario Cazzavillani (ecco spiegato il motivo della dipendenza). Diciamo pure, che per mesi e stato come una striscia giornaliera che io personalmente ho atteso con piacere, perché già dal terzo racconto avevo bisogno della dose di buon humour nero quotidiano di questo strambo commissario dell’immaginario comune di Teresina a Mare, in provincia di Caserta, definito dal suo stesso Questore come “la vergogna del corpo della polizia”. E il Cazza non solo è strambo, perché irritabile senza ragione, o svogliato fino all’inverosimile, o peggio ancora: opportunista. Il Cazzavillani è unico, perché è del tutto sprezzante. La sua completa visione dell’esistenza giornaliera è sprezzante, cinica e sfrontata. Rasenta di continuo la demenzialità, o l’imbecillità più assoluta facendo anche il verso ai più blasonati commissari della letteratura, ma sia chiara sempre una cosa: Cazzavillani non è uno stupido! Sa sempre bene quello che fa.
I racconti, o meglio, gli episodi di vita contenuti ne Lo scuorno della giustizia, sono 24. Sono brevi. Vanno dalle 3 alle 8 pagine e sono scritti in un confidenziale stile parlato, quotidiano e sintetico. E tutti, dico Tutti, riescono sempre a strapparti un sorriso o anche una risata. Demenziale, o ironica, profonda o spiazzante. Una risata a volte inopportuna, ma del tutto coerente con il personaggio, e il suo creatore è bravo nel saperla amministrare, perché non la cerca sempre e in ogni caso. E anche se qualunque racconto termina con ilarità, o con una smorfia di forte sarcasmo, resta sempre in chi legge la disarmante ragionevolezza, che tutto questo ci sta sempre bene, perché è giusto così, nella sua episodicità spontanea e logica.
Il Cazzavillani è un quarto d’ora d’intelligente divertimento pieno d’ironia, con battute e riflessioni rapide e azzeccate che fanno inghiottire la pillola amara delle tante storture della moderna quotidianità con un sorriso. Un semplice sorriso che si trasforma in appuntamento col buonumore.
Dire che lo consiglio è poco. Amatelo!
Bones
Quando non è impegnato a dare la caccia ai malviventi, Cazzavillani trascorre le sue serate a casa, per lo più a guardare la televisione. È un grande patito delle serie americane. Una che gli piace assai è Bones.
Temperance “Bones” Brennan, è una brillante antropologa forense specializzata nell’analisi dei resti umani.
Il commissario Cazzavillani, ogni volta che la vede in televisione, fa dei pensieri che con la morte non c’hanno niente a che vedere. Diciamo che ci farebbe sesso sfrenato sopra il tavolo di acciaio inox della sala autoptica con tutti gli scheletri attorno ad applaudire la sua prestazione.
Oltre ad essere sexy, la dottoressa Brennan ci sa fare coi morti: guarda un teschio per un paio di secondi, magari uno vecchio di trent’anni, e ti dice sesso, età, causa della morte e programma televisivo preferito.
È forte, la dottoressa Brennan. Al commissario Cazzavillani ci piace assai.
Poi c’è la sua collega, Angela, che mette tutto dentro un computer e fa il manichino tridimensionale del cadavere morto com’era da vivo, tale e quale. Talmente preciso che ci potrebbero fare la foto per la patente. Se fosse vivo, chiaro.
Pure lei è niente male. Pure con lei il commissario ci farebbe un po’ di pratica. Un bel po’, per dire la verità.
A quel punto, un pensiero più indecente s’insinua nella mente del commissario: Angela e Temperance… insieme!
No, non è il caso. L’unica speranza di finire nelle mani delle due antropologhe del Jeffersonian Institute è da morto e Cazzavillani non ci tiene, così si da un’energica grattata all’apparato forense e spegne la televisione. E statt’ bones.
Lo trovate su Amazon.

Le geometrie dell'animo omicida

   
  Le geometrie dell'animo omicida
  Monica Bartolini
  Scrittura e Scritture Edizioni
  Anno 2013
  Pag. 219
 
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it 
 
La prima impressione che ho avuto leggendo il libro di Monica Bartolini è stata quella di sentirmi in famiglia. La famiglia del maresciallo Piscopo per l’esattezza. Napoletano doc a lavoro nella mia splendida Sicilia. Molto interessante, un gran miscuglio di quotidiana meridionalità.
Una gran bella famiglia la sua. Con il figlio, Francesco, promettente allievo della Scuola per marescialli a Roma e insoddisfatto del suo lavoro, che da orgoglio paterno si trasforma in spina nel fianco. Con Pina, sua moglie, donna di casa all’antica, chioccia e complice del marito. E soprattutto Tina, altro orgoglio di papà Nunzio, che all’occorrenza sa improvvisarsi valente, quanto improbabile investigatore, e quindi anche più spina nel fianco di suo fratello Francesco nel sensibile sistema nervoso del maresciallo Piscopo, alle prese con un’indagine particolarmente delicata. Ecco perché quando mi hanno detto cosa pensavo di questo libro ho risposto: “Uno legge un giallo e gli pare di stare in famiglia”. E, attenzione, io di famiglia fino a ieri avevo solo quella di Vigàta.
L’indagine è molto attuale e verosimile. Si tratta dell’omicidio di una giovane donna ritrovata all’interno di un’auto bendata e con le mani e i piedi legati. Un enigma complesso senza un movente palese. Un’indagine che si complica nel suo svolgimento, grazie anche ad un affascinante giornalista ficcanaso, che a sua volta cerca di scoprire la verità. Tutto normale, in fondo. La cosa insolita, ma del tutto insolita, è che oltre a questi due tradizionali metodi d’indagine se ne affianca uno del tutto anomalo: “L’astrologia”. Metodo diametralmente opposto ai due precedenti e al contempo privo di credibilità, a meno che le mappe astrali dei personaggi non siano azzeccate e frutto di una profonda conoscenza della materia, che applicata alla vicenda portano alla risoluzione del caso.
Personalmente ritengo geniale l’aver concepito l’astrologia quale metodo d’indagine nel panorama della letteratura gialla, oltre a rappresentare una gran ventata di freschezza innovativa. Un’idea vincente fino ad ora neanche pensata e sì che tra finzione e realtà siamo abituati a tutto, dalla presenza di medium ricchi di percezioni extrasensoriali a improbabili consulenti satanici. Beh, da oggi almeno nella fantasia, c’è anche l’indagine astrologica prospettata in modo semplice ed efficace, dalla penna fluida e originale di Monica Bartolini.
Altro punto di forza de Le geometrie dell’animo omicida, è l’introspezione psicologica dei personaggi narrata con semplicità razionale, disarmante e del tutto completa, con un linguaggio talmente scorrevole da far sentire il lettore, solo dopo poche pagine, padrone delle dinamiche dell’indagine e amico di vecchia data della famiglia Piscopo, con la rara naturalezza di essere presente e parte della storia, che non è mozzafiato, o ricca di colpi di scena magistrali, ma soltanto semplice, dato che si adatta perfettamente alla realtà italiana degli ultimi anni.
I miei complimenti a Monica Bartolini e ai suoi audaci editori, ora però, aspetto il prossimo libro per ritornare a casa, nella mia adottata famiglia Piscopo.

domenica 17 novembre 2013

Una posizione scomoda


FRANCESCO MUZZOPAPPA
Fazi Editore
Anno 2013
Pag. 223

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.letteratitudine.it

 Obporno collo.

Fabio Loriero è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. È una giovane promessa. È l’allievo preferito di registi del calibro di Gianni Amelio e Sorrentino. La stampa lo indica come l’erede di Rulli e Petraglia. Appena uscito dal Centro lo cercano tutti, ma lui rifiuta di lavorare alla sceneggiatura di “Un medico in famiglia”, sbatte il telefono in faccia ai produttori di “Un posto al sole” e addirittura brucia il biglietto da visita del produttore della nota serie televisiva “Don Matteo”. Questo perché Lui, è orgoglioso. Lui è migliore del corso, l’erede dei grandi sceneggiatori italiani e non può abbassarsi a scrivere per le fiction. Ma Fabio Loriero commette l’errore di perseverare e continua rifiutando tutto finché, un giorno il suo telefono non squilla più e lui cade in depressione e senza soldi. Vede i suoi colleghi di corso lavorare con Verdone, Archibugi e anche all’estero, ma soprattutto vede l’ascesa del suo amico Giovanni Settemacchie alle vette del cinema che conta. Giovanni, infatti, lavora con Bertolucci. Sì proprio Giovanni. Il più cretino del corso, e lui? La grande promessa, che fa? Fa cose incredibili! Fa sceneggiature a base di “OOO”, e spesso litiga con il suo produttore che le vuole a base di “AAA”. Sissignore, è pazzesco, ma Fabio Loriero per vivere fa lo sceneggiatore di film porno. Così mentre i suoi colleghi fanno carriera e scrivono per grandi registi, lui sprofonda negli abissi del cinema porno scrivendo sceneggiature-parodie di film o romanzi di successo come: “Il profumo del maschio selvatico”, “Dorian Gay”, “Analcord”, “Erezioni di piano” ecc.. Fabio fa questo lavoro senza un minimo di passione, nascondendosi da tutti, costretto a celare e mentire per salvarsi dall’umiliazione di lavorare nel porno. Ma nonostante tutto il nostro “Fabius” è sempre un artista di qualità e alla fine riesce pure a vincere il premio come miglior sceneggiatore all’XXX Festival del cinema porno a Cannes con “L’importanza di chiavarsi Ernesto”, parodia del capolavoro di Oscar Wilde (non oso immaginare cosa succede alla giovane Cecily e Miss Prism, anche se appare ovvio).

Altro ancora riserva la vita al nostro eroe, ma per non togliervi il piacere della lettura mi astengo dal raccontare il seguito, anche se volendo potrei farlo, perché il fascino di questo libro, non sta soltanto  nella freschezza e strampalatura della trama, ma soprattutto in quell’umorismo amaro, costellato da fallimenti e speranze infrante, che grazie alla grande auto ironia del narratore si trasforma in un piccolo capolavoro d’assoluta comicità, dove spesso ci si sorprende a ridere di gusto in un momento topico: “Indossava un cappellino che definire eccessivo è riduttivo. Corrisponde esattamente a ciò che sceglierebbe la Regina Elisabetta nel caso decidesse di sfilare nel carro inaugurale del gay pride.” Battute come questa si susseguono per tutta la durata del libro, ma senza strafare. Messe sempre al momento e al posto giusto. Senza far diventare l’opera il monologo di un comico strappa applausi, mantenendo sempre il sottile equilibrio fatto d’auto ironia, comicità e irriverenza, senza scendere mai nel volgare, restando per giunta in una tematica che di per se è piuttosto triviale. Il porno, infatti, non disturba affatto il lettore restando un argomento incidentale, inoltre il linguaggio di Muzzopappa è sempre piacevole, fatto da lunghi monologhi a frasi brevi.

La caratterizzazione del personaggio è ottima e Fabio suscita subito le nostre simpatie proprio per quella sfortuna che lo perseguita, dato che oramai si è epurato dall’orgoglio dei sogni di gloria dell’Accademia e da tempo si sbatte come migliaia di giovani d’oggi alla ricerca di un lavoro, sapendosi adattare anche a cose che mai si sarebbe immaginato di fare pur di risolvere le proprie necessità economiche. Si vergogna, certo! E vive in Una posizione scomoda fatta di segreti, imbarazzi e doppi sensi, ma è tenace, tosto, e non si abbatte nella ricerca di realizzare il suo sogno.

In conclusione il libro di Francesco Muzzopappa è molto gradevole. Fa ridere per la quantità impressionante di battute comiche e situazioni sui generis lanciando il messaggio ai giovani di non mollare e credere nei sogni anche se nel suo caso il protagonista per affermarsi, Obporno collo, si è trovato spesso in Una posizione scomoda.

Operazione Madonnina

 
R. Besola – A. Ferrari – F. Gallone
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013
Pag. 220
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
Ho letto di furti audaci, strampalati e religiosi, su tutti D. Westlake con “Meglio non chiedere”, dove una banda d’affermati professionisti del crimine diretta da Dortumunder ruba la reliquia miracolosa di Santa Fergana.
Ho visto film di furti audaci, strampalati e religiosi, su tutti “Operazione San Gennaro” con il grande Nino Manfredi nella parte di Armanduccio Girasole detto Dudù e con nel mirino l’inestimabile valore del tesoro del patrono di Napoli.
Oggi ho letto di un furto audace, strampalato e religioso fatto da Angelo (il Cencio), Osvaldo (il Gigante), Lorenzo (il Gagà). Una banda improvvisata, alter ego dei tre scrittori italiani che nella vita fanno proprio gli stessi mestieri dei nostri raffazzonati furfanti, e infatti, Riccardo Besola è un pubblicitario (il Gagà e mente del gruppo), Andrea Ferrari dirige una comunità per anziani con balera e bocciofila (il Gigante) e Francesco Gallone vende fiori artificiali al mercato (il Cencio).
Il furto è fra i più incredibili che una banda abbia mai pensato di effettuare. Si tratta di rubare  un’enorme statua tutta d’oro. 500 chili d’oro, alta più di 4,00 metri, posta a circa 100 metri d’altezza, nel posto più in vista della città di Milano e in quello più arduo da raggiungere. E sì, l’avete intuito. Si tratta proprio della Bella Madonina che te brilet de luntàn tutta d’oro e… Tutta d’oro? D’oro un cavolo. Quella è la leggenda. Nei fatti è semplice rame dorato, ma i tre invece la credono veramente d’oro e non devono far altro che rubarla con l’aiuto di un elicottero, poi una volta ridotta a pezzi, ricavarci più soldi possibili per risolvere ognuno i sui problemi, perché la nostra banda è decisamente ridotta alla canna del gas in una Milano del 1973, dove trionfa l’edilizia selvaggia (l’Osvaldo rischia di perdere il suo ristorante con bocciofila se non lo riscatta a danno di un costruendo orribile stabile in via Ripamonti), dove proliferano bande criminali che tengono sotto scacco la polizia (il Gagà per qualche prestito in più rischia di essere ammazzato dagli strozzini) e dove si vede per la prima volta l’affacciarsi in quella realtà dello spettro della disoccupazione (il Cencio ha perso il suo lavoro da fioraio e deve mandare avanti la numerosa famiglia).
Rispetto ai citati Dortumunder e Dudù che rubano solo per denaro, per il nostro trio far sparire la Madonnina non è solo risolvere i rispettivi problemi economici, ma qualcosa di più, è quello che “mai nessuno, prima d’ora ha osato fare: profanare il simbolo stesso della città di Milano. La città che ha generato il loro bisogno ha generato anche la loro necessità. E la loro necessità è tremenda, in tutta la sua disperazione”. Oltre ai soldi c’è di più, molto più della rivalsa di gente disperata che in questa città ha visto il pane “Milan gh’è il pan”. In questo gesto disperato c’è “il significato simbolico, la metafora di rubare ciò che di più prezioso e rappresentativo possiede chi ti ha tolto tutto. Tutto….. e Osvaldo per la prima volta prova un odio profondo per quel catino di menzogne di cemento e menzogne che è diventata la sua città. Milano che oramai è amara come un bicchiere di olio di ricino”.
Il piano è semplice da attuare. Basta un elicottero, imbracare la statua e via, ma se il pilota è un reduce americano della seconda guerra mondiale che ogni volta attacca la solfa di: “Eravamo io, Johnny Michigan, Karl e Lenny Malone”, allora le cose si complicano.
Operazione Madonnina oltre a Angelo, Osvaldo e Lorenzo ha altri due protagonisti minori altrettanto completi e ben caratterizzati: l’ispettore di PS Benito Malaspina (chissà se i tre scrittori sono a conoscenza che il carcere di Caltanissetta si chiama proprio con il cognome del poliziotto) ossessionato dall’essere al centro dei pensieri del boss Ugo Piazza che vuole ucciderlo per vendetta e Dino Lazzati detto Fernet, superstizioso e valido giornalista di cronaca nera. Ma tutti i personaggi di quest’opera sono ideati nel modo migliore. Sono completi, psicologicamente trattati, perfetti e socialmente inseriti in quella Milano del 1973, così ben ricreata anche nei dettagli politico sociali.
La narrazione in terza persona è bella, lucida, serrata, efficace, diretta, ironica quanto basta e intercalata da dialoghi in dialetto milanese piacevoli e caratteristici, che fanno vivere perfettamente l’ambientazione, l’epoca dei fatti, le miserie e i tradimenti del dopo boom economico della nostra Italietta.
Questa impeccabile dimensione storico-sociologica, la stessa trama di per sé originale, l’ottima caratterizzazione dei personaggi tutti, e il brillante stile narrativo, collocano l’opera del trio Besola – Ferrari – Gallone fuori dal romanzetto e la fanno meritevole di un posto di considerazione nella moderna narrativa italiana, più che capace di confrontarsi con quella d’oltre oceano, e di fronteggiare a testa alta i colossi dell’editoria commerciale.
recensione di Ivo Tiberio Ginevra

La notte del gatto nero


ANTONIO PAGLIARO
Guanda Editore
Anno 2012
Pag. 207

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

La notte del gatto nero è un grande romanzo senza il bene e senza eroi, scritto da un narratore con linguaggio lucido e universale. Uno scrittore davvero bravo.
 
Avviso che questa recensione contiene spoiler e soprattutto l’esortazione a leggere questo buon romanzo italiano, a mio parere fra i migliori pubblicati negli ultimi due, tre anni e allora…
In realtà Le notti sono due.
La prima cambia radicalmente la vita.
Palermo. È notte fonda in casa del professor Giovanni Ribaudo quando squilla il telefono. Sono le tre. Una donna dall’altro capo dell’apparecchio cerca suo figlio. Giovanni, ancora addormentato va in camera di Salvatore. Non lo trova. Non è ancora rincasato. Non si preoccupa. Anche Vera, sua moglie, non si allarma. È normale per un ragazzo di vent’anni, pensano. Ma Salvatore quella notte non tornerà, e neanche l’indomani. Non tornerà più. È in carcere per detenzione di un ingente quantitativo di droga. La famiglia Ribaudo, una famiglia “normale” come ce ne sono tante è stravolta. Però non è tutto. Salvatore è anche in possesso di materiale pedopornografico. In una famiglia “normale” è cresciuto un mostro. Lo sdegno del padre è immenso. La madre tace. 
Il dramma interiore di Giovanni Ribaudo è profondo, ma lui è una persona corretta, moralmente irreprensibile e soprattutto fiduciosa nelle istituzioni, quindi non può far altro che lasciare il figlio Salvatore al suo meritato destino di malvivente. Ma dopo un iniziale smarrimento pieno di sconforto, incredulità, sdegno e infinita tristezza, la voce del sangue prevale, così come la voce della ragione, perché non può essere che un mostro di tal fatta sia cresciuto in quella famiglia “normale” con una madre cattolica praticante e un padre professore di liceo, stimato e integerrimo.
È tutto incomprensibile ma Giovanni dopo avere metabolizzato il fatto si convince dell’innocenza del figlio. Lui e sua moglie non possono aver cresciuto un mostro. Intanto la vita del Professor Ribaldo oramai incanalata in un tunnel nero, si arricchisce del famoso linguaggio “legalese” e al contempo s’impoverisce per l’ingordigia di avvocati e banchieri sempre pronti a lucrare sulle disgrazie altrui. Alla fine ottiene di incontrare suo figlio in carcere.
Salvatore è malconcio. L’hanno preso a botte. Botte da orbi. Prega il padre di tirarlo fuori perché è innocente, ma presto. Presto però. Il ragazzo sa che non c’è tempo da perdere. E, infatti, un giorno a casa Ribaldo arriva la tragica notizia.  Salvatore si è tolto la vita impiccandosi nelle sbarre con un lenzuolo fatto a corda. Non crede sia possibile che il figlio si sia tolto la vita, ma lui, Giovanni ha fiducia nella giustizia. È un uomo retto lui. Sa che ci vorrà del tempo perché è una macchina lenta, ma alla fine tutto seguirà il suo naturale corso. Lui ha una fiducia incrollabile nella giustizia e nella legalità. Nel frattempo la vita del nucleo familiare si stravolge ancora di più, perché Vera, sua moglie, trova conforto nella fede e, lui, dopo essersi prosciugato economicamente, è in procinto di perdere anche il lavoro. La sua fede è nell’innocenza di Giovanni. La fede civile: quella nella giustizia statale con la “G” maiuscola, inizia a vacillare.
La seconda notte cambia ancora radicalmente.
Siamo sempre a Palermo. In un pub, "Il Gatto nero”. Giovanni è disperato. Beve. Perché oramai Giovanni beve. È con il bicchiere in mano quando incontra Tony, un suo vecchio amico di gioventù. Una frequentazione di quelle pericolose. Tony è un criminale. Lo è sempre stato, ma ora lo è di più. Ora è un mafioso, “di quelli giusti”. È una frase di Tony che gli fa cambiare ancora tutto: “Giovà, vuoi sapere qual è l’unico modo per avere giustizia? Ci devi pensare da solo”.
Detto da un mafioso è lampante il perché. Giustizia privata. Anzi, una sola parola: VENDETTA! D’altronde, non era forse il Levitico dell’Antico Testamento del VI-V sec. A.C. a citare che: “Se uno farà una lesione al prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro” e anche se ricorrere al male è sempre sbagliato cosa si deve fare quando non c’è la giustizia o la stessa giustizia è marcia con tutte le sue istituzioni? Anche se le vendette giuste non esistono (Chervantes nel Don Chisciotte), con l’avanzare dell’età, ci si rende conto che la vendetta è ancora la più sicura forma di giustizia (Henry Becque). Giovanni di sicuro non avrà filosofeggiato su questi concetti, ma è altrettanto sicuro che il dolore irreparabile per la perdita del suo unico figlio, dopo averlo frustrato nelle fauci di una tristezza infinita, sola e senza speranza, si sia trasformato in incubo sordo e poi in rabbia sempre più forte fino a desiderare la vendetta come unico scopo di vita, perché così e solo così, può essere fatta giustizia. Così possono pagare i suoi assassini.
Il suo mondo etico è crollato. La sua salda morale è andata a farsi fottere perché la sua certezza nella giustizia dello stato; quella giustizia insegnata, desiderata, voluta e pretesa, è solo una grande illusione e in ogni caso, se c’è, a lui non spetta! E se lo stato non è in grado, di garantirgliela allora l’alternativa è l’antistato. La mafia. E sarà proprio questa a dargliela, anche se nei fatti cosa nostra ha un ruolo marginale, così come la stessa città di Palermo, per niente invasiva, senza i suoi luoghi comuni e le ossessive indicazioni stradali di vie, piazze, ponti e fontane che massacrano il lettore con percorsi obbligati di cui non gliene frega niente.
Una volta ottenuta la sua vendetta, Giovanni è assalito dalla tristezza. È morso, inaridito, dilaniato, da un’infelicità immensa che ha occupato il posto vuoto della voglia di vendetta e da quel momento la vita riprende il suo corso, ma a lui non interessa più niente e così, fino all’epilogo inaspettato della storia.
La notte del gatto nero è un romanzo ben congegnato, convincente in ogni sua parte, pieno di contenuti e riflessioni su alcuni aspetti estremi della nostra Giusta Società amministrata dai forti poteri statali, come Magistrati, Pubblici Ministeri, Tribunali, Poliziotti, Carceri, che non proteggono i diritti individuali anche all’interno delle stesse istituzioni e strutture del garantismo statale. I tristi casi di Cucchi, Uva, Aldrovandi sono purtroppo la brutta conferma di una giustizia forte con i deboli e al contempo asservita ai forti.
Antonio Pagliaro con lo stile dei grandi narratori che riescono a scandagliare l’animo umano narra semplicemente di cose “anormali” che potrebbero colpire una qualunque famiglia “normale”. Narra di cose “anormali” come il male assoluto che da un momento all’altro potrebbe distruggere ogni tuo sentimento, ogni tua granitica certezza, perché esso esiste ed è appostato dietro l’angolo. Da grande scrittore dipinge con maestria l’escalation psicologica di fatti e personaggi restando sempre un passo indietro; facendo parlare solo i protagonisti, con le loro vicende, il loro dolore, le loro scelte. Pagliaro, senza mai sposare il racconto, stravolge con disinvoltura le certezze che certezze dovrebbero essere e non lo sono. Nel suo romanzo non c’è il politicamente corretto, o il lieto fine d’obbligo, o la giusta morale. C’è la fotografia di una certa Italia che non ci piace vedere, narrata con una prosa secca, tagliente e lucida; fatta da brevi frasi, brevi periodi, dialoghi serrati e verosimili, restando sempre fuori dalla scena. Senza mai criticare, o schierarsi, o ironizzare. Senza essere buonista, possibilista, moralista o assolutista. L’unico intento di Antonio Pagliaro è stato quello di dare al lettore, ogni elemento utile per entrare nella storia, appiccicarsela addosso come propria e verosimile, coinvolgerlo negli eventi e stimolarlo alla riflessione senza dare mai il proprio pensiero, perché lo scrittore, anche se presente in ogni passo dell’opera, non si coinvolge nel romanzo parteggiando con i propri convincimenti. Questi sono dei lettori e sono personali, Pagliaro ha dato con precisa maestria tutti quegli input necessari per una riflessione sulla “giustizia”, perché il narrato è chiaro e si commenta da solo, e come i grandi romanzieri ha scritto togliendo il fiato e senza lasciare nulla al caso.
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra

L'ultima esecuzione


ROBERTO GANDUS
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013
Pag. 139

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Questo Romanzo ha due grandi protagonisti: La miseria e l’innocenza, e inoltre fornisce lo stimolo per una riflessione sul tema sempre attuale dell’istituto della pena di morte.
La prima protagonista, la miseria, è strettamente legata alla storia che si svolge nel 1945 a Villarbasse, un piccolo paese in provincia di Torino, proprio all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, scelto dall’autore quale specchio fedele di un’Italia uscita in ginocchio e malconcia dal conflitto bellico. Un’Italia bisognevole di tutto e, in particolare, dei cosiddetti “Bisogni primari” che arrivano anche a decuplicarsi nelle zone rurali, storicamente depresse al sud come al nord del paese. Bisogni essenziali, dunque, che scandiscono i ritmi della sopravvivenza stessa d’intere comunità contadine. Bisogni basilari, forse oggi desueti, come pane e lavoro, ma fondamentali per uscire dalla miseria in una nazione ancora governata dal patriarcato e dai pregiudizi. La famiglia degli Odasso di Villarbasse, protagonista del romanzo ad iniziare dal suo patriarca, racchiude in sé tutte le caratteristiche socio-ambientali e psicologiche sopra spiegate che sono il teatro dove Roberto Gandus ambienta il suo romanzo, riuscendo a rappresentarle così bene e ad incollarle addosso al lettore, soffocandolo con quella aria di miseria e di rassegnata devastante desolazione, fino a dare l’impressione di sentire con mano il degrado morale e culturale che non è solo di Villarbasse, o di un pezzo di Piemonte, ma storicamente è di tutta un’Italia contadina, unita e cementata dalla miseria. Una miseria senza speranza, grottesca e realistica al tempo stesso, dalle antiche pulsioni Verghiane.
Miseria, dunque, contrapposta all’altra protagonista del romanzo: L’innocenza. Innocenza nella sua più grande accezione del termine e violata senza alcuno scrupolo, sia se questa è fresca e pura come quella di una giovinetta, o libera di spirito come quella di una madre, o peggio ancora inconsapevole come quella di un ragazzo malato di mente. In questo climax perfetto, Gandus costruisce personaggi psicologicamente compiuti e in piena sintonia con il luogo, il contesto storico e il degrado culturale, giocando molto su figure contrapposte, opponendo personaggi, gretti, meschini e bigotti a personaggi, semplici, sinceri e soprattutto puri. Dove, sotto la brace di pulsioni ancestrali e ataviche cova una violenza sorda alimentata dalla miseria umana. Il risultato finale è indubbiamente ottimo.
Infine la condanna a morte di un innocente innesca la riflessione sull’opportunità o meno della pena capitale in tema di grandi delitti. Considerazione lasciata al libero discernimento del lettore, perché Roberto Gandus fornisce solo i giusti stimoli per un dibattito, narrando con distacco sempre scevro da un suo qualsiasi pensiero, soprattutto innanzi alla possibilità, seppur remota, di essere applicata su un innocente. In genere questo lo fanno il grandi narratori.
Concludendo, ed a mio avviso, “L’ultima esecuzione” è un gran bel romanzo che gode di una perfetta ambientazione storico culturale e di un altrettanto perfetta costruzione psicologica dei suoi personaggi, in grado di sollevare discussioni su tematiche sempre attuali.

lunedì 24 giugno 2013

Il killer delle maratone


Autore: Paolo Foschi
Editore: Edizioni e/o
Anno: 2013
Pag. 171

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillecafe.it

Meno male che Paolo Foschi è uno scrittore dalla penna prolifica, perché mi stavano iniziando le crisi d’astinenza dal Commissario di PS Igor Attila responsabile della Sezione Crimini Sportivi della Questura di Roma. Meno male che è uscito un nuovo episodio perché mi sono veramente affezionato a questo maledetto commissario e alla sua strampalata squadra di collaboratori, tutti ex sportivi come lui. Tutte promesse mancate a partire proprio da Igor Attila, che alle olimpiadi di Seul si fece soffiare sotto il naso, la medaglia d’oro e il titolo di campione di boxe da un pugile coreano dal nome impronunciabile. Adesso Attila è un Commissario di Polizia, ma il suo carattere individualista, forgiato dai pugni degli avversari non l’ha abbandonato anche quando conduce un’indagine come quella del killer delle maratone che si presenta fin da subito piuttosto insolita e maledettamente complicata. C’è, infatti, un serial killer che uccide un corridore dilettante ad ogni maratona e non usa un’arma comune tipo pistola o pugnale, ma una balestra. Una balestra di precisione, potentissima. Il forte e polemico carattere di Attila durante il corso dell’indagine lo porterà a litigare con mezzo mondo, fino ad essere isolato insieme alla sua squadra, ma Igor Attila è ancora pugile dentro. Lui non è tipo da arrendersi così facilmente e da lupo solitario lavorerà al caso fino a….. Altro ovviante non si può dire perché si tratta di un giallo. Atipico perché ambientato nel mondo dello sport, come i due precedenti Delitto alle Olimpiadi e Il castigo di Attila, ma bello, originale, semplice, dal ritmo incalzante e dalle trovate geniali.

Nei romanzi del commissario Attila, tutto ruota intorno a lui. Tutti sono di contorno e lui fa il bello e cattivo tempo fino ai limiti dell’odio, però ha fascino, tanto fascino e caratterialmente è un personaggio completo e perfetto. Sì, va beh, è un edonista, egocentrico, nevrastenico, indisciplinato e autolesionista, ma è anche un geniale, cocciuto, e tenero poliziotto. Rifugge la tecnologia, ama le chitarre elettriche, corre con la moto e si tormenta il fisico con esercizi fino allo stremo delle forze bevendo di tutto e di più nei suoi forti momenti di depressione. Ha pure dei gusti e delle relazioni particolari, ma questa è un’altra cosa che non disturba affatto il lettore perché Igor Attila ha il maledetto fascino di chi o si ama o si odia.

Paolo Foschi ci dona anche un finale serrato e con maestria di giallista, alterna con sapienza le tormentate vicende della vita personale di Attila alle coinvolgenti fasi delle indagini sul killer, creando un personaggio dal profilo completo in poco più di 150 pagine.

In conclusione, una lettura, veloce, gradevole e soprattutto disintossicante. Da usare quando si passa da un mattone all’altro, però Vi avverto subito che crea dipendenza.